Giuseppe Cappello, Il canto del tempo, Aletti Editore
Intervista all’autore sulla rivista Orizzonti in occasione della pubblicazione del libro in allegato alla rivista
Il canto del tempo segue ad una prima raccolta di poesie, Le danze dell’anima, che lei ha pubblicato con Aletti nel 2006. C’è, in qualche modo, una continuità fra i due lavori?
Le danze dell’anima si dispiega attraverso un confronto continuo con la figura femminile che rappresenta l’interlocutore in virtù del quale si maturano, si astraggono e si risolvono nella lirica quei valori che trapuntano la coscienza universale degli uomini: la bellezza, l’intelligenza e la morale. E’ un confronto in cui questi valori si colgono prima fra i lineamenti fisici e spirituali della figura femminile e quindi si giunge alla consapevolezza di poter cogliere tali valori su di essa in quanto, nello stesso tempo, si è portatori in prima persona di tali valori. Le danze dell’anima sono perciò le danze dell’immaginazione e della lirica fra volti, discorsi e storie di figure femminili; e, poi, le danze dell’immaginazione da questi volti, discorsi e storie, al suo volto, alla sua parola, alla sua storia. Fino alla comprensione ultima che di bellezza, intelligenza e morale, le iridescenze più luminose che possano scandire la vita dell’uomo, ogni individuo ha esperienza, conoscenza e letizia, solo nel gioco continuo delle danze con l’altro. Il canto del tempo prende le mosse ancora da un’interlocuzione con la figura femminile. In virtù di essa, questa volta, si matura, si astrae e si risolve nella lirica il sentimento del fluire del tempo. Probabilmente, fino a un certo punto della nostra vita, viviamo con il sentimento che tutto quello che ci circonda debba e possa accompagnare la nostra esistenza per sempre; che, soprattutto, vi sia sempre una possibilità per realizzare un’occasione esistenziale. Eppure vi è un momento in cui ci capita di sentire che un’esperienza o un’occasione non potrà più ritornare; che una possibilità si sia cristallizzata e su di essa scivolano gli artigli del nostro volere. E’ in quel momento che prendiamo coscienza del tempo. Ancora una volta, la mia esperienza di questa nota costitutiva dell’essere dell’uomo ha avuto come suo elemento generatore l’interazione con una figura femminile. Ma non voglio dilungarmi troppo nel discorso perché spero che il lettore trovi una ricchezza più ampia nelle immagini delle liriche del libro.
Ci ha parlato della continuità fra le due raccolte. Vi è, fra esse, anche una nota di discontinuità?
Bene. Proprio la maturazione del sentimento della temporalità dischiude un orizzonte poetico nuovo: il canto si scioglie maggiormente lungo un pentagramma naturalistico e tesse la melodia di una vita più immanente al quotidiano e più articolata nei suoi interlocutori. Se, infatti, c’è ancora una trasfigurazione poetica dell’esperienza sentimentale, essa si risolve maggiormente in una trasfigurazione lirica di un amore dei dì piuttosto che in un sistema di astrazioni eidetiche. E, con i dì, giunge, come dicevo, anche un riferimento più articolato dell’interlocuzione poetica. C’è lo sguardo all’itinerario spirituale di altre vite e, soprattutto, nell’ultima parte, la necessità di un disegno lirico di quella che è diventata, giorno dopo giorno, una melodia strutturale della mia vita: l’insegnamento e la vita nella scuola. Si tratta innanzitutto del rapporto con gli studenti. E’ un rapporto in cui proprio nei giorni, nell’orizzonte stesso del tempo, si dischiude nuovamente il sentimento delle pulsazioni dell’infinito.
Nel precedente numero di Orizzonti ci ha parlato della continuità fra il suo primo lavoro, Le danze dell’anima, e quello che esce ora in allegato alla rivista, Il canto del tempo. In questa raccolta di poesie, spiccano, nell’ultima parte, le liriche ispirate dalla sua esperienza di insegnate e, più specificamente, dal rapporto con gli studenti. Vorremmo allora approfittare per chiederle dei giovani di oggi. In una intervista a Rai International, che abbiamo ascoltato sul suo sito internet, lei ha ribadito più volte che gli studenti costituiscono la parte migliore della vita scolastica. Ci vuole spiegare cosa intende specificamente in questo senso?
Sulla gioventù contemporanea sentiamo levarsi più voci. Quella che la dipinge come una gioventù attraversata da una forte crisi di valori e ripiegata su esperienze poco edificanti e quella che conserva in essa una fiducia rispetto al futuro. A mio avviso, pur senza nascondere la difficoltà esistenziale dell’attuale generazione giovanile, vale per i giovani quanto diceva, nel segno dell’Illuminismo, Spinoza: “non ridere, non lugere neque detestari, sed intelligere”. Non bisogna né deridere né compiangere né tantomeno detestare il mondo dei giovani; piuttosto bisogna capirlo. Il mio sguardo, allora, è quello di una gioventù che, esattamente come la gioventù di ogni epoca, si confronta con i modelli della società che la circonda. Chi pensa ai i giovani di oggi come a quei giovani che non hanno valori e ripiegano facilmente su esperienze poco edificanti, innanzitutto per la loro vita, dovrebbe guardare a quali sono i modelli che i cosiddetti grandi hanno costruito e stanno costruendo intorno a loro. Non si può chiedere ai ragazzi quello che non si è disposti a dare loro; che non si è capaci di dare loro. Bisogna invece constatare che non sono essi a rifiutare l’incontro con chi li avvicini con le note della credibilità intellettuale e morale e, soprattutto, con il piacere di stare con loro. Spesso si dice, per esempio, “cosa vuoi ormai che interessi a un ragazzo di Dante o di Shakespeare, di Newton o di Kant?” Ritengo che sia l’interrogativo di chi non conosce i giovani e nemmeno Dante, Shakespeare, Newton e Kant. Di chi non conosce quale desiderio di ricerca ci possa essere in un giovane verso la costituzione e il senso della realtà e, al tempo stesso, di quale fascino ci siano nelle opere dei grandi uomini della letteratura, della filosofia e delle scienze che rispondono a queste domande. Il compito dell’insegnante, per entrare nello specifico, è quello di fare incontrare questi mondi. E, qualora si nutra una passione genuina per entrambi questi mondi, il compito non è poi così difficile come potrebbe sembrare. Chiunque ha il piacere di stare fra le pagine di Kant come fra i banchi di scuola può testimoniare sulla bontà intellettuale e morale dei giovani contemporanei e anche ritenere a ragione che la loro capacità di essere felici sia più di una speranza. Anche perché capita spesso, nelle ore di scuola, di essere felici insieme a loro.
Abbiamo parlato, finora, dei contenuti della sua poesia ed è venuto quindi il momento di chiederle qualcosa sul suo modo di scrivere. Cosa ci dice in merito a questa sua esperienza?
Oltre all’evoluzione dei contenuti, posso dire che, nello scorrere della mia esperienza di scrittura, c’è stata anche una significativa evoluzione del modo di scrivere. Quando infatti si inizia a scrivere, spesso è lo slancio emotivo che avvolge la stessa scrittura e può lasciare in essa la “confusione” dell’ispirazione. E’ chiaro che, invece, l’impeto lirico, perché si possa parlare di poesia, deve sempre trasfigurarsi attraverso una struttura formale che organizzi appunto il materiale poetico. In questo senso c’è molto lavoro per chi scrive. Si tratta di lavorare alacremente sul linguaggio e sulla sintassi affinché l’immagine, non perdendo la componente emotiva, si presenti in una trasfigurazione formale cristallina . Per quanto riguarda la gestazione de Le danze della anima il momento dell’ispirazione ha sicuramente anticipato il secondo momento della organizzazione. In Il canto del tempo c’è stata una dinamica più omogenea. Probabilmente, la consapevolezza dell’importanza del linguaggio e della rifinitura formale delle immagini ha incalzato molto più da vicino la stessa ispirazione. Ciò non toglie comunque che sul foglio bisogna sempre lavorare molto. Lavorare anche perché non si cada nell’errore contrario a quello del puro abbandono all’ispirazione. Se l’immagine deve essere intessuta da una tessitura formale che la illumini è anche vero che tale tessitura formale deve trovare il limite in cui la luce può diventare abbagliante. Chi scrive, a mio avviso, ha sempre a che fare con la ricerca di un equilibrio: non lasciare incolto il terreno delle emozioni e, allo stesso tempo, non irrigidire e sclerotizzare il loro germoglio in una struttura formale asettica.