La stella di Marco Vannini
Ieri è stata scritta una pagina molto buia dentro il libro della affaticata giustizia italiana. E l’urgenza del sentimento detta alla ragione di scriverne. Di scrivere dei venti anni di Marco Vannini su cui riluce una solare giovinezza nel blu del cielo e del mare del litorale romano. Purtroppo una rilucenza che si sprigiona oggi solo da una fotografia. Perché questo ragazzo, in un giorno come un altro di tre anni fa, decise di andare a cena a casa della fidanzata e lì trovò la morte. Vi trovò la morte non per un fortuito incidente ma per la sciagurata fantasia del padre della stessa fidanzata che, incauto militare, pensò bene di giocare con la pistola d’ordinanza puntandola contro il ragazzo che si stava facendo la doccia. Ci sono molti episodi di questi incoscienti giochi che finiscono in tragedia. Ma non molti poi si avvinghiano in un crescendo del crimine come è stato nel caso dell’uccisione di Marco.
Perché di un crescendo del crimine si deve parlare nel momento in cui lo sparatore e la sua intera famiglia, fra le urla lancinanti del ragazzo che invocava la mamma, cominciarono innanzitutto una lunga sceneggiata con l’attento 118 a cui non fu permesso di capire la gravità di ciò che stava accadendo e di intervenire tempestivamente; una lunga sceneggiata in cui chi aveva sparato occultava quanto stava accadendo a Marco e, in una mescolanza terribile di bugie e di tortura, anteponeva i pensieri della propria carriera a quelli del chiaro e rapido prestito di soccorso al giovane che aveva una pallottola conficcata nel corpo. Una mescolanza di bugie e di torture imposta e fatta propria dalla sua intera famiglia nel segno della più crudele e cieca omissione di soccorso che ha condotto Marco alla morte. Perché quando finalmente Marco è stato portato al centro di primo soccorso di Ladispoli (dove lo sparatore si preoccupava di far dire al medico altro rispetto alla verità sull’accaduto) l’eliambulanza non ha fatto in tempo ad alzarsi in volo che subito dai medici è stato evidentemente comunicato al pilota di riscendere a terra perché per il ragazzo non c’era più niente da fare.
Con il volo tarpato in una buia notte ladispolana è stata tarpata la stessa rinascenza del sole di fronte agli occhi di Marco; di fronte agli occhi della sua famiglia. Che almeno avrebbe avuto il diritto di veder brillare nella notte, che certamente sarà la volta poco celeste di questa sofferente famiglia, la stella della giustizia nella scaturigine originaria della verità. E invece, a fronte delle richieste, da parte del pubblico ministero, di 21 anni di detenzione per il capofamiglia e di 14 anni per gli altri componenti familiari, il giudice ha ritenuto adeguata una pena di 14 anni per il capofamiglia e di 3 anni per gli altri. Qualcosa che, pure al netto della stessa presunzione di innocenza che si deve a queste persone fino al terzo grado di giudizio, ha subito gridato nel segno della ripulsa, al di là di ogni tecnicalità giuridica, nella coscienza di chi semplicemente è rimasto umano.
La filosofia del diritto insegna che la forma, nella legge, è contenuto. Ma la filosofia, la nuda filosofia, insegna che il diritto procede a sua volta dalla coscienza morale del giudice; e la coscienza morale del giudice dal tasso di eticità pubblica presente in uno Stato. E’ infatti il giudice che deve sussumere il caso particolare sotto l’universale della legge ed è l’etica pubblica sotto cui ricade la stessa maturazione morale di buoni giudici. Così che è per questo che i giudici possono poi pronunciare la sentenza “nel nome del popolo italiano”. Not in my name … verrebbe da dire in una lingua volutamente altra, in questo caso, dall’italiano. Perché, a nostro avviso, nella grammatica della nostra lingua è stato perpetrato lo sfregio più brutale della grammatica dello stesso universo giuridico.
Con la beffa che grida giustizia al cielo insieme al danno, per cui all’omicida e al suo omissivo (quanto ai soccorsi) e omertoso (quanto alla verità) clan familistico sono state riconosciute le cosiddette attenuanti generiche dove piuttosto noi vediamo solo aggravanti specifiche. Noi che non siamo giudici e leggiamo forse solo grossolanamente nel segno della legge morale che è dentro di noi; e con quel cielo stellato sopra di noi in cui riluce ogni giorno, nonostante tutto, l’astro di Marco.