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La pandemia e un flashmob filosofico

By admin
febbraio 27, 2020
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Ricevo dal caro amico Orlando Franceschelli, già docente di Teoria dell’evoluzione e politica all’Università di Roma ”La Sapienza” e autore di importati e numerose pubblicazioni fra cui segnaliamo l’ultima In nome del bene e del male (Donzelli Editore 2018); e con piacere pubblico e commento.

Virus, madre natura e stoltezza umana: che significa vincere la guerra contro l’attuale pandemia?

Per un flashmob filosofico

Che l’umanità sappia affrontare con coraggio, determinazione e solidarietà anche le prove più impegnative della vita e della storia, è noto. E lo confermano anche i flashmob con cui gli italiani manifestano la propria reazione contro l’attuale epidemia e la loro gratitudine per ricercatori, medici, infermieri, volontari che in questa lotta comune si trovano in prima linea.

Di questa nostra capacità di re-agire  – o resilienza – specialmente in questi giorni e del tutto comprensibilmente si sente parlare anche con accenti bellici: siamo in guerra contro un nemico invisibile e nessuno deve disertare. Come invece fanno sempre coloro che, con maggiore o minore cinismo, persino delle più gravi calamità cercano soltanto di capire come sfruttarle al meglio per i propri fini egoistici: economici, politici, di vanitosa notorietà. Ma lasciamo pure al loro mestiere i parassiti della sofferenza. E’ a coloro che sono solidali con quanti sono maggiormente provati da questa epidemia che vorrei fare una modestissima proposta, nella speranza che non suoni eccessivamente strana.

L’auspicio che spesso e giustamente si sente in questi giorni è che dalla ‘guerra’ contro l’attuale pandemia si possa uscire non solo quanto prima, ma anche migliorati. E proprio qui è il punto: cosa significa vincere la guerra contro il virus e migliorare noi stessi? Indubbiamente significa contenere e alla fine sconfiggere la pandemia. Ma non dovrebbe significare anche accrescere la nostra critica consapevolezza di come dovremo comportarci in futuro per non ritrovarci di nuovo in simili situazioni? Dobbiamo vincere per poter ricominciare tutto come prima?

Ecco: vorrei proporre una sorta di flashmob filosofico che ci stimoli a dedicare qualche riflessione anche a questo problema: se proprio siamo in guerra, contro cosa dobbiamo lottare per vincerla effettivamente? Soltanto contro i virus che sulla faccia della terra ci sono da prima di noi esseri umani? O anche contro le concezioni e i comportamenti di noi “sapiens” che la terra la stiamo trasformando da ambiente-dimora in ambiente-incubo per un numero sempre crescente di esseri viventi? A cominciare ovviamente dagli esseri umani e dagli animali-non-umani più deboli e più poveri.

E’ facile e del tutto ragionevole pensare che a queste domande ogni donna e ogni uomo risponderà con gli accenti (filosofici, etico-politici, religiosi) che maggiormente sente nelle proprie corde. Ma azzardo una previsione: da questi flashmob filosofici ognuno di noi, come persona e come cittadino, uscirebbe migliorato. E forse più di qualcuno potrebbe fare o rifare – mirabile a dirsi – anche la più interessante delle scoperte. Quella più intimamente collegata alla nascita e allo sviluppo della stessa filosofia, ossia – alla lettera – della ricerca del sapere-saggezza a cui anche noi esseri umani possiamo legittimamente aspirare: la scoperta che esiste una realtà naturale e che di essa siamo parte anche noi esseri umani, con le nostre storie individuali e con tutta la storia della nostra specie. Parte appunto. Anzi:«piccola parte», come ammoniva già Spinoza, non proprietari, dominatori, predatori e chi più ne ha più ne metta.

Se dunque la vittoria che ci interessa riportare sul coronavirus effettivamente non è tornare quanto prima alle concezioni e ai comportamenti ante-pandemia, allora anche qualche modesto flashmob filosofico può aiutarci a capire che proprio da questa pandemia usciremo migliorati se  – e solo se – sapremo confrontarci criticamente con la scoperta o ri-scoprta appena richiamata: col dato di fatto che «possiamoscacciare la natura col forcone, essa tuttavia ritornerà sempre / e furtivamente si insinuerà tra gli ostacoli che le si frappongono» (Orazio, Epistole, I, 10, 24-25). Vale a dire: tu essere umano puoi anche trascurare il dato di fatto di essere parte della natura. Di più: nei confronti della natura puoi essere persino arrogante. Ma in realtà la tua appartenenza a madre natura (antropologia dell’eco-appartenenza) prima o poi torna sempre a farsi sentire.  Prima o poi madre natura ritorna – ma quando se n’era andata? – con tutta la sua indifferenza al nostro destino, al nostro bene e al nostro male, con tutta la sua potenza sovrumana dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande: come virus, come terremoto, come acqua ed aria inquinata, come desertificazione, estinzione di specie, crisi ecologica che non è esagerato definire epocale.

E perché no: può tornare anche come opportunità di migliorare noi stessi. Come nostra resilienza alle crisi. E’ innegabile infatti che della realtà naturale facciamo parte anche noi esseri umani, col nostro impegno a migliorare concezioni, comportamenti, tentativi di essere felici, per quanto è possibile, e solidali verso ogni forma di sofferenza. Questo è il sapere-saggezza che siamo sollecitati a ricercare – e praticare – dalla filosofia, nata appunto come «indagine sulla natura». E dei cui cultori – mi si conceda quest’ultima precisazione – un eminente rappresentante della Grecia classica sentì di parlare in questi termini: «Beato chi ha tratto sapere da questa indagine. Costui non provoca né sofferenze ai concittadini né azioni ingiuste, ma indaga l’ordine eterno dell’immortale natura e domanda: a che scopo è sorto, in che modo, quando? Uno così non cade mai preda di pensieri e di azioni malvagie e di cui dovrebbe vergognarsi» (Euripide, Frammenti, n. 910). Proprio un simile elogio di un’autentica ricerca filosofica mi è riaffiorato alla mente leggendo la risposta di David Quammen – studioso e divulgatore che da anni mette in guardia contro i rischi del passaggio dei virus da una specie all’altra – alla domanda se il coronavirus possa essere definito una vendetta della natura sull’uomo: «Non credo nella metafora della “vendetta della natura” che tende a personificare la Natura come un’entità saggia, con un suo fine e una sua volontà. Non sono così romantico. Concepisco la natura come la concepiva Darwin. […] Quella che gli altri vedono come una vendetta della natura, io la descriverei in questo modo: gli ecosistemi complessi ospitano animali, piante, funghi, batteri e altri organismi cellulari; e tutti questi organismi cellulari ospitano dei virus. Se decidiamo di comprometterli lo facciamo a nostro rischio e pericolo» (“Huffpost”, 9 marzo 2020, intervista a cura di S. Baldolini). Appunto, aveva ragione Orazio, da buon saggio epicureo: veramente faremmo bene a non sorprenderci mai dei “ritorni” di madre natura. E tanto più oggi che disponiamo di conoscenze scientifiche che solo gli stolti possono sottovalutare.

L’ultima intenzione di queste considerazioni è tradire lo spirito di spontanea agilità che anima sempre ogni autentico flashmob. Spirito col quale mi è parso possibile,interessante e opportuno rivolgermi a quanti, specie di fronte all’attuale pandemia, sentono il peso e il fascino di una resilienza anche educativa. Nella convinzione che trovare qualche minuto per riattivare anche la nostra riflessione filosofica su come uscire migliorati da questa guerra ‘contro’ il coronavirus, non è diserzione dal fronte comune. E ancor meno è gusto per le polemiche che dividono. O per i vanitosi sproloqui dei dotti.

Più semplicemente e ben sapendo che letture e occasioni per i necessari approfondimenti indiviuali e collettivi certo non mancheranno: è un invito a rendere esplicitala componente riflessiva che mi sembra animarei flashmob contro questa pandemia. Essi ci ricordano che proprio alle attuali, planetarie «urgenze della storia» (K. Löwith) dobbiamo imparare a reagire anche migliorando noi stessi e le nostre società.

Non è questo messaggio di saggia resilienza anche filosofica che, in definitiva, stiamo cercando di trasmettere anche in questi giorni? Non è nella possibilità di migliorarci che viene alla luce il senso più autentico e apprezzabile di ogni esortazione a capire sempre meglio le cose – le opportunità e i limiti – che ci riguardano come esseri umani e co-abitanti di questo fragile pianeta? Di ogni esortazione a essere più consapevoli e mai dimentichi – come in modo davvero toccante ed esemplare Gramsci ha saputo raccomandare al figlio dal chiuso di un carcere – che nella storia, e persino tra le sue sfide più impegnative e brutture più atroci, hanno sempre agito, agiscono e agiranno anche«gli uomini viventi […], tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi»?

Gramsci chiudeva la breve lettera al piccolo Delio con un paterno: questo modo di guardare alla storia «non può non piacerti più di ogni altra cosa. Ma è così?».

A noi può bastare il semplice augurio di un buon flashmob anche filosofico a tutti.

Orlando Franceschelli, 16 marzo 2020

* * *

Il demosieuein appetto alla natura

Ho ricevuto già alla data del 18 marzo il prezioso articolo dell’amico Orlando Franceschelli e dopo un’avida lettura, la cui “ruminazione” è stata come al solito ben ripagata fra le note della letteratura, della scienza e quindi della filosofia, mi sono affrettato a pubblicarlo sul mio sito perché l’ostia del pensiero fosse condivisa in una sorta di simposio platonico 2.0 che questo tempo ci permette nelle sue potenzialità mediatiche e per altro verso ci concede per il momento solo nelle restrizioni di un’agorà virtuale. L’auspicio è di riprenderlo nel dialeghesthai di un consesso dal vivo in cui chiedere e dare ragione gli uni agli altri come accadeva nell’agorà ateniese e nella sua generale vita pubblica prima che la filosofia si rinchiudesse nell’Accademia del’uomo dalle ampie spalle.

Oggi, di accademie ne sono fiorite molte, salvo il fatto di sfiorire spesso nella filo-crazia di uomini e donne le cui spalle non possono certo vantare l’ampiezza della filo-sofia della Repubblica e del Simposio, del Fedro e del Timeo. Di contro dunque all’idioteuein (il guardare e il vivere privatistico) accademico della filocrazia, l’articolo di Franceschelli ha il pregio di ricondurci al demosieuein (il vivere pubblico) della filosofia.  Di contro all’idioteuein cronachistico, le questioni che lo scritto solleva, fra Löwith ed Euripide, Orazio e Leopardi, sono quelle per rialzarsi al demosieuein “appetto alla natura” che hanno segnato la stessa origine della filosofia nelle passeggiate dei fisiologi ionici (oltre a i Milesi pensiamo pure a Eraclito). Le passeggiate che, nella scalata in cui il mito si sollevava al logos, trovavano il loro ristoro in quell’agorà d’altura in cui gli uomini si ritrovano appetto alla natura; appetto al cielo stellato sopra di loro.

Molte filosofie, pure notevoli, sono cadute nelle secche di una logologia che all’autoreferenzialità accademica hanno fatto seguire la più riprovevole hybris dell’autoreferenzialità del pensiero. Smarrendo quella ierogamia fra logos e physys che unica può essere la cifra di ogni vera filosofia. Lo scrive Pohlenz magistralmente nelle pagine di una delle più belle opere che siano stato scritte sul mondo greco: «Il logos compì la sua più grandiosa conquista pervenendo subito alla scoperta di un concetto che lo integrò dal lato obiettivo e gli fornì la chiave onde comprendere il mondo nel suo complesso: alludiamo al concetto di physis, che, nella sua forma latinizzata natura, diventerà la pietra angolare del pensiero europeo […] Dalla crescita delle piante (phyesthai) – questo concetto- lo si trasferì non solo alla vita animale, ma al mondo intero, con tutti i suoi oggetti […] Logos e physis sono i presupposti indispensabili di ogni scienza. Con la scoperta di questi concetti gli Elleni hanno assunto la funzione di guide spirituali dell’Occidente».

Löwith, fra gli smarrimenti di tanti anche più famosi logologi del Novecento, ce lo ricorda a chiare lettere in tutta la sua opera e ora Orlando Franceschelli fa il punto negli stessi termini, in questo frangente epocale che stiamo vivendo, col il richiamo alle parole di Orazio: «possiamo scacciare la natura col forcone, essa tuttavia ritornerà sempre / e furtivamente si insinuerà tra gli ostacoli che le si frappongono» . Probabilmente, a dispetto degli uomini della cronaca che si affrettano troppo presto a parlare di guerra (ricordiamo che, in Europa, l’ultima guerra vera fece 50 milioni di morti, 20 milioni di profughi, un genocidio e, a fianco degli esperiementi Mengele, anche quelli di Truman a Hiroshima e Nagasaki.) la pandemia fra sei mesi (l’ultima guerra durò sei anni) sarà stata sconfitta; e forse anche le struggenti immagini delle bare in uscita dal  dal cimitero di Bergamo per andare ad essere tumulate lontano anche da una almeno corrispondenza di amorosi sensi saranno state dimenticate.

Ed è allora lì che la guerra si aprirà: ritornare dopo le depressioni di questi giorni alle euforie della movida? Quella dell’alcol per i giovani fino a quella dei festival della filosofia per i logologi? O uscire più sobriamente da chi frequenta queste piccole agorà, ancora milesi e ancora ateniesi, con la consapevolezza che se c’è una guerra, oggi, è quella di un genius temporis che assolutizza il quotidiano, il relativo, e relativizza ciò che deve essere vissuto sub specie aeternitatis? Che assolutizza l’unione della mente con ogni tipo di “mercatura” e relativizza “l’unione della mente con la natura”?

(Giuseppe Cappello 24 marzo 2020)

 

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Chi è Giuseppe Cappello

Giuseppe Cappello è nato a Roma nel 1969.

Dopo gli studi classici si è laureato in Filosofia presso l’Università di Roma «La Sapienza».
Insegna filosofia e storia al Liceo.

Ha pubblicato diverse sillogie di poesia: "Le danze dell’anima" , "Il canto del tempo", "Il gioco del cosmo", "Scuola", "Dì d’infinito" e "Vita nuova".

Autore del libro "Viaggio in Grecia" e ultimamente anche di un CD musicale dal titolo "Days of Infinity".

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