Il sorriso dolceamaro dell’eterno
Estratto da Dai Greci ai Police e dedicato ad Agostino Di Bartolomei
Finalmente il 30 maggio era arrivato. Un giorno che in fondo era nato l’8 dicembre 1982 quando, dopo aver perso uno a zero col Colonia di Pierre Littbarski in Germania, i goal di Iorio e di Falcao all’Olimpico avevano annunciato all’Europa questa nuova squadra … la Roma. Ne aveva dovuto prendere atto anche la Signora del calcio italiano. Nonostante l’anno prima avesse imposto la sua legge al Comunale di Torino nel modo in cui, tredicenne, imparai a conoscerla, il 1983 non lasciò spazio a nessun fischietto. La nuova squadra che si era annunciata all’Europa divenne lei intanto la vera signora dell’Italia. La Magica. Con un pareggio a Marassi con il Genoa, l’8 maggio conquistò il campionato italiano. La festa fu il 15 maggio all’Olimpico. Tre a uno al Torino per il trionfo in un Olimpico impazzito di gioia. Le magliette dei giocatori fra le tribune e Tancredi, Nela, Wierchowood, con Ancelotti, Falcao, Maldera, Conti Prohaska, Pruzzo, Di Bartolomei e Iorio a portare intorno alla pista d’atletica un enorme tricolore. Poi l’invasione di campo. Da Roma Colonia mi ero portato indietro una di quelle migliaia di bandierine che, militante tredicenne nelle fila degli Ultrà Roma, avevo per giorni concorso a fare; di Roma Torino ho ancora a casa il quadretto con il biglietto della partita e uno stralcio di erba dell’Olimpico. Insieme alla cornice più grande dei biglietti delle partite che appunto portarono la Roma all’appuntamento del 30 maggio del 1984 … la finale di Coppa dei Campioni. A Roma! Così aveva voluto la sorte.
Era stata una lunga marcia e ricordo ancora come non andai a scuola (facevo il V Ginnasio) per mettermi in fila dalla mattina presto per non perdere quell’appuntamento con la storia. In realtà mi arrivò pure un secondo biglietto da quelli che la Roma aveva riservato agli appartenenti degli Ultrà. Era un biglietto sui generis. Stretto e lungo, in arancione e rosso, aveva la figura del Kappa di Cuori. E poi ancora una nota: era per la Curva Nord ma la Roma li aveva sottratti a quelli riservati ai tifosi del Liverpool e destinati a noi del Commando timbrandoli cola scritta ‘Curva Sud’. L’altro biglietto, che avevo conquistato in una giornata di attese e anche di scontri fuori dai botteghini della Tevere laterale dell’Olimpico, da cui uscii indenne solo per una fatalità, lo vendei. Insomma fu con il biglietto Curva Nord con il timbro Curva Sud che il 30 maggio del 1984 entrai all’Olimpico. La mattina alle 11.30.
La partita era alle 20.45. Ancora un’eternità da aspettare soprattutto che, mano mano che i minuti passavano, l’adrenalina saliva e il tempo si dilatava. Ma fra i canti e l’allestimento della scenografia non era difficile, per un quindicenne fra gli amici e al centro di quello che a quell’età può costituire il centro della storia, sostenere l’attesa. Il cui tempo sospeso fu interrotto dal costituirsi improvviso di una grande macchia rossa nella Curva opposta. La curva Nord, la curva riservata a quelli che avevano lo stesso mio biglietto ma senza il timbro: La curva riservata ai tifosi del Liverpool. Se ci penso ora l’immagine mi fa l’effetto di una grande armata di popoli provenienti dalle remote province dell’Impero che si parava di fronte alle mura di Roma. Mura forti. C’eravamo noi ma c’erano soprattutto quei Pretoriani di Cesare che erano stati rinforzati, rispetto all’anno dello scudetto, con l’arrivo di uno dei giocatori più straordinari che ha conosciuto il Campionato italiano: Toninho Cerezo. Un grande giocatore ma, ebbi modo di sentire molto più in là nel tempo da uno di quei romani con la voce roca che stavano dentro le viscere di Trigoria e ne erano appunto la parola, il più grande che avesse brillato in umanità dentro quei cancelli.
La partita iniziò! Il tempo si era svuotato e il vetro della clessidra lasciò improvvisamente il campo al cuoio del pallone. Girava lento quel pallone: il timore e il rispetto dei blasonati uomini del nord nel cuore dell’Impero e, viceversa, quello di un’Urbe che sapeva come solo Cesare aveva fino ad allora domato quelle popolazioni. Il tempo sembrava essersi rimpossessato del campo e trascorrere lentamente in attesa del parricidio di Giove nei confronti di Crono. Che arrivò come una mazzata. Un’incertezza difensiva fra Tancredi e Bonetti insieme a un arbitraggio molto all’inglese che non rilevò un fallo sul portiere giallorosso e il Liverpool passò in vantaggio. Lo scoramento, qualche recriminazione, ma poi subito di nuovo i canti. A sostenere il manipolo guidato dallo stratega svedese che aveva fatto il capolavoro dello scudetto e poi della finale della Coppa dei Campioni. Non l’abbiamo nominato finora ma Niels Liedholm era il console glaciale e ironico che Dino Viola aveva voluto alla guida della sua Roma. La freddezza e l’ironia sono le carte vincenti per guidare con la dovuta saggezza il cuore palpitante di Roma. Un cuore la cui dinamica fu messa a dura prova, in un’azione che dalla Curva Sud ricordo avvolta nel mistero sotto le nebbie nordiche della Curva del Liverpool, dal capolavoro del Bomber che ristabilì la parità. Roberto Pruzzo con un con un sorta di rovesciata di testa aveva infilato il pallone alle spalle del portiere del Liverpool. Roma aveva risposto! Fra gli spalti il furore. Non ricordo niente se non i capitomboli che la marea ultrà provocò a ognuno di noi nel suo ondeggiare impazzito. Il cuoio di nuovo al centro per essere inchiodato sull’uno a uno finale. L’uno a uno dei tempi regolamentari e poi di quelli supplementari.
Lo stillicidio dei minuti e quello dei calci di rigore. Così si sarebbe spezzato di nuovo quello sfrenato movimento paralitico che dal campo rimbalzava nel cuore di ognuno. E, a differenza del goal del pareggio di Pruzzo, non sarebbe stato avvolto fra le nebbie nordiche della curva opposta; i rigori si sarebbero battuti nella porta sotto la Curva Sud. Il timore e il tremore! E la speranza contro ogni speranza era riposta nei guanti di Franco Tancredi. In quelli confidò ogni romanista che sapeva come fossero specialisti nel fermare la palla dagli undici metri. La monetina dell’arbitro volteggiò e la serie dei cinque rigori doveva essere aperta dal Liverpool.
Non vado a vedere su wikipedia … sono passati trentasei anni ma il giocatore che andò a battere il primo rigore me lo ricordo bene. Neal aprì il tuono di Giove sui cieli di Roma. La palla calciata fuori. E allora Lui … il Capitano. Mi vengono i brividi a scrivere il suo nome … Agostino di Bartolomei! Due sicurezze: il coraggio senza esitazioni di Roma e il fendente potente del tuono di Giove. E questo fu. Nel punto più alto della parabola degli uomini l’eroe si india nelle forme del suo Nume. Questo fu il rigore di Ago: il coraggio senza esitazioni di Roma e il fendente potente del tuono di Giove. Di nuovo il furore della Sud che trascinava tutto lo stadio in un’ordalia di gioia. Eravamo avanti. Eravamo avanti! Durante la partita due specialisti giallorossi dei rigori erano dovuti uscire: Toninho Cerezo e il Bomber! Roberto Pruzzo. Ma intanto toccava agli inglesi, che segnarono. Bisognava rimanere avanti! Dopo il coraggio di Roma nella potenza del tuono di Giove ci aspettavamo che sul dischetto arrivasse colui che a Roma era stato eletto dio fra gli dei. Paulo Roberto Falcao. Non venne. Roma doveva attingere dal suo carburante latino. Venne così Bruno Conti. “Di Bruno ce n’è uno e viene da Nettuno” era il modo con cui la Curva lo invocava a ogni battaglia. E lui, reduce dalla conquista della Coppa del Mondo in Spagna con la Nazionale, venne sul dischetto del rigore per questa nuova conquista romana. Marazico, così avevava imparato a chiamarlo tutta Italia dopo le prodezze grazie a cui la Nazionale eliminò al Mondiale prima l’Argentina di Maradona e poi il Brasile di Zico. Marazico scelse la classe per tirare quel rigore … forse il dio Nettuno dovette irritarsi per una palla che non era stata scagliata con la stessa potenza del tuono di Giove. La partita probabilmente si stava giocando sui cieli di Roma. Intanto un nuovo inglese a tirare e un nuovo goal. A questo punto ancora un uomo della legione latina: Ubaldo Righetti nato a Sermoneta. Faceva parte della coppia difensiva insieme a Bonetti. Freddo …. senza esitazioni! Il pallone scagliato in quella rete che tornava a riempirsi di speranza. Ancora uno dei perfidi albioni sul dischetto e ancora una realizzazione. Avanzava a mettere la palla dagli undici metri Ciccio Graziani. Anche lui dalla legione latina dell’Urbe. Il pallone calciato alto. Quanto stiamo … ricordo solo questo e ancora adesso che scrivo ho perso il conto.
Fermiamoci a ragionare.
Su quattro rigori tirati a testa … tre a due per il Liverpool che si ripresentava dal dischetto. Non c’era altra speranza che nella mano di Franco Tancredi. Se il Liverpool avesse segnato avrebbe vinto la Coppa dei Campioni. Una speranza contro ogni speranza che con la sua mano l’angelo di Dio fermasse quella stilettata mortale dritta al cuore di Roma. Ma la mano dell’angelo di Dio non si levò. In un attimo, con il tiro dentro l’arco inglese, precipitati tutti nell’Infermo. Questo divenne lo Stadio Olimpico. Un anello infernale. Io ricordo di aver perso di colpo la vista degli amici con cui ero andato allo stadio e poi solo le lacrime seduto con le mani fra la testa sul travertino dell’Olimpico. Ancora adesso che scrivo non so dove mettere le mani che si dibattono fra i tasti della tastiera e la fronte per trovare una parola con cui chiudere. E in questo smarrimento letterario, come allora lo fu quello calcistico di un ragazzino quindicenne, viene di fronte a me una sola figura … quella di Agostino Di Bartolomei. Il coraggio di Roma e la potenza del tuono di Giove. Quel dio che aveva osato uccidere il padre Crono … il dio del tempo. Mi viene in mente la potenza del tuono di Giove e, nel bagliore di quella saetta, il sorriso dolceamaro di Ago, il sorriso dolceamaro di questa Città oltre ogni tempo che risponde al nome di Roma dentro cui anche le sconfitte più dure diventano leggenda oltre ogni titolo del mondo.