La democrazia fra Capitol Hill e capitolazione
La democrazia fra Capitol Hill e capitolazione
(pubblicato su l’Espresso online del 7 gennaio 2021 e Domani del 10/01/2021)
A me è capitato così: ho acceso la televisione e mi sono casualmente imbattuto nelle inimmaginabili immagini dell’assalto e dell’occupazione del Senato americano a Washington. L’impressione è stata più forte addirittura di quella dell’abbattimento delle Twin Towers. Se infatti nell’occasione dell’11 settembre lo sgomento era accompagnato soprattutto dal dolore per le persone che stavano perdendo la vita, nella sera di questo 6 gennaio lo sgomento si è coniugato con il dramma delle istituzioni democratiche che presiedono allo svolgimento storico della vita di milioni e milioni di persone; in una dimensione appunto storica e di ordine concettuale.
Molti subito hanno invocato la follia di Trump; a me sono invece subito venute alla mente le immagini dei disordini di agosto del 1991 con cui di fatto è cominciata la disgregazione storico-concettuale dell’altra superpotenza mondiale, l’URSS. Credo che, per fortuna, le istituzioni democratiche americane siano ancora storicamente vitali e dunque c’è da aspettarsi che alla fine il dramma non finisca in tragedia; una tragedia che significherebbe la destabilizzazione totale dell’universo storico e concettuale occidentale come è avvenuto per il blocco sovietico.
Sennonché vedere le immagini dell’assalto al tempio della democrazia occidentale, in seguito alla provocazione continua di chi proprio da quella democrazia è stato eletto solo quattro anni fa, è un fatto gravissimo che non ci deve lasciare pensare nei termini dell’episodicità. Le istituzioni americane e il mondo storico concettuale che vi è dietro, credo siano ancora solide; e lo stesso Biden è un politico che ha dimostrato subito di essere all’altezza di quelle istituzioni, di quella storia e di quei concetti; le sue parole sono state subito nell’ordine della migliore coniugazione della fermezza con la razionalità; di fronte, invece, le parole ancora una volta equivoche di Trump: che ha solo invitato a tornare a casa quelle persone che lui stesso aveva poco prima sobillato scientemente proprio nei momenti precedenti alla ratifica dell’esito delle elezioni presidenziali; richiamato a Washington, sobillato e poi solo invitato a tornare a casa senza nessuna stigmatizzazione dell’accaduto; anzi ribadendo che la vittoria elettorale è stata ‘rubata’ (stolen) e che lui continua ad amare questa gente (‘we love you’).
Ed è sull’equivoco continuo che le istituzioni democratiche di tutto il mondo sono minacciate al di là di quanto è accaduto; l’equivoco è la peggiore arma che si possa usare contro l’avversario, contro la morale, contro la democrazia; perché l’equivoco è l’ipocrisia della logica; quella logica in cui poi i pensieri si coagulano e si fanno carne nelle azioni delle persone. Non è un caso che il più grande filosofo dell’antichità, Aristotele, contro il disfacimento di quell’animale politico e razionale che l’uomo è allo stesso tempo, abbia messo il punto fermo (bebaios) del principio di non contraddizione. E questo principio è il grande malato del nostro tempo; lì dove si dice una cosa e se ne sottende un’altra. Sobillando abilmente gli istinti né politici né razionali di un uomo deumanizzato. Questo è stata la presidenza Trump con i suoi accoliti in ogni regione del mondo, compresa questa nostra provincia italiana.
La speranza è che negli Stati Uniti tutto rientri ma il lavoro lungo e titanico di una rinascita della politica vera sta proprio in un lavoro di igiene logica che è poi coalescente con l’igiene pratica e politica; delle azioni individuali e di quelle collettive. Su questa strada la via è lunga e tormentata (long and winding); in salita e controcorrente. Esige un sforzo personale di tutti senza il quale il crollo dell’orizzonte storico concettuale in cui siamo nati, cresciuti, anche nel dissenso totale, sarà solo stato rimandato. E allora lì si Capitol Hill diventerà Capitol Fall … con una parola che le riassume tutte e due … la capitolazione.
Il tragico errore di riaprire le superiori il 7 gennaio
(pubblicato su ‘Domani’ del 3/01/2021 e la Repubblica del 5/01/2021 )
Non sono fra quelli che sono sempre contro i governi ‘senza se e senza ma’; soprattutto nel caso in specie del difficile compito svolto dal cosiddetto ‘Conte bis’; invece è mia convinzione ‘senza se e senza ma’, in qualità di insegnante si filosofia e storia al liceo, che la didattica sia solo quella in presenza lì dove la didattica a distanza può essere solo un provvedimento di assoluta emergenza rispetto a una situazione di emergenza assoluta qual è quella della pandemia in corso. Fissati questi punti, ritengo che la riapertura delle scuole, peraltro nell’ibrido di una didattica fra presenza e distanza che non sarà né in presenza né a distanza, sia un errore inspiegabile del governo. Più prudente e soprattutto più utile, al fine di tornare presto stabilmente ad una vera didattica in presenza, sarebbe stato prorogare, anche dopo le mescolanze che saranno avvenute nel Capodanno dei teenagers (ma non solo!), la didattica a distanza fino alla fine di gennaio; che poi, con le misure prese dalla quasi totalità delle scuole, sarebbe coinciso con la fine del primo quadrimestre. Più prudente sarebbe stato dunque finire con l’omogeneità didattica del primo quadrimestre per preservare l’omogeneità del più auspicabile ritorno a scuola nel secondo quadrimestre dalla fine di gennaio. Speriamo che possa esserci ancora un margine di ripensamento!
Il bivio del nuovo anno fra caos e cosmo
(Roma, 31 dicembre 2020)
Ci apprestiamo a chiudere questo anno, che certamente ricorderemo, e speriamo di aprire una nuova pagina seppure lenta nel suo costituirsi. La messa a punto del vaccino che gli scienziati hanno fatto in meno di un anno ha del miracoloso e veramente non si riesce a capire come, piuttosto che a loro, le preghiere debbano essere rivolte a quelle persone che credono di trovare un significato alla loro esistenza nella solo ottusa e stupida riottosità a vaccinarsi. Comunque grazie al buon senso della maggior parte delle persone anche questi titanici eroi del nulla potranno godere della famosa immunità di gregge e dunque non c’è troppo da preoccuparsi.
La preoccupazione con cui invece si apre il nuovo anno è un’altra: l’impiego dell’ingente somma di denaro che arriverà con il Recovery Fund; e qui il nostro pessimismo è cosmico come quello dello poeta di Recanati. Investe un cosmo ovvero, stando all’etimologia greca del termine, un ordine. Quell’ordine che si è costituito nelle nuovo mondo delle «magnifiche sorti e progressive» 2.0 per cui ora tutti sono in ansia per i ‘progetti’ lungo cui dovranno essere spesi i miliardi di euro che vengono dalla così vituperata Europa al cui tavolo oggi tutti vorrebbero sedersi pur di partecipare alla spartizione del bottino; ma appunto non è tanto su queste bassezze politiche che un pessimismo alto possa temere; il pessimismo cosmico sul Recovery Fund è sulle affermazioni per cui questi soldi dovranno essere ‘spesi bene’. Sui progetti giusti. Con il che quando si ascolta la parola ‘progetto’ tremano le vene e i polsi a chi invece è rimasta cara ancora la parola ‘idea’; perché queste due parole richiamano due mondi completamente diversi. Quello per cui i soldi finiranno tutti in giga, per potenziare le sinapsi della rete e quello per cui i soldi dovrebbero essere impiegati innanzitutto nelle sinapsi dell’intelletto umano.
Non siamo così ingenui da pensare che oggi si possa fare a meno delle sinapsi dei giga ma pure non siamo nemmeno degradati e trascinati dalle acque torrenziali della «fium@na del progresso» per continuare a pensare che non urga un momento di riflessione sulla riattivazione delle sinapsi dell’intelletto; dello spirito umano. Quel luogo intangibile dove nascono appunto, di contro ai progetti, le idee.
Ma che cos’è è un’idea? Oggi molte persone credono di averne quando lanciano quella che è molto più banalmente e dannosamente una ‘trovata’. No! L’idea è quell’atto dell’intelletto con cui appunto la mente riesce a ricondurre la molteplicità dei fenomeni che gli sono di fronte all’unità di un pensiero. Con il che si distingue fra una persona che pensa e che si pensa e una persona che si dis-pensa e si disperde; fra una società che pensa e che si pensa e una società che si dis-pensa e si disperde. Quella dispersione che è frammentazione dell’io della persona e del noi della società che porta alla psicosi e dell’io della persona e del noi della società. Che avanza dentro il movimento centrifugo di quell’apparenza dell’unità e del futuro che appunto brilla di fronte agli entusiasmi ciechi di uomini e donne dei progetti; di contro al sempre più ritirato mondo del movimento centripeto dell’essere vero dell’unità e del futuro che tende sempre più a impallidire di fronte alla residualità di uomini e donne delle idee.
Questo è il bivio di fronte a cui l’io e il noi stanno di fronte già da molto e soprattutto con l’epocale crisi (proprio nel senso etimo-logico che il termine ha) del Covid; esattamente il bivio del caos da una parte e del cosmo dall’altra. E appunto, fra i soldi del Recovery Fund e una più generale visione dell’uomo, si leva il nostro pessimismo cosmico; ovvero letteralmente il pessimismo sul fatto che lo schizofrenico mondo contemporaneo possa prendere la via ordinata del cosmo rispetto alla tossicodipendenza gigacentrifuga del caos.
Massini e la vulgata fra scuola e spettacolo
(28/12/2020)
Domenica, alla ricerca di un programma televisivo, con cui distendersi un po’ la sera e concludere questo fine settimana natalizio dove abbiamo trovato il vero Natale, nell’intimità del calore familiare, a dispetto di tutti gli altri che sono in verità i Natali ‘diversi’, mi sono imbattuto nella trasmissione ‘Ricomincio da Rai Tre’ condotta da Stefano Massini e Andrea Delogu. Un’ottima trasmissione per la ripartenza del teatro con personaggi noti e persone meno note che ne incarnano lo spirito in monologhi, dialoghi, frammenti e digressioni. In particolare bellissimi i momenti di Elena Sofia Ricci che interpreta Pirandello e Lella Costa in un pezzo di Franca Valeri su Santippe, la moglie di Socrate. Mirabile la danza di un giovane ballerino classico che ha interpretato il Lago dei Cigni di Čajkovskij e, alle parole di Bolle, sull’importanza della danza nell’abbattere l’ignoranza bullistica della discriminazione sessistica, commovente la sua lacrima commossa che il regista ha tempestivamente e sapientemente ripreso scendergli sulla guancia. Insomma un momento di televisione piacevole, lodevole intelligente, a dispetto di tanti altri, con cui sembrava chiudersi la settimana di questo Natale diverso nel suo essere autentico. Sennonché, quando ero disteso nel corpo e nello spirito, la frase che mi fa saltare sul divano. Quella di Massini che elogiando un’irenica situazione di complicità fra registi, attori, operatori dietro le quinte e ogni individuo che operi nel teatro si lascia sfuggire il seguente virgolettato: «perché nel teatro e nello spettacolo non ci sono ruoli, gerarchie, come a scuola fra studenti, bidelli, professori». E’ una frase che se non squalifica tutta la trasmissione è per la valenza che essa ha conquistato con donne, uomini, ragazze e ragazzi, che hanno saputo vivere la scuola come momento di cui è si è nutrita o almeno giovata nell’apprendimento, nella cultura e nella socialità la loro passione. Proprio fra Pirandello, Socrate, Čajkovskij e quanto altro ancora non si può enumerare. E non la squalifica per la maturità di quello spettatore, come nel caso del sottoscritto, che sulla frase lascia cadere un sorriso nella convinzione della canzone dell’Englishman in New York per cui «ci vuole un uomo per sopportare l’ignoranza con un sorriso». Si, perché quella di Massini è una caduta di stile che partecipa del clima di ignoranza che in un modo o nell’altro deve ricadere sempre con il suo discredito volgare (nel senso della vulgata corrente) sulla scuola. Che se effettivamente è malconcia non lo è per le gerarchie ma casomai per la partecipazione culturale a quella temperie spirituale contemporanea per cui proprio «uno vale uno». Cosicché lo studente contesta l’operato del professore, il genitore viene in forza a sostenere il figlio, i presidi chiedono spiegazioni e un po’ tutti si sentono padroni e vessati allo stesso tempo. Niente più e niente meno di quello che accade nella società contemporanea. Niente più e niente meno, vorrei dire a Massini, di quello che accade anche dietro le quinte della televisione e del teatro quando si chiude il sipario o si spengono le luci delle telecamere. Ma forse lì qualche gerarchia è rimasta, di quelle importanti, vere, nutrienti e sane se Flavio Insinna non nomina quasi mai, durante il suo contributo alla trasmissione in questione, il nome di Gigi Proietti e lo invoca continuamente con il termine di Maestro. Che la caduta di stile di Massini non è solo sul gioco irriflesso e alla moda del tiro al bersaglio sulla scuola ma proprio nel pensiero contemporaneo che ognuno debba valere uno lì dove effettivamente poi ognuno solo vuole valere uno e sono in pochi (un’oligarchia sempre più ristretta e invisibile) invece effettivamente a scandire tempi, modi, ritmi e fortune (anche economiche) della società; anche nella sua provincia del teatro e della televisione; a meno che non si incontri un vero Maestro, quale ad esempio Gigi Proietti, che nella consapevolezza del suo valore sapeva poi come condividere questo valore con il mondo dei giovani e in generale delle persone che lo circondava. Questa è la democrazia vera; quella che il buon Massini dovrebbe ricordare proprio dai suoi studi di lettere antiche del liceo e dell’università; che credo abbia avuto buoni Maestri anche lui fra le gerarchie della scuola e della scuola del teatro e li benedica quando vi pensi veramente e magari gli ritorni in mente quel passo di Tucidide su Pericle in cui lo storico dice dello statista e del momento più alto della vera democrazia che fu «di nome una democrazia ma nelle cose il governo del primo cittadino»; si badi bene del primo cittadino, non del primo despota. Che la differenza è abissale: perché il primo cittadino, nella democrazia vera, quella del teatro, della scuola, di ogni attività umana e della società in generale è il potere del primus inter pares che proprio i veri pares riconoscono come tale e per cui lo investono del consenso nel governo della cosa pubblica; pure al netto, si dica, di ogni irenismo che invece non fa altro che dissimulare ipocritamente e strumentalmente, o solo nelle parole alla moda, di che lacrime e di che sangue grondi lo scettro dei regnatori.
Ahi serva Europa!
(pubblicato su ‘Domani’ e su l’Espresso online del 14/12/2020)
In questi ultimi giorni, durante i quali emerge in maniera prepotente il sentimento di dolore per le torture che hanno segnato l’agonia e la morte di Giulio Regeni, è accaduto anche che il Capo dello Stato francese, il Presidente Macron, abbia conferito la più alta onorificenza della nazione al Presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Proprio nel contesto di un incontro che aveva come tema la questione dei diritti umani e proprio a dispetto di quell’amicizia italo-francese che dovrebbe costituire una delle tessiture fondamentali lungo cui si possa leggere la storia europea e immaginarne un suo futuro. Un futuro su cui, invece, proprio alla luce di questi eventi, bisogna porre, pure con dolore, degli interrogativi inquietanti. Quel Mondo Atlantico che aveva messo all’indice i cosiddetti ‘stati canaglia’ si trova sempre di più a dover pagare il suo pegno disonorevole nei confronti di quelli che chiameremo piuttosto degli stati straccioni; sempre di più siamo messi di fronte alle scorribande con cui Stati come l’Egitto, la Turchia, l’Ungheria e la Polonia, fanno il bello e soprattutto il cattivo tempo in Europa. Più ci proponiamo come europei di ‘stringerci a coorte’, quella della democrazia e dell’Illuminismo e più invece dobbiamo fare i conti con la nostra subalternità rispetto a un vero e proprio dispotismo ottenebrato. E’ forse una debolezza che viene da lontano con le due guerre suicide e fratricide del Novecento – che fanno pensare a quelle con cui gli Stati italiani dell’Umanesimo e del Rinascimento si consegnarono al dominio francese, spagnolo ed austriaco – e allora, al di là dei miseri atti di sudditanza nei confronti di questi questi stati straccioni, forse dovremo ancora più preoccuparci della subalternità che sta maturando sempre di più rispetto ai loro tutori: la Russia, la Cina e gli stessi Stati Uniti in cui solo l’elezione di Biden ha messo al riparo, almeno per un po’, l’asse dell’atlantismo. Così, a fronte dell’ottimismo della volontà che ci fa ancora credere a un possibile futuro del nostro Continente, si staglia il pessimismo della ragione nel cui fosco cielo si aggiorna l’invettiva e il lacerato grido dantesco in questi termini: ahi serva Europa, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province ma … e, sull’epilogo, cada almeno una latina pietas a risparmiarci.
Il Natale del Covid fra Socrate e Gesù
(pubblicato su Domani del 4/12/2020 ed Espresso online del 4/12/2020)
Maradona e il mistero dei ludens
(pubblicato su Domani del 27/11/2020)
In questo mondo, in cui siano precipitati fra acronimi e sigle, la scuola è finita fra le magnifiche sorti e progressive della DAD; ci sono anche i POF, i PTOF, i PAI e i PIA; per il mondo dei grandi il tristo MIB e il triste RT; fino al calcio singhiozzato dello stop and go della VAR; ed è proprio da questo e in questo mondo di VAR e CR7 che è arrivata la notizia della morte di Diego Armando Maradona. Chi era costui? Beh, mai acronimo DM10, uomo innanzitutto e innanzitutto un uomo povero; e però un uomo, per dirla con la filosofia di chi nacque a “dodeci miglia da Napoli”, in cui tutta l’animazione vivente dell’universo si era concentrata nel piede sinistro; così come nel ragno tutta l’animazione vivente dell’universo si concentra nell’operosa tessitura della sua ragnatela; o, su per i cieli, nella più ampia tessitura delle costellazioni sideree.
Fino a seguirlo nel suo mancino, dunque, Diego Maradona è stato un uomo; un uomo la cui mancina tessitura dell’estro mise in crisi le più sofisticate ragnatele del Milan di Sacchi; pure quelle, si badi bene, concrezìone in un punto della divina animazione universale.
Sennonché Maradona, oltre che mirabile concrezione mancina della divina materia vivente, fu anche infrazione; infrazione delle leggi degli uomini ma anche infrazione dei doni e delle concentrazioni di Dio … ebbene sì, nella partita che lo portò sul tetto del mondo per consegnarlo a una gloria assoluta, Maradona segnò con il piede mancino quello che fra i goal della storia è stato probabilmente il più divino; concentrazione assoluta di Dio; ma poi, oltre il divino, l’epica mondiale che andava oltre il calcio a vendicare anche un conflitto politico e militare, l’uomo se la andò a prendere nell’esplicazione verso l’universo con la mano; la Mano de Dios. Nel paradosso dentro cui vivono quegli uomini che hanno in sorte di dare del tu all’infinito; di darsi del tu con l’infinito.
Questo è stato allora Diego Armando Maradona … concentrazione del dono e infrazione rispetto a quel dono per cui Derrida ci dice che mai ci si libera veramente dal donatore con cui in fondo sempre si rimane debitori; per questo Maradona è stato, attraverso il calcio, eroe degli uomini che in lui hanno vissuto e il dono di Dio ma anche la libertà tutta umana dalla machina universale dell’universo.
Concrezione e concreazione.
La VAR quel goal l’avrebbe annullato e con esso tutta avrebbe annullata quella capacità degli uomini di dare del tu all’infinito … nel dono e nel furto; così come in ogni contraddizione dentro cui, oltre i sapiens, i ludens intravedono e si fanno essi stessi il mistero dell’universo.
Lì dove anche i numeri diventano parola … AD1OS DIEGO!
Biden e la maturità sociale della libertà americana
(pubblicato su Domani del 10/11/2020 e su il Venerdì del 20/11/2020)
Nel mio pensiero, appresa la notizia dell’elezione di Biden, si sono subito dischiusi molteplici concetti da mettere in ordine e che però hanno presto risolto intorno a un assioma strutturale: un’uscita a destra dalla democrazia liberale è stata scongiurata ma, pena il ripresentarsi del pericolo, bisogna che ora Biden abbia chiaro che il secondo tempo della partita per difendere le istituzioni liberal-democratiche è quello da giocare in attacco; un attacco in cui, leggendo nel fenomeno trumpiano i profondi disagi in cui il capitalismo ha gettato larghi strati della popolazione americana e occidentale, la punta centrale della Casa Bianca dovrà mettere in rete (anche quella del web) l’idea che la liberal-democrazia non può sopravvivere se non a patto di esplicarsi nella social-democrazia. Lo scrisse mirabilmente Guido Calogero così: «Il liberale vecchio era convinto che il liberale non può essere socialista: il liberale aggiornato s’è accorto che può esserlo. Non però, ancora, che deve esserlo». E in questo senso gli americani dovranno intendere le stesse parole di Kamala Harris che, citando John Lewis, ha subito ben detto: «la democrazia non è uno stato ma un atto». E questo atto ora è il compito della maturità sociale di un popolo liberale: gigantesco quanto ineludibile! Ma forse è proprio fra la pandemia del virus che il respiro di un’intera nazione troverà l’energia eolica per la ventilazione del pensiero della libertà con quello dell’uguaglianza.
Lo smart working e il prezzo di un tè caldo
(pubblicato sul l’Espresso del 9/11/2020)
Bisogna chiedersi, in questa Italia spaccata fra chi teme di morire per il virus e chi teme di morire di fame, fra salutisti ed economicisti, se dentro l’aut-aut di questa necrologica binaria non ci stia sfuggendo una terza questione che ancora non vediamo; pure se tutti in un modo o nell’altro ci stiamo facendo quotidianamente i conti. Forse, per certi versi, più di quanto non accada per la salute biologica e quella economica.
Chi non ha a che fare oggi infatti con il lavoro da remoto? E soprattutto: chi, dopo aver blindato le porte del proprio appartamento e predisposto sistemi di grate e di allarmi per le proprie finestre, non ha a che fare con il furto del ristoro, dell’essenza della familiarità e dell’intimità, che sta progressivamente erodendo la nostra vita domestica?
Ad ora temiamo giustamente la necrologia del virus e quella del bisogno ma la pandemia alla fine passerà; quello su cui invece è bene interrogarsi come un fenomeno di lungo termine è l’ulteriore cambiamento strutturale che sta subendo l’organizzazione del lavoro. In particolare nel settore del terziario, infatti, tutta la produzione si sta spostando dai luoghi di lavoro a casa.
Sulle prime rifiatiamo, al di là degli stessi rischi per la salute, per il fatto di poter condurre le nostre fatiche senza muoverci; di poter lavorare nel calduccio delle nostre case. Ed è qui il punto! Siamo sicuri che proprio questo calduccio non sia esposto a un processo di ibernamento e di ibridazione dove innanzitutto il confine fra il lavoro e la famiglia non squilibri ancora di più i termini di questo rapporto in favore del primo? Tanto più che ognuno in famiglia diventa il termine del lavoro di tutti e gli stessi rapporti della più stretta parentela sono esposti a diventare, in una matassa tanto invisibile quanto tossica, pure rapporti di lavoro. Ognuno in casa diventa fatalmente, su molteplici piani, il terminale e il termine del lavoro di tutti dentro il corto circuito se non la pericolosa sovrapposizione della produttività alla familiarità. Tanto più che proprio il calduccio della familiarità diventa sempre più reperibile dall’aspro mondo della produttività. Forse non ci stiamo accorgendo infatti quanto, al prezzo di un tè caldo sulla scrivania, stiamo concedendo di più in termini di tempo al mondo del lavoro.
E qui la questione non è solo un fatto di sovrapposizione fra la nostra dimensione familiare e la dimensione lavorativa; la questione si fa più propriamente economica. Ritiriamolo fuori quel signore che forse troppo in fretta è stato dato morto proprio per essere assassinato da chi lo conosceva e lo conosce meglio di tutti; non ci si spaventi insomma al nome e al linguaggio di Karl Marx; di fronte a quel linguaggio che ci dice che, al prezzo di un tè caldo, le nostre dita che scorrono compulsive sulle tastiere casalinghe dei computer stanno producendo una quantità di pluslavoro di cui nemmeno ci accorgiamo; chi può negare infatti che, con il fenomeno dello smart working, dentro la stessa soglia di stipendio la quantità di tempo che si sposta dalla familiarità alla produttività sta nettamente aumentando? I datori dei nostri lavori questo lo sanno bene; come sanno bene che quel plusvlavoro si traduce per loro in un plusvalore che finisce poi a ingrassare i termini dei loro saggi di profitto. Tanto più che, con le spese dell’energia elettrica, con le spese per il continuo adeguamento della perfomatività di hardware e software e via dicendo, il costo dei mezzi di produzione non è più a solo carico di chi investe ma si sta trasferendo in chi lavora.
Dunque: dentro un quoziente di quantità lavorativa che cresce senza che ce ne accorgiamo (ma chi non lo sente dentro gli affanni e la tossicità informatica!) con cui fa il paio la riduzione dei costi dei cosiddetti mezzi di produzione per chi sta dall’altra parte del terminale c’è forse da chiedersi cosa veramente rimarrà di letale quando il coronavirus passerà ma intanto nelle nostre case avremo portato il virus trojan con cui pensavamo che Atena ci volesse dare un segno del suo favore. Sennonché la dea dell’intelligenza non parla ancora in inglese e, lì dove lo capisse, avrebbe forse un bel ridire sul fatto che tutto ciò che cade sotto il suo dominio possa prendere il nome di smart! Stiamoci dunque ben attenti prima di salutare la comodità di una tazza di tè sulla scrivania come agio e agilità del nostro lavoro.
Il mondo al bivio cieco delle presidenziali americane
(pubblicato su ‘Domani’ del 3/11/2020)
Le elezioni politiche statunitensi si stanno concludendo e fra martedì e mercoledì sapremo chi avrà vinto tra Biden e Trump. Nonostante i sondaggi siano abbastanza netti in favore di Biden non è molto facile, a mio avviso, fare un pronostico; sappiamo che l’affluenza è stata alta e questo, più che a una vittoria di Biden, fa pensare al fatto che gli americani hanno più o meno consapevolmente intuito o capito il valore epocale di questo passaggio storico. Si tratta infatti, al di là delle persone e anche della stessa intera politica interna statunitense, di scegliere se il capitalismo può essere ancora coniugato con le strutture della democrazia occidentale o se tale sintesi non è più possibile; se lì dove i due termini erano sinonimici ora sono irriducibilmente diventati ossimorici. Una vittoria di Biden andrebbe nella direzione di quello che è comunque uno sforzo per conciliare ancora capitalismo e minimali istituzioni liberali e democratiche; una vittoria di Trump, invece, ci direbbe che gli Stati Uniti, nell’umore profondo del suo popolo, hanno intuito che, per non cedere definitivamente l’egemonia economica alla Cina, devono anche essi prendere la strada dell’autoritarismo politico. Quanto vediamo in questo fenomeno della pandemia non ci lascia in ciò ben sperare e anche una vittoria di Biden potrebbe essere il canto del cigno della democrazia americana; il mercato si sta sempre più concentrando, sia per la produzione che per la distribuzione, su un numero ristrettissimo e plenipotenziario di aziende se non proprio di persone (che non sappiamo quanto possano permettersi di lasciare ancora quote di mercato ai piccoli e ai medi imprenditori) e non possiamo dunque non pensare che ciò non abbia il suo riflesso sulla politica; ove vengano meno i corpi intermedi dell’economia non vi è ragione di pensare che debbano permanere i corpi intermedi della politica. Insomma, il cittadino statunitense si presenta di fronte al seggio con un’alternativa drammatica: provare a tenere in piedi le istituzioni democratiche e cedere l’egemonia politica mondiale alla Cina oppure iniziare un cammino verso forme di democrazia plebiscitaria. La questione è terribile tanto quanto abbiamo imparato a capire come sia terribile dover scegliere ogni giorno oggi fra la salute e il lavoro. Più che in un vicolo cieco, siamo oggi nel passaggio epocale e tragico di un bivio cieco; quello in cui si decide la storia o dove forse la storia ha già deciso per noi.
La nuova scuola e il vecchio ebreo
(01/11/2020)
La scuola, come si va sempre di più configurando negli ultimi anni, è ormai diventata il luogo dove si elaborano griglie, progetti, tabelle e ogni sorta di materiale burocratico che toglie ai docenti sia il tempo della didattica quanto soprattutto, lo diremo proprio in una possibile terminologia che accompagna ormai questa rivoluzione, il settaggio delle loro menti e delle stesse emozioni sull’insegnamento. Docenti? Ormai si parla di referenti, coordinatori, staff, team e, più dell’antica cattedra, i piani della scrittura e dell’attività generale sono diventati i cosiddetti ‘tavoli di lavoro’; per tutto, oggi, si dà un ‘tavolo di lavoro’ nella scuola. Sarebbe interessante sviluppare proprio l’approfondimento del discorso sulla nuova figura del docente in relazione allo spostamento termino-logico che lo vede dalla cattedra al tavolo. Ci limitiamo a dire che l’unica cosa in comune che lasciano intendere i due vocaboli della lingua italiana è il legno di cui sono fatti; un legno che sempre di più costituisce poi, al fondo, la croce su cui la didattica viene inchiodata sanguinante e incoronata, più che dall’alloro degli studi, dalle spine sotto cui è finito l’utilizzo delle teste dei docenti; molti si illudono di riuscire a servire due padroni ma su questa via crucis del calvario dovrebbe ammonirli proprio la parola evangelica del fatto che ubbidire a una diarchia non è possibile. Non si può rispondere insieme all’appello di una pseudomanagerialità del mercante e all’officiamento dell’autentica lezione del tempio. Delle due l’una, o mercanti o con-templanti; questa è la scelta che si pone nei termini irriducibili dell’aut-aut al di là delle facili e facilone prospettive dell’et-et. Ma veniamo dal Nuovo Testamento ai nostri “fratelli maggiori” dell’Antico; tanto più che, una volta, scherzosamente, una collega alle soglie della pensione mi disse che sulla scuola io non ero abbastanza “smart” e invece “veterotestamentario”; e di fatti lo ero; ero e sono orgogliosamente veterotestamentario! Lì dove peraltro si racconta un aneddoto di un vecchio ebreo al cui capezzale dell’ultimo giorno tutti i parenti si affrettavano a testimoniare, fra i suoi ultimi respiri, la loro vicinanza e la loro presenza; papà sono io tuo figlio, sono qui eh; zio sono qui eh, nonno sono qui eh! E via dicendo per tutte le filiazioni possibili di Abramo e di Giacobbe. Cosicché l’ultimo soffio vitale del vecchio pare sia stato questo: “sì sì vabbe’, ma a bottega chi ce sta’?”. Ecco, tutti, più o meno consapevolmente e doglianti – ma ce n’è anche per i masochisti che ha trovato il piacere, ricercano uno pseudopotere nonché il surrogato a precedenti fallimenti professionali ai veri tavoli di lavoro – si affrettano intorno al capezzale delle griglie, dei progetti, delle riunioni di staff, dei coordinamenti, dei dipartimenti e così via. Ma, direbbe il vecchio ebreo esalante … sì sì, vabbè, ma a bottega – la didattica – chi ce sta?