TRUMP HARRIS. IL MONDO A UN BIVIO?
Trump e Harris. Il mondo a un bivio?
(25/07/2024)
Ho appena spento il televisore dopo essermi pazientemente rassegnato a sentire la iattura politico culturale veltroniana che ancora gira e pontifica. ‘O ciauscolo lo battezzò mio suocero, antico comunista sabino, riconducendone la fisionomia e la valenza politica al salame con gli occhiali disegnato da Jacovitti; gli faceva eco il disappunto di mio padre, antico comunista del profondo sud ibleo, al tempo in cui il nostro si inventò quella pallida nebbia diurna in cui tutte le vacche (PDS/DS e PPI/Margherita) diventavano bianche.
Poi, sia il vecchio comunista sabino che il vecchio comunista ibleo il PD lo hanno sempre votato. La vecchia scuola comunista della disciplina di partito, dell’unità e di un sempre aborrito settarismo dello zerovirgola non gli fecero mai fare l’errore ancora peggiore di cadere nella calamità dell’anima imbelle bertinottiana. Anima imbelle che non riusciva a trattenere i suoi istinti più ciechi quando, da Presidente della Camera, scendeva in piazza a manifestare contro la maggioranza che lo aveva eletto allo scranno più alto di Montecitorio; ma la possiamo solo lontanamente immaginare Nilde Iotti, durante i suoi due mandati alla Presidenza della Camera, in questo corto circuito politico, istituzionale e ancora più a fondo esistenziale?
Insomma, questo solo per dire in quanta sofferenza vive chi ha ancora a cuore la l’idea di una certa sinistra; l’idea della democrazia progressiva all’interno delle forme e dei limiti della Costituzione e dello Stato di diritto.
Sennonché da quello che sta succedendo nel mondo e dalle pagine riportate dalla cronaca e dalla politica internazionale la sofferenza per il declino della sinistra si acuisce in una ancora più preoccupante e preoccupata sofferenza per lo Stato di diritto.
È chiaro infatti che le elezioni che si svolgeranno negli Stati Uniti a novembre saranno un passo dirimente non più per il conflitto nello Stato di diritto ma per il conflitto sullo Stato di diritto.
Con tutte le loro storture e puranche le loro ricorrenti nefandezze (ma quale scettro mondano del potere non abbia giammai avuto a dover grondare di sangue?), gli Stati Uniti e l’Europa costituiscono ancora gli unici fronti popolari della democrazia; dirimpetto ci sono innanzitutto la Cina e poi la Russia. Non tanto più dirimpetto ma ormai tracimanti fra le nostre stesse istituzioni politiche occidentali. Che hanno certamente avuto il tragico demerito di pensare di esportare la democrazia con la guerra e non accorgersi che invece stavamo sempre più importando elementi di autocrazia con una sregolata globalizzazione. Più andiamo avanti e più questo fenomeno è evidente.
Trump è il testimone storico tragico di quanto un La Russa può essere invece il testimone comico. Tragicomico. Forse il termine tragicomico è più adatto se persino Mattarella, uscendo dai suoi toni e dal suo à plombe istituzionale e caratteriale, ha sentito il bisogno di stigmatizzare quanto il Presidente del Senato ha avuto a dire sui fatti del pestaggio dei picchiatori di CasaPound nei confronti del giornalista de La Stampa.
Insomma chi ha un po’ di buon senso ha modo di accorgersi che il mondo è a un bivio; un bivio che sarà sciolto dalle prossime elezioni statunitensi. E probabilmente nemmeno da quelle se dovesse vincere Kamala Harris.
Trump ha promesso una guerra civile e un bagno di sangue. Il punto, a mio avviso, è che non ce ne sarà bisogno. Perché Trump, mi duole solo pensarlo, vincerà le elezioni. E non le vincerà semplicemente per il tasso di violenza con cui conduce la campagna elettorale. Le vincerà perché è l’interprete di qualcosa di profondo che si sta muovendo nel mondo ovvero l’incompatibilità del sistema di produzione economico planetario con l’involucro politico democratico. E purtroppo questo non gioverà, come pensava Marx, alla dittatura del proletariato e all’istituzione del comunismo; gioverà piuttosto alla dittatura di élites sempre più ristrette che nella politica hanno i loro agenti in Xi, Putin e appunto Trump. Il finanziamento stratosferico di Elon Musk alla campagna elettorale del Tycoon ne è un documento inequivocabile.
Soprattutto per quella sinistra settaria e fuori da ogni disciplina (da quella di partito a quella concettuale) che dovesse pensare nel segno dell’ antiquariato maoista secondo cui: “grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è favorevole”. La confusione è sì grande ma sotto il cielo ci sono Trump e Xi, Putin e Le Pen (da non dare assolutamente e ingenuamente per sconfitta), Hamas e Netanyahu, Allianz für Deutschland e Vannacci.
Spero fortemente, con ogni mia energia, di sbagliare ma temo altrettanto fortemente che purtroppo le cose finiranno con il bagno di sangue della libertà; l’uguaglianza è già prossima ad aspettarla dirimpetto al sepolcro della civiltà.
Che fare comunque, si chiederà giustamente, per non rimanere solo a guardare? Credo che la via praticabile ce la dia in una dote irriducibile la fraternità; così da chiamarci a concimare del limo della razionalità quei semi di benefficienza reciproca che ancora ci sono concessi nei più carsici e irriducibili antri fluviali delle relazioni umane. «Fai quel che devi – ha insegnato Kant – accada quel che può».
(1/06/2024)
Fra i momenti più significativi che hanno contrassegnato questo maggio che ci ha appena congedato, devo certamente segnare nella mia agenda la partecipazione al Festival della Cultura Umanistica che l’Accademia Marsilio Ficino organizza annualmente a Figline Valdarno. Una manifestazione giunta ormai alla quinta edizione in cui si incontrano esperienze emotive e riflessive disposte tanto a parlare tanto ad ascoltare; tanto a parlarsi tanto ad ascoltarsi. Ci si alterna fra l’uditorio e il palco da cui si parla senza che il paio di gradini che si salgono e si scendono diano quel senso della trascendenza con cui troppo spesso oggi sulle varie tribune salgono tanto i concetti vuoti di una sinistra senza intuizione tanto le intuizioni cieche di una destra senza concetto.
E’ una manifestazione che ha un valore assoluto. Nel segno di una comunità di varia estrazione culturale, spirituale, emotiva e anche politica che si va velocemente costituendo rapidamente intorno a nutrite passioni individuali che si sono innalzate alla riflessione e che trovano nell’orizzonte di una coagulante amicizia collettiva il loro migliore momento di espressione e condivisione.
Oltre a un’organizzazione mirabile, regista essa stessa permeata e dunque permeante dell’intero tono della manifestazione, certamente anche il luogo fa la sua parte; ci si incontra in una elegante e, al tempo stesso, sobria piazza che prende il nome dal più illustre cittadino di questa rinascimentale comunità alle porte di Firenze; ci si incontra appunto in Piazza Marsilio Ficino dove, sotto un tendone che mette al sicuro l’evento da possibili rovesci naturali di stagioni sempre meno attendibili, si svolge certosina tutta una minuziosa opera di adulti ma anche di giovani ragazzi e ragazze che si adoperano nelle attività più articolate; dalla presenza al bookshop al coordinamento delle telecamere che riprendono e mandano in onda l’evento su un circuito zoom; fino alla vera e propria regìa televisiva; sennonché l’opera con cui queste ragazze e ragazzi dell’Istituto Marsilio Ficino, liceo classico e scientifico che opera nella piccola ed elegante cittadina toscana, accompagnano tutti i momenti della manifestazione e tesaurizzano i crediti di un altrimenti alienante attività di Alternanza Scuola Lavoro (PCTO) arrivano fino al compito dell’intervista agli ospiti della manifestazione che hanno appena concluso il loro intervento.
Ospiti più noti e meno noti ma tutti permeati dal senso di una ricerca personale che discende dalla nascita di un incontro dello spirito e verso l’incontro dello spirito rifluisce.
Il valore della manifestazione, si diceva, è assoluto; ma, riflettendo fra i sobbalzi del mercurio che ci mette di fronte il termometro dell’imbarbarita politica contemporanea, non si può non notare il valore aggiunto di un respiro d’aria d’alta quota a cui il tono dell’apnea culturale contemporanea dà certamente una sottolineatura d’eccezione; così come una sottolineatura d’eccezione che quest’anno ha assunto il Festival è stato certamente il tema che gli organizzatori hanno voluto prestare alle riflessioni degli ospiti che sono scesi fra ascolto e parola su e giù per i gradini fra la platea e la tribuna. Si è discusso intorno all’orbita concettuale della questione posta acutamente in questi termini: ‘la parola terra dell’uomo’. E’ stato questo il tema su cui studiosi della letteratura, dell’arte e della musica, della politica così come dell’economia, delle tecnologie più avanzate e della millenaria filosofia, si sono intrattenuti fra pathos, logos e philia.
Lo abbiamo detto, questo del tema della quinta edizione, un valore aggiunto! Siamo infatti di fronte alla ritrazione della parola rispetto alla permeazione della vita intorno a noi e dentro di noi. Cosicché, volendo citare rapidamente l’adagio wittgensteiniano secondo cui «i confini del nostro linguaggio sono i confini del nostro mondo», giungiamo rapidamente alla conclusione che siamo di fronte alla ritrazione stessa dell’umano rispetto alla vita intorno a noi e dentro di noi; siamo di fronte alla ritrazione della vita nella nostra stessa vita o, se si vuole, della ‘destinazione’ della nostra nostra vita; destinazione espressa bene dalle parole rispettivamente greche e tedesche di aretè e bestimmung. Dentro cui non c’è alcun moralismo.
Che il termine virtù (aretè), come insegna Werner Jaeger nella sua insuperata opera sulla civiltà greca, Paideia, non è che la funzione nel suo grado sommo che ha raggiunto qualsiasi attività di un ente reale. La sua entelechia. Cosa che fa sì che qualsiasi ente reale, con l’inclusione precipua dell’uomo, sia contentus (pieno); onde la parola, da segno tecnico che indica la pienezza di una disposizione, va certamente poi a intessere e a strutturare dall’interno la dimensione morale della virtù e più ancora della felicità.
Momenti come questi, come amiamo dire noi, delle ‘piccole agorà’ non sono certo unici e irripetibili lungo le piazze della nostra Penisola; certo non sono egemoni, come si ama dire oggi, anche da quelli della parte politica che a Gramsci, che ha coniato questo concetto, ha riservato il carcere e la morte in quella che era chiamata una dittatura a tutto tondo; distinta da quella che gli storici hanno già hanno indicato invece (per la Spagna del primo Novecento) con la parola dictablanda anticipando nel concetto quanto oggi nei salotti radical chic ci si affanna per arrivare primi al gioco di Adamo: quello di coniare le parole (democratura, capocrazia etc.) per sentirsi il padrone del mondo; il mondo dei salotti della parola abusata che cerca invano di erigersi a censore della parola abusante.
Parola, quella abusante, della massa che, come scriveva Ortega y Gasset ai tempi della dictablanda spagnola, se prima «presumeva che, in ultima analisi, le minoranze dei politici s’intendevano degli affari pubblici un po’ più di essa», perdendo ogni suo pudore, «ritiene di avere diritto di imporre e dare vigore di legge ai suoi luoghi comuni da caffè»; e ritiene «che l’anima volgare, riconoscendosi volgare, debba avere l’audacia d’affermare il diritto della volgarità e di imporlo dovunque».
Cosicché se i radical chic si aggirano per i loro universi paralleli come «involucri vuoti», il pericolo della ritrazione della parola intorno a noi e dentro noi stessi è il vero agente patogeno radical trash che può mettere capo in Italia e in Europa a quella ‘dictablanda’ in cui l’esaltazione della volgarità nella paideia segni la stessa vittoria della prepotenza nella politeia.
In un nesso, quello di paideia e politeia, che trova la sua radice più profonda, per rimanere al tema della parola, nell’etimo del termine categoria; termine con cui si intende la costituzione di un orizzonte universale linguistico, logico e ontologico lì proprio dove gli uomini e le donne costruivano questo universale ‘katà agorà’ ovvero, ‘secondo la piazza’, ‘in piazza’. Il luogo dell’incontro e dell’accordo per l’unico Adamo che possa dare i nomi alle cose: l’essere umano nella sua dimensione sociale; che spira lontano pure da quella dimensione di massa in cui come scrive ancora Ortega y Gasset «si converte ciò che era mera quantità – la moltitudine – in una determinazione qualitativa: la qualità comune, il campione sociale, l’uomo in quanto non si differenzia dagli altri uomini, ma ripete in se stesso un tipo generico»
Lo scontro allora oggi è quello probabilmente impari fra il Golia delle masse che rivendicano, nel loro campione, a dirsi ed essere stronze e un movimento pulviscolare non elitario e popolare che comunque irriducibilmente piazza per piazza, piccola agorà per piccola agorà, scolpisce il suo David a ogni porta di Firenze; a ogni porta a cui, nei pulviscolari Valdarno d’Italia, bussi quel pellegrino che vede ancora nella parola la terra dell’uomo e non rinuncia, fra la folla e la follia di San Martino, a continuare a risciacquare i suoi panni di essere umano … per essere umano.
La stilettata russa sul comunismo
(16/02/2024)
La morte di Aleksej Navalny scuote profondamente il sentimento in chi abbia maturato l’idea della libertà grazie a un percorso politico che è passato dalla meditazione dei fatti storici fino dentro le maglie di un retto intedimento della filosofia. Tanto della filosofia del diritto che, nel principio dell’Habeas corpus, ha scandito la storia delle battaglie giuridico-politihe dalla Magna Charta fino al caso Cucchi, quanto della filosofia teoretico-politica che c’è dietro alla storia del marxismo europeo; in particolare del marxismo italiano.
Marx, ovvero, soprattutto a sinistra, questo sconosciuto; o, più benevolmente, questo inascoltato. Questo filosofo teoreticamente inascoltato per soddisfare ed inseguire le prurigini di una prassi cieca che appunto non ha avuto e non ha il passo della filosofia della prassi costruita dal filosofo di Treviri. Già dalla tragedia del leninismo fino alla commedia di un certo sgangherato azionismo che ancora si manifesta nei vuoti conati di chi non ha o non tiene fede alla lucida consapevolezza di quanto abbia scritto Marx.
Un filosofo, Marx, che non può essere inteso innanzitutto senza la sua filiazione con la dialettica hegeliana; che non può essere inteso lì dove non si abbia ben chiara la ferma convinzione dell’esule londinese ed editorialista del ‘New York Tribune’ che il capitalismo sarebbe entrato in contraddizione nella iperbolicità del suo meccanismo.
Che non ci sarebbe potuta essere stata nessuna azione rivoluzionaria al di fuori della maieutica della coscienza di classe sul ‘movimento reale della storia. Prospettiva che Lenin abbandonò nelle sue Tesi di Aprile del 1917 lì dove chiamava il popolo russo a operare nel segno della rivoluzione comunista in una realtà socio-economica feudale; totalmente altra da quel tessuto arterioso del capitalismo pronto a ricevere e a dischiudere la fibrillazione intonata del messaggio inscritto nel cuore de Il Capitale.
Non lo diciamo noi, lo scrisse Antonio Gramsci, sempre alla data del 1917, nel suo articolo sull’Ordine Nuovo dall’emblematico titolo La rivoluzione contro Il Capitale. Gramsci aveva bene chiaro come la rivoluzione bolscevica rappresentasse una rottura con il socialismo scientifico di Marx.
Sarà bene, in questo senso, rileggerlo una volta per tutte l’incipit del succitato scritto gramsciano ove si legge: «La rivoluzione dei bolscevichi è materiata di ideologie più che di fatti. (perciò, in fondo, poco ci importa sapere più di quanto sappiamo). Essa è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un’era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale, prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolscevichi rinnegano Carlo Marx».
Una lucida consapevolezza, quella di Gramsci, con cui egli stesso, prima del ripensamento avvenuto negli anni del carcere, aderì alla Rivoluzione; fece sue, proprio sull’Ordine Nuovo, le parole d’ordine dei bolscevichi contro Il Capitale di Marx.
Un abbaglio simile a quello di un cardiochirurgo che, pur di mettere capo alla palingenesi del suo paziente, facesse su un organismo umano, non idoneo a riceverlo, un trapianto pure del cuore più potente. Con il risultato di un rigetto letale.
Ed è stata questa la storia dell’URSS. La storia di continuo rigetto e di un continuo accanimento terapeutico di un trapianto di cuore su organismo e una chimica non adatti a riceverlo.
Come i corpi biologici, anche i corpi sociali sono organismi e in tal senso vanno trattati; vanno studiati nella fisiologia, nelle dinamiche, nelle terapie.
L’URSS arrivò sul tavolo della sala di rianimazione di Gorbaciov dopo settant’anni anni di quella malattia, che risponde al nome di ‘eterogenesi dei fini’, per cui l’epilogo di quel messaggio di liberazione dell’uomo divenne totalmente altro (eteros) rispetto alla sua intenzione genetica. E fece di Gorbaciov quell’eroe tragico della storia che, insieme alla prospettiva della giustizia sociale, cercava di reintrodurre in Unione sovietica la prospettiva della libertà.
Lì dove le parole di un socialista come il Presidente Pertini avevano già fermamente individuato nella giustizia e nella libertà un binomio inscindibile. Dove tutta la storia del Partito Comunista Italiano, «fra le pagine scure e le pagine chiare’» aveva pure essa, da Togliatti a Berlinguer, messo al centro della sua opera politica questa stella polare del binomio inscindibile della giustizia sociale e della libertà. In realtà un monomio!
Parla in questo senso, esattamente al contrario dell’azione dei bolscevichi guidati da Lenin nel 1918, la firma di Umberto Terracini sotto la Costituzione della Repubblica Italiana; i bolscevichi, l’Assemblea Costituente, dopo il voto negativo del gennaio del 1918, la soppressero con la forza.
Questa è stata la specificità del comunismo italiano; la specificità che ha portato quel partito a raccogliere più di un terzo dei consensi del popolo italiano (quando ancora tutti gli elettori si recavano alle urne) nell’ottica del monomio fra la giustizia sociale e la libertà; che approdava alle soglie del ‘compromesso storico’ in cui i due maggiori partiti italiani stavano per dare una direzione irriducibilmente progressista al Paese. Sennonché – nelle parole del plenipotenziario Segretario di Stato americano Kissinger – ‘il comunista più pericoloso’, Enrico Berlinguer e l’inviso Moro furono oggetto, il primo, proprio di un attentato sovietico nel 1973 in Bulgaria e, l’altro, del rapimento di Via Fani del 1978 e di una liberazione abortita proprio per mano della CIA.
Questa è la storia. E di questa storia è tragica espressione oggi la morte di Navalny; espressione di un Paese che da Nicola II, passando per Stalin, fino oggi a Putin non ha mai dismesso i panni del cesarismo.
Non fosse altro che per trattenerci un poco fra l’etimo, diremo come la parola ‘czar’ viene mutuata esattamente dal latino Caesar. Lì dove invece l’etimo lascia il suo testimone alla parola della letteratura raccogliamo un passo di Camus che forse ci dice del Mediterraneo e del cattolicesimo quanto, a nostro avviso, vale anche per la specificità pratica e teoretica del comunismo italiano che ebbe la forza più irriducibile, oltre che del monomio di giustizia sociale e liberta, della fedeltà a Carlo Marx che a sua volta teneva il suo diario in greco antico.
Scrive Camus francese d’Algeria: «Ogni volta che una dottrina ha incontrato il bacino mediterraneo, nello choc di idee che ne è derivato è sempre il Mediterraneo che è restato intatto, il paese che ha battuto la dottrina. Il cristianesimo era all’inizio una dottrina commovente, ma chiusa, prima di tutto giudaica, ostile alle concessioni, dura, esclusiva e ammirevole. Dal suo incontro con il Mediterraneo è nata una dottrina nuova: il cattolicesimo. All’insieme di aspirazioni sentimentali dell’inizio si è aggiunta una dottrina filosofica. Il monumento è stato perfezionato e abbellito – si è adattato all’uomo. Grazie al Mediterraneo, il cristianesimo è potuto entrare nel mondo per cominciare la strada miracolosa che sappiamo».
Per il comunismo italiano, la miracolosa strada che sappiamo, ahinoi smarrita da un novello e improvvisato gruppo dirigente che ha reciso il binomio politeia-paideia, un altro monomio invero, pure quella strada, non si può dire forse per un caso, si è andata costituendo nel cuore del Mediterraneo; nella sua luce il monumento è stato abbellito e perfezionato. Non a caso, nel suo inizio e nel suo epilogo nella Sardegna più che Mediterranea di Antonio Gramsci ed Enrico Berlinguer.
Una strada smarrita politicamente ma non idealmente; ed è proprio in quella luce dell’idea mediterranea che oggi piangiamo la morte siberiana di Aleksej Navalny così come piangiamo la stilettata mortale che in fondo il cesarismo russo ha dato tanto a lui quanto al comunismo.
Hegel e Marx pensatori tragici
(24/01/2024)
Pochi sanno, soprattutto fra coloro che sono stati catapultati con percorsi rocamboleschi nell’insegnamento della filosofia nelle scuole e all’università, cosa Hegel intenda affermare con la proposizione speculativa, enunciata nei Lineamenti di filosofia del diritto, secondo cui «Ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale»; ancora meno sono poi quelli che hanno la lucida conoscenza del fatto che, al fine di legittimare la suddetta proposizione, Hegel ha scritto quell’opera in viva carne che è la Fenomenologia dello spirito. Uno sforzo titanico, nel subodore dell’avvento del nichilismo più di quanto non si sia mai riflettuto, di tenere insieme il mondo e il suo intendimento, l’essere e il pensiero.
Lo sforzo titanico di chi al compiacersi del lutto senti-mentale secondo cui «l’uomo è una passione inutile» (Sartre) aveva capito che questa compiacenza stava diventando la cifra spirituale di un’invecchiata Europa; rinunciataria, nelle scienze dello spirito, a ricercare come ha detto il Nobel per la fisica Giorgio Parisi, «l’ordine nel caos».
Che Hegel non si fosse accorto che, nelle scienze e nelle espressioni dello spirito, il presente fosse gravido di questo futuro, è fargli un torto quanto coloro che hanno preteso addirittura di sputargli addosso; e si fregiano ancora di farlo senza accorgersi che, a tal fine, per la prima volta hanno dovuto innalzare il capo in alto e quindi il suddetto sputo non può aver fatto altro che essergli ricaduto addosso.
Li capiamo ed è un modo di eludere lo studio di un autore che non si può intendere con un poco di nozioni catapultate nella testa in maniera rocambolesca così come si è finiti sulle cattedre del liceo o anche ormai universitarie. Sennonché quello che questi personaggi credono di fare verso Hegel, cercando di far passare il vizio dell’ignoranza per virtù addirittura di una filosofia, bisogna trattarlo alla maniera della vera filosofia; quella con cui Spinoza ammoniva mitemente a «non deridere, non compiangere, non detestare ma cercare di capire». Capire la debolezza che c’è dietro un pensiero e soprattutto uno studio debole, arrendevole, che lascia senza colpo ferire alle scienze della natura il compito di «cercare l’ordine del caos»; o forse, si dovrebbe dire meglio, l’ordine nell’ordine (che se nella realtà non ci fosse un ordine, certo non finalizzato all’uomo, hai voglia a cercare!)
Sulle labbra di uno scienziato questa affermazione suona come una virtù, su quelle del filosofo o del letterato quasi invece come una bestemmia. I cultori delle lettere hanno imparato a bearsi del caos e vedere in quello il loro ordine. L’ordine, ci viene da pensare, di una malconcia conventicola che si scambia conferme, compiacenze e onori (chissà quanto parresiastici) nel segno di un randagismo metaborghese.
Più difficile seguire la coscienza hegeliana dalla certezza sensibile al sapere assoluto. Un sapere, appunto, né onnicomprensivo né tantomeno inerrante quanto invece conquista storica e fenomeno-logica di uno sforzo titanico oltre lo scacco che alle categorie logiche dell’uomo non dovessero effettivamente corrispondere altrettante tessiture dell’essere. Che «ciò che è reale è razionale e che ciò che razionale è reale». Ovvero: che la realtà è intessuta e costituita nel fondo di una tessitura logica e che questa tessitura logica permea appunto fino nel fondo la realtà.
Non si tratta di giustificazionismo dell’esistente ma solo del pensiero che in ogni dispiegamento della realtà si possano individuare delle cause. Buoni o cattivi che siano gli effetti per l’uomo e fra gli uomini.
Si tratta, nel subodore hegeliano dell’indebolimento politico e teoretico della Vecchia Europa, dell’ultimo tentativo della scienze dello spirito di non bearsi delle melancolie del caos ma, intuita la direzione teoretica e politica della stanchezza europea, di continuare a tenere fede al progetto illuministico della modernità. Eroicamente e tragicamente. Perché intanto tutto già si andava muovendo verso la «morte di Dio» (e una perniciosa velleità di potenza).
Il disfacimento che si aggirava come uno spettro per l’Europa lo vide evidentemente anche Marx. Ma lo spettro originario che vide Marx non era appunto il socialismo che sarebbe dovuto essere casomai il controspettro a cui il filosofo di Treviri affidava la reazione teoretica e politica.
Pure Marx vide, come Hegel, l’incipiente avvento della nientificazione dell’uomo. E reagì titanicamente con lo studio matto, disperatissimo e poverissimo che mise capo prima al Manifesto e poi, soprattutto, al Capitale. Molte commistioni novecentesche, fra Nietzsche e Freud, hanno inquinato la lettura di questi testi. Ci sia lecito così pensare oggi che alle teorie sui maestri del sospetto si possa opporre un più umile e socratico exetazein del sospetto sui maestri; lì dove leggere Marx fra il nichilismo e la psicanalisi ci sembra un tentativo malriuscito di decadente eclettismo novecentesco piuttosto che una inaggirabile esegesi del pensiero del filosofo di Treviri nella luce del suo unico vero e strutturante rapporto: quello con Hegel. Con la dialettica hegeliana e con ciò che per Marx dovette suonare più funesto per le sorti dell’uomo e del suo destino di morte senza palingenesi nietzscheane: «l’atomismo della società civile».
Marx ebbe in subodore evidentemente come l’erosione etica della famiglia e dello Stato aveva cominciato a infiltrare la società europea come una metastasi dirompente. Bisognava fare in fretta! Studiare, scrivere e organizzare la reazione. Che non poteva essere un ritorno all’indietro ma una più repentina fuga in avanti.
L’intuizione più ferma di Marx, fra studi, sguardi e scritti non a caso londinesi, abbiamo da credere è quella secondo cui lo Stato si sarebbe estinto. Per via appunto dell’infiltrante metastasi dell’atomismo della società borghese e così bisognava affrettarsi a indicare agli uomini un altro tipo di estinzione. Non quella che sarebbe avvenuta e si sta compiendo sotto quell’unica filosofia del martello che è il capitalismo ma nella prospettiva del socialismo.
Marx già vedeva, con le lenti hegeliane tornite nel segno dell’economia politica, il tragico epilogo dello Stato moderno e, cercando tragicamente di correre più avanti della stessa storia, contrappose estinzione a estinzione. All’estinzione asociale del profitto, l’estinzione sociale della redistribuzione della ricchezza «a ognuno secondo i suoi bisogni e da ognuno a seconda delle sue capacità». Con la fantascientifica e al tempo più realistica delle sue intuizioni ovvero la completa sostituzione del lavoro umano con il lavoro delle macchine; oggi non si parla di altro fra intelligenza e lavoro artificiali.
Intanto, Hegel e Marx, questi due eroi tragici hanno finito per diventare gli oggetti di un catechismo salivare: saggistico catechismo dello sputo l’uno e letterario catechismo del «mastica e sputa» l’altro. Con il che lì dove la filosofia ci proponeva il nobile paragone dell’uomo con le api, oggi non ci rimane che assistere a uno sciame di lama che si scambiano conferme, compiacenze e onori nel segno di un randagismo metaborghese che, proprio come pretende di sputare su Hegel, sputa spesso nel piatto che poi mangia quando si tratta di custodire e bearsi, al di là del gioco del caos, dei propri privilegi sociali ben ordinati e custoditi.
Fenomenologia del patriarcato e logica del monarcato contemporaneo
Ci sono, nell’avvicinarci a un fatto o a un accaduto, diversi gradi di relazione con l’oggetto o l’avvenimento. Il primo grado è quello della sensibilità. E in questo senso non possiamo non provare un moto di sdegno, di rabbia, di angoscia rispetto all’azione compita da Filippo Turetta nei confronti di Giulia Cecchettin. Sono ancora giorni caldi in questo senso e la metabolizzazione del crimine e dell’evento luttuoso ci coinvolge, come è giusto che sia, tutti nel segno del pathos. I ragionamenti sono confusi e in ognuno di noi non può non sussistere, insieme allo sdegno e alla rabbia, un sentimento di inadeguatezza dei pensieri nell’intendimento di come può essere accaduta una simile vicenda. Peraltro per l’ennesima volta in questo solo ultimo anno solare fino ai numeri esponenziali se ci rivolgiamo più indietro nel tempo.
Sennonché, lentamente l’intelletto avanza fra le idee oscure e confuse della sensibilità e comincia a discernere in maniera più chiara e distinta. E’ il momento del giudizio. E, in quanto tale, questo spetta al diritto. Giudicare in che termini si sia compiuto l’efferato crimine di Turetta nei confronti di Giulia è compito di investigatori e inquirenti. Le indagini proseguono e, speriamo non in fretta ma con efficienza, si arriverà appunto ai diversi gradi del giudizio nel processo. E’ certo che, già a livello di opinione e opinione pubblica, è legittimo e sacrosanto parlare di un assassino e di una vittima. Formalizzare però il giudizio e soprattutto circoscrivere la verità giuridica con la conseguente pena è compito della giustizia. In nome del popolo italiano.
Sennonché, giustamente, il popolo italiano ha già scavalcato anche questo momento di formalizzazione del giudizio ed è profondamente immerso in quello che è il terzo grado di intendimento dell’accaduto. E’ il momento della ragione e del dibattito culturale su come debba essere spiegato in maniera sociologica la vicenda e, più in generale, il femminicidio.
E’ un tema enorme in cui il giudizio sugli individui non è più sufficiente ma occorre procedere nella ricomprensione degli stessi sotto l’orizzonte della categoria della relazione e quindi della società. In questo senso si è aperta subito una riflessione sulle scorie tossiche di una cultura patriarcale presenti ancora in dose massiccia nelle nostre presunte emancipate società occidentali.
Certamente il tema c’è ma, a mio avviso, non è il tema di ultima istanza. Chiamare in causa solo la patriarchia rischia infatti di non stare al passo con l’evoluzione ultima in cui pure essa può trovare il suo posto come declinazione fenomenologica.
Vediamo giovani bulli che stalkerizzano altri giovani; giovani che si associano in bande e si picchiano fra di loro; giovani ricurvi sui loro dispositivi digitali a seguire e spesso a emulare tali imprese. Vediamo e abbiamo scritto di giovani che noleggiano una macchina di grande cilindrata e distruggono famiglie sulle strade; giovani che il sabato sera, in preda o meno ai fiumi dell’alcol e ai fumi di sostanze stupefacenti naturali ma anche ormai chimiche, si schiantano con un’utilitaria percorrendo il centro di un piccolo paese di provincia? Ci ricordiamo ancora, per esempio, il caso dei ragazzi di Fontenuova? Giovani vittime delle maglie criminali della rete. In maniera sempre più diffusa, quindi, giovani, alle prese con sempre più frequenti attacchi di panico; con anoressia e bulimia.
Si potrebbe continuare ma è bene prendersi uno spazio per dire che gli adulti non stanno meglio; dalle liti (spesso mortali) nel traffico delle grandi città alla floridità economica e sociale di cui godono le grandi organizzazioni criminali lungo tutto il globo terraqueo. Associazioni criminali sempre più sofisticate e ormai sempre più emancipate fra le maglie dell’economia e della finanza mondiale. Vediamo poi la guerra che sta divorando il mondo.
E allora? Come riconduciamo ognuno di questi particolari all’universale? Dove la dobbiamo andare a individuare la radice più profonda del caos e del disagio che attraversa le nostre società? Quali sono gli anticorpi?
Risponderei a partire dalla seconda domanda. Poniamo di rispondere con lo slogan egemone (visti anche i risultati delle elezioni olandesi) che si aggira per l’Europa e ha toccato puranche le sponde d’Oltreoceano: Dio, patria e famiglia! Ma, diciamolo subito, ognuno di questi orizzonti non sembra godere di buona salute ed è lungi dall’assicurare una via di uscita dalla crisi della nostra cosmopoli mondiale. «Dio è morto» scriveva Nietzsche alla fine del XIX secolo; e certamente sia la patria, ovvero la politica, che la famiglia non godono di buona salute. In un beninteso intendimento dell’espressione nietzscheana, dobbiamo dare per morte anche esse! Che in quella espressione il filosofo tedesco voleva più ampliamente riferirsi alla morte di ogni principio universale dentro cui possa essere compreso e vissuto il mondo. Compreso il principio della scienza. Abbiamo visto con quanta fatica siamo andati a fare i vaccini e ci relazioniamo sempre più in generale con la medicina. Per dire di una scienza.
La patri-archia dunque non può essere forse ancora negata ma ciò che, a nostro avviso, è l’elemento cancerogeno di fondo da cui ogni metastasi si diffonde e attraversa il tessuto sociale e culturale è una pericolosa anarchia. La mancanza di un vero e proprio principio dentro cui spiegare e vivere il mondo. Dentro cui ogni giorno si celebra il lutto della famiglia, della scuola, della politica e della fede.
Eppure un principio, sempre più assoluto, c’è! Un’archè che possiamo sottintendere alla crisi della famiglia, della scuola, della politica e di ogni forma di risposta culturale alla crisi dell’individuo e della società è l’organizzazione sociale del lavoro; quale famiglia con essa è permessa? Quali genitori possono effettivamente trascorrere un importante tempo dell’affettività con i loro figli? E poi, sempre lungo la via dello slogan che si aggira come uno spettro per l’Europa, quale patria (ovvero politica e affettività collettiva) è permessa lì dove nessuno riconosce l’altro come fratello nell’atomismo schizofrenico della società e di una competizione economica sena freni? Del profitto (sempre più extra), dello stipendio e del salario (sempre più minimo)? In un delirio di volontà di potenza ovvero di sopraffazione dell’altro che non mette certo capo a superuomini ma a supermonopoli? Magari ai superuomini dei supermonopoli!
La questione della patriarchia è una delle tante fenomenologie dentro cui si spiega la crisi delle nostre società; perché di contro o meglio dentro all’anarchia affettiva, didattica, sociale e culturale in cui esse versano un’archè, un principio c’è ed è quello della plutarchia. Con buona pace di Plutarco e di ogni appello alla cultura e alla coltura (familiare, scolastica, sociale, politica e teologica o filosofica), il principio della ricchezza e del totalitarismo del mercato. Fra cui non dobbiamo dimenticare la mattanza delle morti sul lavoro per cui dovremo forse cominciare a parlare di laburicidio.
Educare a tutto, educare a niente! In memoria di Giulia Cecchettin
(pubblicato su Education 2.0 del 22/11/2023)
Ultimamente seguo con attenzione il percorso politico di Elly Schlein perché mi sembra che stia riportando al centro della sinistra alcune parole e alcuni concetti fondamentali della sinistra; sennonché appena ho sentito la proposta di introdurre nella scuola l’educazione affettiva mi sono cadute le braccia.
La scuola è educazione affettiva. Le letterature, italiana, francese, inglese, la filosofia, la storia dell’arte e così anche la matematica e la fisica che nella mente infondono il senso della proporzione e dell’armonia, il senso della legge, sono educazione affettiva.
Per chi non riesce a intendere questo concetto basterebbe citare il titolo di uno dei capolavori mondiali della letteratura: L’educazione sentimentale di Flaubert; basterebbe indicare come la parola ‘docilità’ venga esattamente dal verbo docere.
E invece si continua a frantumare la coltura dello spirito come se questa fosse una tecnica da insegnare in tante microskill staccate l’una d’altra. È una schizofrenia. Una schizofrenia didattica che fa il paio e più con la schizofrenia sociale che permea la società contemporanea. Che genera la schizofrenia psicologica per cui vediamo i giovani amare e uccidere nello stesso tempo.
Amare e uccidere, sì!
Un’ulteriore skill, quella di non uccidere, che una scuola in cui tutto viene risolto a tecnica dovrebbe insegnare. Una scuola che dovrebbe insegnare tutto. E nel momento in cui la famiglia e le istituzioni politiche le appaltano ogni responsabilità. Non uccidere una ragazza di ventidue anni dovrebbe essere qualcosa che insegnano i genitori! La fede – dicono a messa – si coltiva in chiesa ma nasce in famiglia; ecco, lo stesso è per l’educazione sentimentale. Che è essa stessa una fede. La fede dell’umano e nell’umano.
Più si va avanti, invece, e più ogni elemento sentimentale si risolve in una skill e questa skill viene esternalizzata alla scuola. Ma non perché la insegni con la letteratura, la musica (che Lorenz Mizler, un allievo di Bach, chiamava ‘il suono della matematica’), la letteratura, l’arte; la scuola la deve insegnare, come se peraltro essa stessa non fosse un’esplicazione della società in cui vive, con una sorta di omeopatia didattica: frantumandosi in una miriade di vuote chiacchiere da cui è già nata la frantumazione degli individui e della società.
Non faremo un passo avanti nella politica, nella scuola, nella società e soprattutto verso i giovani fino a che non rimetteremo al centro il senso dell’intero. Nei dialoghi giovanili di Platone, la prima grande testimonianza della crisi della democrazia e dell’intera società ateniese, gli interlocutori di Socrate si andavano chiedendo e gli andavano chiedendo che cosa fossero il coraggio, la santità, la temperanza (a proposito di docilità), l’amicizia e la giustizia. E la persona che l’oracolo di Delfi aveva indicato come l’uomo più sapiente della sua intera epoca non aveva altra risposta che indicare come, qualora si cerchi nel particolare non si troverà mai niente; non si troverà il coraggio, la santità, l’amicizia, la giustizia e la temperanza qualora non ci si interroghi sull’universale. Non ci si interroghi su cos’è la virtù. Sono le pagine mirabili del Protagora platonico nell’analisi delle altre pagine memorabili di Guido Calogero. Calogero, chi era costui? Chi pensa più nella scuola che si debba sapere di Guido Calogero e del suo La scuola dell’uomo; e chi pensa in fondo più che si debba sapere di Socrate stesso! Ormai l’importante è ogni sorta di educazione (digitale, alimentare, stradale, civica, alla scelta universitaria, affettiva, etc. etc). Educazioni a tutto, educazione a niente!
In memoria di Giulia Cecchettin, questo il mio lutto e il mio fiore per te, dolce ragazza. Fino all’ultima parola non smetterò di prendere parte in questo modo, dolce ragazza, questo è il mio fiore del partigiano!
Guerra, democrazia e capitalismo
(pubblicato su Domani del 14/10/2023)
Abbiamo visto scene agghiaccianti discendere dall’attacco di Hamas al rave party dei giovani israeliani così come al kibbutz di Kfar Aza; di seguito, le scene agghiaccianti hanno investito Gaza e ci dobbiamo preparare a vederne di peggiori nei prossimi giorni.
Di fronte a tutto ciò abbiamo due possibilità.
Cadere nell’altrettanto agghiacciante ‘logica’ di contrapporci nella polarizzazione tra filopalestinesi e filoisraeliani o, più umanamente e razionalmente, comprendere che nell’una e nell’altra realtà politica il profilo delle vittime e dei carnefici va inquadrato secondo una prospettiva diversa. Vi è infatti la possibilità di intendere come i carnefici e le vittime non debbano essere ricondotti all’una e all’altra realtà politica ma nell’una e nell’altra realtà politica. Nell’una e nell’altra realtà politica vi sono, infatti, sia agli atti della storia che a quelli della cronaca, un fronte estremista e un fronte moderato.
Ripercorrere qui gli atti della storia sarebbe lungo e molto complesso. Ci sono tuttavia dei punti fermi che si possono più velocemente richiamare proprio nell’ottica di una intelligenza storica della cronaca.
E’ infatti proprio la storia della questione israelo-palestinese a dirci come quelle figure politiche del mondo arabo e del mondo israeliano che abbiano lavorato a una soluzione del conflitto in questione siano cadute assassinate proprio a opera dell’estremismo interno presente in una parte e nell’altra. Citeremo solo i nomi di Sadat (1981) da una parte e di Rabin (1995) dall’altra. Una verità storica a cui aggiungeremo alcuni altri due punti fermi da tenere presenti: la proclamazione unilaterale della nascita dello Stato israeliano ad opera di Ben Gurion nel 1948 a dispetto dello stesso originario piano dell’ONU (Shimon Peres lo chiamava “il peccato originale di Isreaele”) e l’inconcepibile ritiro di Arafat dall’accordo di Camp David con Barak nel 2000 (io ne parlerei nei termini di un contropeccato originale palestinese).
Lasciando le orme della storia per venire ai passi della cronaca, aggiungeremo i tre elementi che hanno portato alla radicalità dello scontro che oggi riappare improvvisamente sotto i nostri occhi. La colonizzazione massiva israeliana in Cisgiordania negli ultimi venti anni e la radicalizzazione delle posizioni palestinesi che possono essere individuate nella cacciata stessa di Fatah dalla striscia di Gaza per opera di Hamas (2007); il terzo elemento della questione è il disimpegno degli Stati Uniti e degli stessi popoli arabi nell’opera di mediazione della questione. E qui siamo di nuovo di fronte al bivio fra il prendere animosamente parte in una disputa che veda come egemoniche e originarie le responsabilità di Israele o dei Palestinesi. Cosa che non ci aiuta a capire ma soprattutto non ci aiuta ad agire per quanto ognuno possa agire a dispetto del fatto che non si vedono attori neanche a livello dei più grandi organismi statali e sovrannazionali del pianeta.
Capire e agire. E’ una strada, qualora la vogliamo intraprendere, che ci porta dalla più circoscritta questione israelo-palestinese al cuore dell’Europa e degli Stati Uniti. E ci fa porre un interrogativo: la democrazia come l’abbiamo conosciuta può essere ancora l’involucro politico dentro cui il capitalismo è nato e si è sviluppato? O la crudezza del capitalismo contemporaneo sta facendo implodere le nostre stesse istituzioni democratiche? Perché qui ciò che sembra di più venire alla luce dal microcosmo israelo-palestinese fino all’intero sistema dei nostri Stati occidentali è l’incapacità della politica a mediare e a contenere la volontà di potenza delle soggettività economiche.
Su questa strada gli indizi ci vengono proprio dagli ultimi accordi che dovevano essere portati a compimento fra Israele e l’Arabia Saudita. Si tratta degli accordi di Abramo che, a fronte di un’irriducibilità monadica degli Stati in questione, ci hanno fatto vedere come sul terreno dell’economia le finestre delle appunto più irriducibili monadi politiche, teologiche e culturali, si aprano magicamente. Onde il pensiero che quello che non si realizza per i popoli e per i poveri è già una realtà di fatto fra le élites e per i ricchi.
Dividersi tra filoisraeliani e filopalestinesi è quanto di più sciocco si possa fare. Forse è venuto il tempo di recuperare, qui si radicalmente, le prospettive della giustizia sociale e della pace dentro cui una capacità d’intelligenza politicista può riprendere fiato nell’apnea di una volontà di potenza economicistica che al giorno d’oggi permea individui e Stati e rischia di portarci, oltre a conflitti interiori di ordine esistenziale e importazione di modelli autocratici lì dove diciamo di esportare la democrazia, fino sulle soglie di una nuova guerra mondiale «fra persone che si uccidono senza conoscersi per gli interessi di persone che si conoscono ma non si uccidono».
La notte dei Pink Floyd sulla Città Eterna
Estratto da Giuseppe Cappello DAI GRECI AI POLICE Miscellanea di un’educazione fra racconti, viaggi, tesi di laurea, articoli filosofici, poesia e musica (Ladolfi Editore 2022)
Nel suo tramonto romano il sole si affaccia ancora fra l’Aventino, l’Isola Tiberina e la volta della Sinagoga. Sembra indugiare anche lui, appoggiato sull’ansa del Tevere, per ascoltare almeno le prime note dalla storica Stratocaster di David Gilmour; o, forse, quasi a testimoniare che per questa sera speciale lascerà la sua eredità di luce al volto oscuro della luna. E così avviene. Nella scena cosmica del tramonto romano arriva sulla storia millenaria del Circo Massimo l’inconfondibile stilettata della Fender di Gilmour. È un Mi che rompe ogni indugio e spacca la sera a metà.
Comincia la musica. Si scioglie il fluido fraseggio gilmouriano senza soluzioni di continuità attraverso le armonie strumentali della struggente e delicata 5AM. Il brano che apre l’ultimo lavoro solista, Ruttle That Lock, della chitarra che ha fatto la storia e la leggenda della musica del Novecento. E l’atmosfera è appunto fiabesca. Con le note soliste di Gilmour che, attraverso l’inconfondibile legato e il bending congenere all’anulare, tessono il filo di una melodia che gioca sempre sulla soglia fra il Maggiore e il Minore quasi a ricordare il destino di gioie e sofferenze dell’uomo stesso. Forse anche per questo la chitarra di Gilmour è entrata nella storia; perché sembra riecheggiare fra le sue note lo stesso destino dolceamaro dell’uomo. 5AM si chiude e sul Circo il pubblico è già in un’atmosfera di incanto; lo stupore si rinnova fra chi ama la musica e per questo è giunto a Roma da ogni parte d’Italia. La musica risolve e un’ovazione si leva verso la sagoma di Gilmour. Il tempo ha fatto il suo gioco sul volto angelico dei Pink Floyd ma nelle mani di quell’angelo il plettro è senza tempo. Il plettro e la voce.
Si apre il secondo brano, quello che dà il titolo all’ultimo album di Gilmour, Ruttle That Lock. La band è subito a pieni giri: la sezione ritmica della batteria e del basso compatta nella sua energia e nella pulizia; le tastiere taglienti ed eleganti sempre a distendere i tappeti rarefatti delle armonie gilmouriane; i magneti delle chitarre che portano dentro il rock. Quindi l’altra protagonista della serata insieme alla chitarra: si apre e ci attraversa la voce eterea e graffiante di Gilmour. Un pezzo, Ruttle That Lock, che ha un tiro travolgente e in cui c’è tutta la spinta per forzare la serratura appunto! Ognuno si abbandona alla musica; tutti si abbandonano. Lo stesso sole degli ultimi bagliori sul Tevere rompe ogni indugio e scollina dietro Monteverde. Cala la sera e il volto luminoso della luna è nel il magico schermo circolare dei Pink Floyd. Il sole se n’è andato e si affaccia ora il fischio aurorale di In Any Tongue. Ancora un brano dall’ultimo album di Gilmour. Nel suo ritmo cadenzato gli interrogativi dalla voce di Gilmour e la risposta fra la sinestesia del testo scritto a quattro mani con la moglie Polly: «I know sorrow taste the same on any tongue». Sul magico schermo circolare scorrono le animazioni dei blitz di guerra; come ci siamo abituati a vedere nei telegiornali non c’è una trincea ma tutto il movimento avviene fra le strade di una fatiscente città. Quella città in cui l’uomo non ha ancora imparato che «la sofferenza ha lo stesso sapore su ogni lingua». Forse proprio perché gli uomini e le donne di confini diversi non possono baciarsi. La musica risolve dalla voce di Gilmour in uno strumentale interlocutorio. Sono le note fra il piano e le tastiere a dire: uomo non stai meditando, ancora non hai capito la banalità, il male e il paradosso della guerra? Il tuo paradosso per eccellenza! Riprende la voce di Gilmour e canta. Canta come «Mamma suona allo stesso modo in ogni lingua». Persi gli ideali di ogni fede, da chi lo possiamo imparare meglio se non da un musicista che del suono ha fatto la ricerca di una vita?
E tutta una vita si apre nel quarto brano in scaletta. La radio gira i suoi canali e la sintonia precipita e precipita tutti noi nella leggenda dei Pink Floyd. La frequenza si ferma lì dove iniziano le note che ci hanno scavato nell’anima e si sono trovate dentro di noi una dimora per sempre: siamo alla chitarra acustica e alle pentatoniche aurorali di Whish You Were Here. Un boato e tutti aspettano la voce per intonare insieme a Gilmour … «So, so you think you can tell … » … e continuare; non dobbiamo ricordare le parole, tutto il Circo tira fuori quello che ormai ha dentro dal 1975. Ormai ha una sua propria vita questa figlia quarantenne dei Pink Floyd e ritorna a ricordare Syd Barret ma, con lui icona, quel qualcuno che ognuno di noi ha perso e con cui ha sognato; con cui ha sognato nella solitudine del mondo che ci sembrava solo una boccia di pesci rossi e in cui ha trovato l’anima gemella … «year after year».
Il concerto prende la piega dell’epica, è ormai sera inoltrata e nel volto oscuro della luna si apre la prima/quinta/ottava fatale su cui gira l’arpeggio del basso che apre Money. La voce di Gilmour è inossidabile; pura, graffiante e ancora più intonata con un tempo in cui il fatto che il denaro sia un crimine è ancora più vero di quando il pezzo è stato scritto. Ma forse, ed è anche questo un segno del loro genio, Waters e Gilmour non si ingannavano come gli altri negli anni sciocchi e bugiardi che seguivano al boom economico. Si schiude il magnete che passa attraverso i raffinati distorsori di Gilmour (il Big Muff su tutti) e la verità che i soldi siano un crimine viene gridata dallo storico solo di Money. Una corsa forsennata fra le pentatoniche sul manico della Stratocaster che oggi ci parla forse della forsennata corsa in cui è precipitata la nostra società nel vortice cieco del denaro. L’unica visione che ci è rimasta, Jack, è che nessuno metta le mani sul nostro gruzzolo! La corsa forsennata si ferma e inizia l’adagio nell’arpeggio tutto inglese e trasognante di Us and Them. Ancora una denuncia del paradosso della guerra e il magistrale sax di uno strumentista che ha su per giù gli anni del pezzo a gridare il dolore lancinante del fratricidio umano.
La musica dei Pink Floyd passa attraverso le generazioni, fra il pubblico e sul palco, per un antico che rinnovandosi a ogni presente è diventato classico. Il tempo sembra quindi riprendere se stesso nei rintocchi della campana iniziale di High Hopes. Un Minore dolceamaro rievoca il mondo di «magneti e di miracoli» degli anni più lucenti, soprattutto per la magia della relazione personale e artistica, dei Pink Floyd. Forse di un mondo che è svanito non solo per i Pink Floyd ma per l’intero rock ormai, nel segno dell’eterogenesi dei fini, niente altro, oggi, che costruzione a tavolino e mercato. E così, in un Maggiore dolce amaro si distende, sul tappeto degli archi costruito sapientemente dai due tastieristi, l’eterea voce di Gilmour: «The grass was greener / The light was brighter / The taste was sweeter / The nigh of wonder / With friends surrounded / The endless river / Forever end ever» … come finisce di pronunciare queste parole Gilmour si siede alla chitarra steel e inizia il fiume senza fine del solo che scivola in un filo di musica senza soluzioni di continuità, nel legato che ci fa dimenticare di ogni impaccio materiale di cui si disfa la forma musicale che appunto si distende e avvolge tutti. Fino a che non risuona ancora la Campana della Divisione.
Il concerto si ferma, Gilmour si prende una pausa e ci dà appuntamento fra quindici minuti. Il quotidiano, fra una birra, una sigaretta e un commento sta per rimpossessarsi del Circo quando si rispengono le luci e il pollice sul basso richiama tutti al rito sacro.
L’incipit di One of These Days stringe di nuovo tutti intorno alla musica e tutti con tutti. Si scende negli abissi della psichedelia di Waters e Gilmour; probabilmente tutti pensano all’anfiteatro romano di Pompei e al 1971. Gilmour, nella nota ossessiva del basso di Waters, suonava con le gambe incrociate davanti alla Stratocaster con lo slide che spingeva su e giù per il manico la follia dell’unico sussulto vocale con cui Mason aveva dischiuso il pezzo: «One of these days I’m going to cut you into little pieces». La follia di tante esistenze normali che nel mistero della mente dell’uomo tutto di un tratto mettono capo ai più efferati fatti di cronaca familiare di cui sentiamo oggi sui telegiornali. I Pink Floyd, nel loro profondo sentire, avevano visto anche questa inquietante ripiegatura della società contemporanea: la follia che segreta nidifica nella normalità troppo normale della civiltà borghese contemporanea.
E proprio nella follia della vita che trova la sua più alta sublimazione nel capolavoro assoluto dell’arte ecco i delicati fili del Sol minore, al tempo tessuti sapientemente da Richard Wright, su cui allora come adesso arriva la stilettata del Sol più alto sul manico della Strato di Gilmor. È il punto forse più alto del concerto: Shine On You Crazy Diamond. Tutto il Circo riluce nel fulgore del Pazzo Diamante. I secoli della millenaria storia romana gravitano sull’asse che attraversa il baricentro di tutta la musica dei Pink Floyd. Il colpo originario di Barret, la sapiente tessitura delle tastiere di Wright, la discreta presenza strutturale della batteria di Mason, il Precision cadenzato, inimitabile, irriducibile e inattingibile anche dal miglior virtuoso, pur nella sua semplicità, di Waters; la chitarra viva, lì dove vive e ribolle nella sua origine la vita, di Gilmour. E la voce di Gilmour. Impeccabile anche in questa esecuzione a 70 anni. È l’apoteosi: un dio è presso il Circo in quello che è il «miracolo metafisico» fra il dionisiaco degli abissi della psichedelia e la trasfigurazione della sapienza musicale; il «miracolo metafisico» fra il Minore dionisiaco delle elucubrazioni esistenziali di Waters e il Maggiore delle sublimazioni eteree di Gilmour.
La tensione emotiva rifluisce in alcuni brani dell’ultimo Gilmour per riprendere quindi nell’ultimo sorso del bis: il volto oscuro della luna illumina il Circo attraverso le mitragliate sui tamburi che aprono Time; si dispiega di nuovo la voce stentorea e raffinata di Gilmour che passa poi il testimone al plettro che scivola ancora sulla Telecaster del chitarrista. Le note tirate e legate come in uno strumento a fiato sulla cadenza sincopata (suonata ora dal bravo Guy Pratt) del basso di Waters. Il miracolo e il magnete avvolgono il Circo. L’erba è ancora verde, la luce è lucente … la notte della meraviglia, pieno di amici intorno. Il fiume senza fine … Forever and Ever!
Puoi acquistare il libro Dai Greci ai Police online su Amazon IBS Feltrinelli Mondadori e nelle altre librerie digitali e fisiche
_______________________________________________________________________
Piero Angela e il pascolo dei quark
(17/08/2022)
Il saluto è stato giustamente celebrato e così ora si dovrebbero poter dire alcune cose su cui un rispettoso esercizio del dubbio va esercitato e probabilmente lo stesso Piero Angela e la sua mentalità scientifica avrebbero salutato con favore.
In particolare sulla scuola.
Quale docente di filosofia, devo dire che mi lascia molto perplesso un’idea che della scuola aveva il Nostro e che, espressa al tempo in un’intervista, è rimbalzata di sito in sito durante le giornate agostane che hanno seguito alla sua morte. L’idea espressa nei termini per cui «la matematica e la fisica possono emozionare se le si impara costruendo un robot in classe, con i propri compagni». Mi sembra, questa, una concezione che partecipa dell’ormai professionalizzazione degli studi liceali che sempre di più invece perdono la loro quintessenza speculativa. Esangue del resto, attraverso la scuola, in tutto il tessuto della società.
Come esangue è in generale, da un capo all’altro, tutto il sapere umanistico che, attraverso lo studio de L’Infinito di Leopardi, il Trentatreesimo Canto del Paradiso e così andando indietro a Sofocle per riandare avanti a Montale come a un puro teorema matematico, pensa alla costruzione (vale bene qui il termine tedesco – Bildung – di educazione) innanzitutto di uomini e donne prima che di robot.
Il bello è che le stesse persone, fra cuidiversi colleghi e colleghe, che in questi giorni celebrano, in una sorta di ordalia del necrologio che satura sempre più i social media, spesso si spendono invece per far rimbalzare fra le loro bacheche un istruttivo passo di Agnes Heller in cui la filosofa ungherese scrive: «Se qualcuno dovesse chiedermi, come filosofa, che cosa si dovrebbe imparare al liceo, risponderei: “prima di tutto, solo cose “inutili”, greco antico, latino, matematica pura e filosofia. Tutto quello che è inutile nella vita». Peraltro eco di un passaggio del Primo Libro della Metafisica di Aristotele dove «il maestro di color che sanno» scrive, quanto alla filosofia, che: «tutte le altre scienze sono più utili, nessuna superiore». E non perché in Aristotele ci sia una concezione snobbistica del sapere pratico. Gli studi di Jaeger hanno mostrato quanto lo sguardo di Aristotele sul mondo fenomenico debba all’influenza dell’esercizio professione medica di entrambi si suoi genitori.
Il punto è che l’idea di Aristotele (così come della sua scuola che fu lui a chiamare Liceo) è quella di costruire uomini e non robot. Il termine greco paideia, che fa il paio nel segno di un più lucente bagliore di luce mediterranea con il tedesco Bildung, è quello che allude alla formazione di uomini e non di robot. In ispecie, alla lettera, di fanciulli (pais-paidos in greco appunto fanciullo). E di costruire uomini che siano cittadini.
Qui il nostro ragionamento incrocia l’idea di una scuola che abbia tematizzato la costruzione di robot come fiamma del processo di apprendimento con la crisi della democrazia e della politica in generale; nella scuola della paideia l’idea è che il processo di apprendimento abbia il suo centro piretico nella costruzione delle relazioni umane. Non è un caso che Aristotele indichi l’uomo con due espressioni che sono tanto complementari quanto indicative: “animale razionale” e “animale politico”. Dove non c’è razionalità che si possa costruire al di fuori della vita associata, la politeia, e non c’è vita associata che si possa costruire al di fuori della razionalità (logos).
Ludendo docere (in latino!) era il motto protrettico con cui Piero Angela si esprimeva in una delle sue osservazioni sul processo di apprendimento. Ma chi dice che non ci sia gioco sul concetto? Che il gioco sia solo intorno alla meccanica di un computer o di un robot? Mi ricordo quanto avessimo giocato, e quanto ci si possa giocare in classe con gli studenti, con divertimento e ilarità proprio sulle figure dei sillogismi aristotelici. Che peraltro, nella formalizzazione prima logica del pensiero medievale e poi aritmetica del pensiero moderno, sono proprio alla base del linguaggio dei software dei nostri computer che ‘animano’ i robot fino ai cellulari.
E del resto chi di noi non ha mai ascoltato Mind Games di John Lennon … Mind Games … forever. Il punto è proprio questo: che in eterno si può giocare solo con l’eterno; e noi, uomini e donne, di questo eterno partecipiamo con la mente e con la passione della mente (il genitivo è soggettivo e oggettivo).
La ricaduta pratica o meglio fabbricatrice temporalizza, spazializza; ed è cosa sacrosanta a essere fatta. Ma sacrosanto e vitale per il genere umano è il gioco per il gioco … il cui prodotto non è un robot ma ciò che ci riconduce alla scaturigine della nostra esistenza. C’è chi la chiama Dio e c’è chi la chiama Natura, non importa. Ciò che importa è il ritorno, il nostos, del nostro essere a se stesso … che, amicus Piero sed magis amica veritas, non è un robot nemmeno nella sua versione platonica di un demiurgo celeste. Pure questo (non diremo questi come non lo potremmo mai dire di un robot), per fabbricare, doveva guardare (theorein) a quella «pianura della verità in cui si trova il pascolo congeniale migliore dell’anima e che di questo si nutre». Il pascolo dei quark, di quei superquark «senza colore, privi di figura e non visibili» che da un questo ci fa diventare un questi.
Italia iacta est
(12/02/2022)
Lì dove Draghi, a una domanda sulla sua possibile disponibilità a scendere fra gli umani della politica e a governare passando attraverso un’investitura che gli venga dalla società e nella dinamica delle istituzioni parlamentari, risponde che nel futuro un lavoro è in grado di trovarselo da solo, non mostra certo la giusta consapevolezza di come la politica non sia un lavoro; di come essa, qualora non la si pensi sfigurata com’è e come evidentemente anche lui la intende, sia un servizio. E tanto più servizio oltre il lavoro quando in essa si concepisca l’istituzione della Presidenza della Repubblica. Solo ieri, questo sprezzante uomo dell’umano, si diceva un “nonno al servizio delle istituzioni” per farci sapere del suo appetito al Colle. Bene: per il lavoro che intende procurarsi da solo, non spedisca allora il suo curriculum all’attenzione del Parlamento nella primavera del 2023 né tantomeno la sua richiesta di pensionamento al Quirinale quando finirà il mandato di Mattarella. L’Italia non è né la Goldman Sachs né un cantiere su cui gettare un’occhiatina mentre si portano i nipotini al parco. Ma forse le nostre sono solo le parole di chi si ostina irriducibilmente a credere che l’Italia possa e debba essere ancora una repubblica parlamentare e non, come si va profilando, uno delle tante entità politiche in cui il potere si va strutturando in maniera autocratica. Il nostro futuro è probabilmente e ineluttabilmente già oltre il Rubicone. Fra Cesare e Heidegger … Geworfenheit.
Il Quirinale fra politici, giornalisti e 5G
(27/01/2022)
Se, possibilmente, in questo frangente storico dell’elezione del XIV Presidente della Repubblica, c’è una categoria sulla strada per sottrarre il primato della maglia nera ai politici sono i giornalisti politici. Fanno i censori morali dello spettacolo che sta andando in scena quando poi, nelle loro redazioni, non fanno che traffici, mercature, trasformismi e una dose massiva di servilismo. Come quella ogni giorno in onda a reti unificate per Draghi; che peraltro non ne ha bisogno e ne viene danneggiato giorno dopo giorno.
Quello dei giornalisti politici in questi giorni è uno sputo continuo dentro il piatto in cui mangiano fra maratone, interviste, talk show e collegamenti in esterna. Maratone, interviste e talk show che non fanno altro che certificarne un bassa lega intellettuale oltre che morale.
Sono infatti bastati due interventi a Piazza Pulita di un più prosaico ma comunque efficace Cirino Pomicino e del più nobile lignaggio intellettuale di Luciano Canfora a fare piazza pulita delle velleità dei direttori, Mieli e Calabresi, dei due maggiori quotidiani italiani. Uno, per la verità, Paolo Mieli, non più direttore e che nel sottopancia ha ormai intrapreso a farsi chiamare storico; così come Scalfari con la filosofia e la teologia e la De Gregorio con una sorta di sociologia d’accatto.
L’intervento di Canfora, a fronte di tutto questo minestrone di liquami, ha spiegato con poche e adamantine parole – per la verità anche semplici per chi un poco frequenta i libri – di come ormai da anni assistiamo allo slittamento fattuale delle istituzioni di una repubblica parlamentare (parlamentarissima direi) in una repubblica in cui il potere si va concentrando (seguendo la dinamica dell’economia) dal legislativo all’esecutivo e in cui si vorrebbe che l’esecutivo si spostasse da un governo di fattura parlamentare alla presidenza della repubblica (magari con elezione diretta!).
La qual cosa non la dice Canfora e più umilmente da molto tempo il sottoscritto ma lo sottolinea a furia di traslochi il Presidente Mattarella. Che essendo un convinto e fermo costituzionalista sta gridando alla sua silenziosa maniera che quello che conta non sono le persone ma le istituzioni e che queste istituzioni, in Italia, sono e devono essere, oltre la persona che le interpreta provvisoriamente, quelle della repubblica parlamentare.
Impeccabile l’intervento di Canfora che registra questa nota e insieme aggiunge come la resistenza del parlamentarismo verso il presidenzialismo personalistico sia per l’Italia un bene ma di fatto sia già incrinata; con il solo tempo da attendere perché questa incrinatura venga formalizzata in nuove istituzioni.
Questo è un dato che, pure colto come ineluttabile per i processi socio-economici che si muovono sotto l’involucro politico e lo trasformano, non ha ragione di essere assecondato per un cedimento a una forma di determinismo storico e stoico. Perché se con Seneca è stato detto che il ‘fato insegna a colui che vuole apprendere e trascina colui che non lo voglia” pure in una filosofia della storia che non è esattamente una filosofia antideterministica, quella di Benedetto Croce, bene viene espresso il concetto che ‘la storia si fa come libertà e si pensa come necessità’. Ed è in questa libertà della ragion pratica che risiede l’umile mio ripetuto pensiero della necessità di contrastare lo scivolamento del potere dal legislativo all’esecutivo; e lo scivolamento dell’esecutivo da un governo che da Palazzo Chigi ritorni al Quirinale (peraltro nell’interpretazione di un uomo – valentissimo – della finanza). Perché i governi al Quirinale ce li abbiamo già avuti e fra Papa re e Re non ci hanno portato esattamente dalla parte giusta della storia. Quella di una repubblica democratica fondata sul lavoro dove il popolo esercita la sovranità, particolare non trascurabile, nei limiti e nelle forme della costituzione.
Un’ultima nota: nella temperie storica e culturale in cui siamo precipitati si contesta, giornalisti in testa, la lentezza nell’elezione del Presidente; al che si dovrebbe semplicemente opporre il pensiero che qui non stiamo facendo uno scavo stradale perché ci sia la fibra ottica in un quartiere piuttosto che in un altro; non stiamo mettendo un ripetitore su un palazzo perché dal 4G si passi al 5G. Stiamo eleggendo il Presidente della Repubblica. Che forse però, evidentemente, si sta trasformando nelle sue diffuse viscere sociali e culturali da una repubblica democratica fondata sul lavoro a una repubblica demagogica fondata sul 5G. Un brutto gioco perché verso un brutto giogo.
Le caserme di Colbert, il Quirinale e il liceo quadriennale
(25/01/2022)
In questi giorni mi è capitato di leggere un’espressione di Colbert, ministro delle finanze francese dal 1669 al 1683 durante il più lungo regno di Luigi XIV, in cui, quello che è uno dei più importanti interpreti della teoria mercantilistica, sosteneva che “le compagnie di commercio sono gli eserciti del re e le industrie di Francia le sue riserve”.
E’ certamente un’idea, questa, che ha precorso di tre secoli un momento specifico della nostra storia italiana che si può individuare nella dismissione del servizio di leva obbligatorio; e, a vedere in questo fenomeno, la necessità di dirottare la capacità bellica dello Stato appunto dagli eserciti veri e propri a quello che ormai l’esercito della produzione.
Chi volesse anche plasticamente vedere questo fenomeno potrebbe vedere qual è lo stato in cui versa la caserma militare ‘Emilio Bianchi’ lungo la via Nomentana a Roma e proprio di lì prendere la Tangenziale Est che lo porti sulla via Salaria dove, facendo una trentina di chilometri in uscita, all’altezza di Passo Corese si è costituito il più grande centro di smistamento delle merci che nella Capitale arrivano da Amazon; a colpo d’occhio una vera e proprio caserma. Per la struttura architettonica, l’impenetrabilità fortificata in entrata e in uscita e, per chi ne ha avuto qualche notizia diretta dall’interno, la disciplina che viene lì esercitata nel segno dell’inno sovrannazionale del taylorismo-fordismo.
L’inno sovrannazionale sarebbe, nella metamorfosi storica, l’elemento di discontinuità rispetto all’inno nazionale dell’alzabandiera nella caserma Bianchi; insieme a una tutta diversa pulsazione che circonda l’aurea dei due edifici.
Ma quello che, nella discontinuità, ancora più va notato è che, mentre la caserma Bianchi è un soggetto bellico di proprietà dello Stato, la caserma di Amazon ha un proprietario privato. Così come succede per quelle altre caserme delle grandi multinazionali che sono dislocate ormai sul territorio mondiale occidentale in cui la pulsazione dell’inno taylorista-fordista, aggiornato oggi in versione ultratechno, ha ben altro battito di quella che promana dalle stanche caserme militari dell’ultimo Novecento.
Con il che due riflessioni vengono alla mente: innanzitutto quella per cui le grandi compagnie commerciali – aggiornando la visione di Colbert – non sono più gli eserciti del Re ma gli stessi Re! che dispongono ormai di questi nuovi e veri eserciti; e, in seconda battuta, che è questo il senso politico da leggere in filigrana nell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica.
La lotta dei partiti, fra i partiti e nei partiti perché Draghi non vada al Quirinale, Palazzo originariamente dei Papa Re, dei Re e della sovranità della Costituzione repubblicana, è esattamente la lotta perché appunto la politica (certo una bassa politica) non ceda nel diritto oltre che nei fatti la Corona all’economia e il pubblico al privato; così come specularmente la lotta di Draghi per andare al Quirinale, attraverso e oltre le ambizioni personali, testimonia la testa di ariete che l’economia rivolge al grado più alto della politica così come il grado più alto del privato al grado più alto del pubblico.
Questo è il senso sotterraneo e ultimo di questo passaggio a cui stiamo assistendo. E se c’è da pensare che sia un bene che dunque Draghi non vada al Quirinale bisogna di contro riflettere se ciò che potrebbe non avvenire in questa elezione avvenga in maniera ineluttabile fra sette anni. Un’ineluttabilità che, per non cedere a una forma di determinismo storico, passa certamente attraverso un rinnovamento dei partiti ma ancora più a monte della stessa società; che a sua volta ha la sua leva ultima nell’istruzione a cui, non a caso, viene da molto tempo ormai lanciato l’assalto sotto l’inno economicistico, laburistico e tecnicistico. Con l’ultima intemerata della riduzione degli studi liceali da cinque a quattro anni … “per favorire – dicono – l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro”.
Cosicché fra un anno stornato dal servizio militare e uno dagli studi liceali aumenta la forza lavoro non qualificata e si abbassa il suo costo sul mercato per i nuovi Re dei Millennials!
Il Sessantotto, la scuola e … una canzone sbagliata
Caro Serra,
è da molto tempo che non le scrivo perché le vicende e i personaggi della politica contemporanea mi allontanano sempre di più dalla penna così come allontanano molti dalla matita dell’urna elettorale. Sennonché, scorrendo la pagina digitale di Repubblica, ho letto un titolo che, unito alla solita e cara pregevole attenzione con cui guarderà a queste parole, mi ha risuscitato l’antico piglio scrittorio.
Si tratta del titolo di un argomento su cui sta interagendo con i lettori che non poteva non risvegliarmi dal letargo in cui questo lungo inverno della politica italiana mi ha appunto gettato. E’ il titolo che recita esattamente così: “Se frana la scuola non è colpa del ’68”.
Caspita che occasione, quella di discutere con lei di questo!
Al liceo, la prenderò da lontano, fra la musica che cominciai ad amare e non lasciai più, fino ad insegnarla ora a mia figlia, ci furono i Beatles, i Pink Floyd e i Police; ma, accanto a questa trinità, da allora ho sempre amato e conosciuto fino nelle viscere la musica di Pino Daniele ed Eugenio Finardi.
Ed ecco il tema per venire al titolo che mi ha rapito e ha inchiodato la mia penna allo scrittoio. Di Finardi, come per gli altri autori che le ho menzionato, conosco tutta la discografia; sia quella ufficiale che quelli che allora si chiamavano ‘bootleg’; le registrazioni semiclandestine che uscivano dai concerti dal vivo perché qualcuno pensava bene di attaccare al mixer del concerto un registratore. L’amore inveterato per i Police scattò proprio da un bootleg del loro primo concerto in Italia che si tenne al Palalido di Milano il 2 aprile del 1980; a cui se ne aggiunse presto uno che veniva da una radio americana (la WNEW-FM) registrato il 29 novembre dello stesso 1979 al Palladium di New York. Circolava allora, insieme alla celeberrima “we don’t need non education”, un’atmosfera della musica nei confronti della scuola che Sting, proprio in quel concerto a Milano cantava nel testo di Born in The 50’S in questi termini: “You don’t understand us, so don’t reprimand us / We’re taking the future, we don’t need no teacher”; in fondo i termini in cui potrebbe esprimersi uno dei cosiddetti Millennials (per la verità non tutti) nei confronti della scuola di oggi. Temperie che in pochi versi si concentrava nei Pink Floyd e nei Police ma in cui appunto, nel più colto orizzonte mentale a cui lascia spazio la lingua italiana, si esprimeva lo stesso Eugenio Finardi nella canzone ‘Scuola’ che costituisce la seconda traccia di quel magnifico album che è Diesel.
Fino dal liceo amai subito ‘Scuola’ per la musica, quanto però al testo già da allora la battezzai, pure in quello che ritengo il migliore scrittore di testi di canzoni insieme a Pino Daniele in Italia e in generale, “la canzone sbagliata”.
E qui veniamo al punto. Diesel uscì nel 1977; nell’anno che, mi corregga se sbaglio, è figlio per ethos, pathos e logos, del ’68 (anno in cui pure io presi a frequentare la scuola, il particolare non è irrilevante, nella pancia di mia madre insegnante di italiano, latino e greco al ginnasio). E, in quella canzone, c’era e vi rimane depositato tutto lo spirito del tempo e dei movimenti delle contestazioni del ’68 e del ’77; prendiamone una strofa, quella su cui per me, c’è l’assoluta congruità fra lo spirito della frana della scuola di oggi e quello che circolava pure nelle menti più illuminate del ’68. Scrive Finardi in Scuola: “e infatti mi ricordo mi sembrava [l’imperfetto si rivolge a un liceo fatto proprio nel 68″] un po’ strano passare quelle ore a studiare il latino perché allena la mente a metter tutto in prospettiva ma io adesso non so calcolare l’IVA”; e – continua la canzone – “io volevo sapere la vera storia della gente come si fa a vivere a cosa serve veramente perché l’unica cosa che la scuola dovrebbe fare è insegnare a imparare”.
Io da parte mia ricordo che queste parole mi sembrarono subito irricevibili al liceo e uno giorno, conclusi quasi ormai gli studi universitari, in cui ebbi la possibilità di incontrare Finardi alla fine di un suo concerto glielo chiesi direttamente in questi termini: “Eugenio – scusa – tu la riscriveresti esattamente così quella canzone?” O meglio: “La pensi ancora così?”. E lui mi disse rispose senza esitazioni: “Certo! Esattamente così!”.
Ed è allora esattamente così che io pensi che quelle parole sono oggi le parole d’ordine della scuola che stanno pensando da molti anni ai piani alti del Ministero. Il Ministero dell’alternanza scuola-lavoro, che istilla il dubbio pure nella mente più strutturata di un adolescente che forse è “un po’ strano passare quelle ore a studiare latino perché allena la mente a metter tutto in prospettiva ma io adesso non so calcolare l’IVA”; quel Ministero che, nelle scuole, fra docenti e discenti, ci sta riempendo la testa da almeno quindici anni – nel segno della ossessività del mantra della didattica per competenze – che “l’unica cosa che la scuola dovrebbe fare è insegnare a imparare”.
Perché allora non dovrei pensare che la frana della scuola di oggi, le parole d’ordine della frana, non siano state le parole d’ordine del ’68? Di uno scrittore di testi che ha frequentato il liceo nel ’68 e ha scritto quella canzone in un album pubblicato, non un caso, proprio nel 77! Per me con tutta la stima infinita e l’amore per la bellezza dei testi di Finardi (io e mia sorella lo chiamiamo, da quando eravamo adolescenti, “il Maestro”) ‘Scuola’ rimane la “canzone sbagliata”; ma ciò che più conta, per stare al tema in questione, rimane la canzone che potrebbero cantare i vari ministri che si sono alternati alla pubblica istruzione in quella che chiamiamo la ‘Seconda Repubblica’; la Repubblica, per intenderci, di Berlusconi e così pure della frana della sinistra oltre che della scuola.
Questo è il mio punto di vista naturalmente: e forse perché in quella scuola del ’68 ci entravo pure io di straforo; ma non dalla finestra degli occupanti, quanto piuttosto nel ristoro della placenta di mia madre che evidentemente, nonostante tutto, era a latino e greco che pastorizzava il latte primigenio.
Una madre insegnante di lettere classiche e, si badi bene, comunista; quando ancora i comunisti pensavano come scrive magnificamente Concetto Marchesi, non a caso illustre latinista, nel suo libello ‘Perché sono comunista’: “Perché sono diventato comunista? […] E’ un perché di anni lontani, che mi riporta alle vendemmie e alle falciature della mia campagna catanese. Filari e filari di viti dentro un’ampia cerchia di mandorli e di ulivi e un suono di corno che radunava le vendemmiatrici. Vigilavano i guardiani con mille occhi: ed esse sparivano curve nel folto dei pampini, da cui rispuntavano colmi canestri ondeggianti su invisibili teste. All’Ave Maria l’ultimo suono di corno: e la giornata finiva con un segno di croce. ma i piedi scalzi dovevano correre per chilometri prima di giungere a notte in un tugurio dove era il fumo di un lucignolo e quello di una squallida minestra. Queste cose sapevo e vedevo; e a giugno mi accadeva più volte di scorgere uomini coperti di stracci avviarsi verso la pian desolata con un pezzo di pane nella sacca e una cipolla e la bamboletta di vino inacidito, destinato, secondo il costume, all’uso dei braccianti. Così negli anni della puerizia cresceva in me un rancore verso l’offesa che sentivo mia, che era fatta a me e gravava su di me come un’insensata mostruosità, perché insensate e mostruose mi parevano le ragione addotte per giustificarla. Avevo l’animo dell’oppresso senza averne la rassegnazione. Così nell’età in cui si comincia ad essere qualcosa, sentivo nella causa dei lavoratori la mia stessa causa, mentre la reazione dell’ambiente familiare borghese o piccolo borghese favoriva la proletarizzazione del mio spirito, a cui negli anni dell’adolescenza, si aggiungeva un’elementare consapevolezza dottrinaria”.
Ecco caro Michele – non l’ho mai chiamata per nome ma ora lo faccio perché sento che lei sicuramente starà leggendo proprio dove io scrivo – fra quei contadini della Sicilia profonda c’erano pure i miei nonni paterni; c’era mia nonna che doveva sfamare sei figli e che per farlo ebbe, come diceva mio padre, un’intuizione di fondo che tenne sempre fissa. I figli sarebbero dovuti andare a scuola, possibilmente a studiare il latino o qualcosa che più ad esso si avvicinasse; cosa che essi fecero a turno, uno per uno, mentre gli altri lavoravano per mantenere lo studio del fratello o della sorella appunto di turno. Nel grembo di mia madre sono entrato, come feci con la vita, nella scuola, e non ne sono più uscito; così come dai ricordi di mio padre che dai “filari e filari di viti in un’ampia cerchia di mandorli e di ulivi” si elevò (è la parola giusta e tutt’altro che snob per chi è stato davvero povero), grazie al latino o a qualcosa che più gli rassomigliasse da vicino, alla capacità di scolpire a olio su tela fino alla esposizione della Biennale di Venezia “quei filari e filari dentro un’ampia cerchia di mandorli e di ulivi”; di insegnarlo poi per una vita ai suoi studenti di storia dell’arte alle scuole medie. Insegnargli soprattutto come non è né nell’imparare a calcolare l’IVA che si impara a imparare; né tantomeno si impara la vera storia della gente.
La vera storia della gente, questa si impara rimanendo fermi “a quel suono di corno che radunava le vendemmiatrici” che solo nel latino, nel greco e nell’italiano si impara a decriptare sul pentagramma del giusto e dell’ingiusto. Il suono della “canzone sbagliata” in questo non mi ha insegnato altro invece che dove esso si fa parola, testo, la canzone appunto è … sbagliata.
Cordialmente,
Giuseppe Cappello
La fiera dell’insignificanza tra femminicidi e laburicidi
Fra i tanti rituali stanchi di questa società che, facendolo per tutto, nel momento in cui vorrebbe innalzare qualcosa all’essere lo precipita rovinosamente nel nulla, rientra l’istituzione di una giornata per ogni cosa. Il calendario agiografico degli onomastici potrebbe venire sostituito tranquillamente con la santificazione quotidiana di tutte le vacuità per cui si scrive, ci si ritiene testimoni, addirittura paladini.
La cosa certo non si può dire per questo trascorso 25 novembre che ha commemorato le donne vittime di femminicidio; io stesso ho cercato di aiutare al meglio mia figlia nel lavoro che hanno fatto in tal senso su indicazione delle professoresse delle scuole medie inferiori (un grado di istruzione – si dica per inciso – che non è assolutamente, come si pensava una volta, l’anello debole – forse perché come alle elementari permane un’attenzione sugli elementi del sapere – del sistema scolastico che sembra invece essersi spostato alle superiori dove ormai, come per le giornate, si vorrebbe onorare tutto e non si onora niente).
Il numero dei femminicidi in questo ultimo anno è spaventoso e, prima ancora che giunga il 31 dicembre, già oltrepassa i cento, 103 per l’esattezza; pensare di contarli, peraltro, è già segno di una certa rassegnazione quando la prospettiva ottimistica è quella di ridurli. Fosse anche che una sola donna venisse uccisa per i ‘motivi’ e nel modo di cui ci parlano le cronache, come si dice, in lei, sarebbe uccisa l’umanità tutta. Umanità che non è una quantità ma una qualità dell’essere vivente cosicché se l’evento avviene per una lì avviene per tutte e per tutti.
Sennonché per le donne ci siamo almeno elevati al momento culturale di istituire appunto la parola femminicidio (anche se qui il correttore la continua a segnare in rosso); la parola, che è segno distintivo della comunità, comincia a sottrarre – su un cammino che certamente è ancora molto lungo – già la brutalità al gesto individuale che in quanto tale è fuori da ogni possibile con-cepimento.
Lì ancora dove la parola manca è su un altro fenomeno che, sottratto al linguaggio dei dati e dei numeri in cui tutti oggi dicono ma non parlano, appunto bisognerebbe dare una verbalizzazione; se ad oggi sono morte di femminicidio, come si è detto, 103 donne, i morti sul lavoro nei primi otto mesi di questo anno sono stati 772. Perché non usare allora la parola laburicidio? Forse in questa società che censura ormai la questione sociale con ogni mezzo – compreso quello di innalzare ogni altro improbabile particolarismo nella nuova agiografia quotidiana – il termine sarebbe di scandalo; di scandalo ma soprattutto, come per il termine femminicidio, di riconoscimento verbale di un problema che invece deve essere occultato perché la macchina continui ad andare.
Quello che la furia del dileguare economica ci ha lasciato ancora di umano per riuscire a pronunciare la parola sull’omicidio di una donna non ci permette invece di trarre da questo poco di umano la parola e con essa la cultura sull’omicidio – perché anche esso non è un tragico ‘incidente’ – di un lavoratore, in molti casi di una lavoratrice (come della ventiduenne Luana d’Orazio qui in immagine). Bisogna piuttosto che ognuno già sia pronto domani a rivendicare l’improbabile santificazione di quanto di vacuo lo fa sentire speciale in’ulteriore giornata che, sorta, già è uno ieri nella fiera dell’insignificanza di cose ed esseri umani.
La filosofia negli istituti tecnici e la gentrificazione del concetto
(pubblicato sulla Rivista Education 2.0 nell’uscita del 27/10/2021)
Il Ministro Bianchi ha comunicato che al Ministero della Pubblica Istruzione si sta lavorando per mettere a punto una riforma che introduca la filosofia negli istituti tecnici. La notizia ha suscitato un diffuso dibattito sia fra i docenti che fra note personalità del mondo della cultura. Cacciari si è così espresso, con i toni che gli sono propri, in maniera perentoria: «Sembra una di quelle tante uscite che di tanto in tanto finiscono sui giornali come il cambio degli esami di maturità»; di contro, Umberto Galimberti, collega dell’ex sindaco di Venezia all’Università Ca’ Foscari nonché a quella del San Raffaele di Milano, si è detto entusiasta rispetto al progetto di riforma. Luca Mori, dell’Università di Pisa, non ha accolto né scartato l’idea in maniera aprioristica ma ha sottolineato che è necessario «ragionare su come introdurla nei tecnici». «È chiaro – aggiunge saggiamente Mori – che non si può fare come per i licei classici e scientifici». Sennonché, al netto della notorietà mediatica, che è oggi il criterio con cui si distingue la competenza a parlare di qualcosa se non di qualsiasi cosa, bisognerebbe innanzitutto interpellare i destinatari della proposta ministeriale. Cercando fra le loro risposte, non sembra emergere un particolare entusiasmo. La professoressa Patrizia Marini, dirigente scolastica dell’Istituto Tecnico Agrario Emilio Sereni di Roma nonché responsabile della Rete Nazionale degli Istituti Agrari, dice senza mezzi termini: «A me sembra che prima di pensare ad introdurre un’altra disciplina del tutto nuova bisognerebbe pensare a ripristinare le ore tolte ai tecnici con la riforma di dieci anni fa. Negli agrari, per esempio, c’è un paradosso: sono state eliminate sia la botanica sia la meccanica; ma come si fa a diventare un tecnico agrario senza studiare la botanica?» Esattamente come – aggiungiamo noi – nei licei scientifici è stata per esempio eliminata un’ora di storia.
Cosicché la cifra di questa riforma pare aggiungersi, in maniera empirica e senza avere un’idea complessiva dell’istruzione, alle tante altre con cui il ministro di turno ha voluto lasciare il suo autografo nelle stanze di viale Trastevere, proprio come i ragazzi incidono i banchi o i muri nelle aule scolastiche con il proprio nome, a segnalare il loro passaggio. Da pochi anni, a voler riprendere le sagge parole della Professoressa Marini, abbiamo assistito all’introduzione dell’Alternanza Scuola Lavoro (ASL), oggi PCTO, nei licei Classici e ora vedremo probabilmente la speculare introduzione della filosofia negli Istituti Tecnici. Un capolavoro di democrazia, a stare all’imperativo con cui Clistene, nel 507 a.C., introdusse la sua riforma epocale, che avrebbe segnato la cifra delle istituzioni politiche occidentali di lì in avanti. Il politico ateniese, nel sottrarre il potere ai ghene, e nell’organizzarlo sull’unità dei demi, i quartieri, affermava perentoriamente: «Mescolare!».
Ci sia concesso stare alla filosofia, che è tema in questione, e concederci una digressione su Empedocle. Questi immaginava che la vicenda cosmica fosse scandita da diverse fasi di separazione e mescolanza degli elementi originari dell’acqua, dell’aria, del fuoco e della terra; gli elementi, se in un momento aurorale erano assolutamente separati ognuno in se stesso, si mescolavano poi a costituire la natura così come noi la conosciamo per poi giungere al livello parossisitico della con-fusione totale del caos; di qui poi, in un moto circolare, recuperavano l’equilibrio naturale e si riunivano infine nella originaria separazione aurorale.
Empedocle, oltre a essere un filosofo, era anche un importante politico democratico nella sua Agrigento e non vi è tema di dire un’astrusità nel ritenere che la vicenda cosmica immaginata da Empedocle non fosse una proiezione (ma anche viceversa) della vicenda con cui pure si svolge il circolo delle forme di governo. Ne parla Platone nel libro VIII della Repubblica e la logica che permea la circolarità politica della dialettica uno-molti/effusione-confusione ricalca in fondo la dinamica già descritta in Empedocle; cosi potrebbe essere proprio la filosofia a costituire un criterio di giudizio con cui esprimersi sulla proposta del Ministero. Certamente vi sono stati anni in cui la trascendenza di un indirizzo di studi rispetto all’altro è stata assoluta; oggi, però, la domanda che ci poniamo è se non vi sia una mescolanza caotica di tutto con tutto, che non giova né all’istruzione né alla filosofia stessa. Perché pure su cosa sia e debba essere la filosofia bisogna intendersi quando se ne parla e soprattutto quando si vuole portarla dentro un’aula scolastica. Diciamolo subito: la filosofia, per dirla con Aristotele, è la scienza dell’«essere in quanto essere»; si vorrà portarla in un istituto tecnico con questa idea, che non penetra più nemmeno in un liceo classico? Molti sono i casi in cui i docenti che insegnano filosofia pensano che il suo insegnamento passi attraverso quella che chiameremo una gentrificazione del concetto: che vuoi ormai metterti a leggere e a spiegare lì dove Parmenide scrive «che l’essere è e non può non essere»; dove Platone attua la sua chirurgia eidetica dell’identico e del diverso; dove, appunto, Aristotele scrive dell’«essere in quanto essere»; fino alle pagine dello schematismo trascendentale di Kant e dell’affermazione hegeliana secondo cui «la logica è perciò da intendere come il sistema della ragion pura, come il regno del puro pensiero. Questo regno è la verità, come essa è in sé e per sé senza velo. Ci si può quindi esprimere così, che questo contenuto è l’esposizione di Dio come egli è nella sua essenza eterna prima della creazione della natura e di uno spirito finito».
Piuttosto che andare avanti e indietro nel tempo e, per queste vie, oltre il tempo, attraverso la chirurgia dell’essere, la gentifricazione del concetto riconduce la filosofia a un più appetito (dagli studenti) e gratificante (per i docenti) riflusso nella visione di film o di analisi delle canzoni dell’epopea rock. Il Nobel a Dylan stende un velo di nobiltà e di liceità ma ahinoi non di licealità su tutto; al Liceo, la scuola che Aristotele aveva fondato ad Atene, dell’«essere in quanto essere» si discuteva; così come, per venire a tempi più recenti, i Licei furono introdotti da Napoleone in Francia proprio nel segno dell’esercizio logico puro della mente; lì dove, per la formazione dei tecnici, lo stesso Napoleone aveva pensato l’École polytechnique. «To ta auto prattein» scriveva Platone nel Libro IV della Repubblica: che ognuno faccia il suo! E lo faccia bene. In tempi di con-centrazione, vale bene l’imperativo di Clistene, «mescolare!»; ma in tempi di con-fusione, dovremo forse pensare con Platone: è giusto che ognuno faccia il suo. Perché lo possa fare bene; e, facendolo bene, dia dignità scolastica tanto ai licei quanto agli istituti tecnici. Il contrario, all’opposto di quanto possa apparire all’inizio, è una visione ingenua e non organica della scuola, che tende a risolvere l’istruzione in una mediocrità niente affatto aurea in cui, tutti facendo tutto, nessuno fa niente. Così quella democrazia, che tutti dicono di perseguire, viene invece sempre più desertificata a partire dalla linfa vitale dell’istruzione.
La dittatura sanitaria del nichilismo
(pubblicato su l’Espresso del 18/10/2021)
Scrivo qualche riga su quelli che sembrano già essere i risultati più che acquisiti del secondo turno delle elezioni comunali perché, a mio avviso, si devono continuare a dire alcune cose.
Gualtieri ha vinto a Roma, Lo Russo, sempre del centrosinistra, ha vinto a Torino e anche a Trieste la sfida è stata più aperta di quanto il centrodestra non credesse. Incrociando questi primi dati, che si aggiungono a quelli delle vittorie del centrosinistra a Milano, Bologna e Milano, con il mio voto per Gualtieri e fino alla partecipazione alla manifestazione di sabato scorso, ce ne sarebbe per esultare. Ma, per la verità, scongiurati per i municipi più i pericoli di ignoranza crassa al governo che di recrudescenze fasciste al potere, niente altro ci sembra rimanere di cospicuo nel bottino elettorale.
Peraltro il vero dato numerico della vittoria si risolve in quel 60% della cittadinanza che non va più a votare. Ed è questo un fenomeno che bene si accompagna e si tiene stretto con quanto ha da dirci di vero chi dice no al vaccino e al green pass. L’ignoranza crassa è stata sconfitta ma una più fine e per certi versi anche dotta ignoranza è quella che ci deve preoccupare: e per la politica e per la scienza, ovvero in una parola per la ragione, il popolo sembra aver eletto a sua religione civile il nichilismo.
Perché andare a votare allora? Per quale causa finale? In forza di quale causa efficiente se l’anima si è svuotata essa stessa di ogni idea? Per chi? E questa domanda non è ultima nella serie: perché la classe dirigente è vuota essa stessa di ogni vis eidetica.
Quanto più ci si elevi all’essere, in ogni cosa, più si sente la fame dell’essere; ed è così che quanto più si degrada nel nulla, il nulla si vuole. La furia nientificatrice che ha distrutto i locali della CGIL questo è stato; il problema è che molto di più di una devastazione che si esprime fisicamente è quella che si esprime politicamente con l’astensione. Ieri questa furia nientificatrice era espressa in un ‘vaffanculo’; oggi, esaurito il vaffanculo (perché di un vaffanculo non ci si può saziare come mostra la sparizione dei 5S) rimane la noia.
La noia e l’aumento della povertà e dell’iniquità: che immaginiamo che la protesta contro il green pass dei portuali di Trieste non sia in realtà una protesta contro il green pass ma un casus belli pure inconsapevole di questioni sociali più profonde e anche esplosive. Ridotte però a conati convulsi di chi una dittatura sanitaria l’ha subita veramente e nemmeno se ne è accorto: la salute, infatti, non è questione solo del corpo ma, come si diceva prima, anche dell’anima. E sull’anima sì che c’è stata in questi ultimi trent’anni una dittatura sanitaria. Non si può pretendere di passare decadi intere di fronte a Grandi Fratelli, Amici o a inseguire cellulari e smart tv senza che l’anima si svuoti; e con essa si svuoti l’anima razionale di un popolo ovvero la democrazia.
Siamo di fronte all’arduo compito della ricostruzione così come nel Secondo dopoguerra ma dubito che banchieri, economisti e ingegneri possano avere la ricetta di un piano Marshall dell’uomo.
Il populismo astensionista e la repubblica podestarile
(5/10/2021)
Le elezioni amministrative che si sono appena concluse si presentano al tempo stesso di facile e complicata lettura.
Ci sono dei grandi sconfitti: la Lega, ancora più Salvini, e i Cinque Stelle; la Meloni non ha vinto.
Il Pd e un centro-sinistra ancora rabberciato senza una fisionomia politica riconoscibile, chiara e convincete sembrerebbe così essere l’unico vincitore della tornata elettorale. Sembrerebbe. Perché, a voler andare fino in fondo e a sceverare bene quello che dovrebbe insegnare questo voto, ciò che risalta invece più significativamente è che il Pd e il centrosinistra hanno vinto (anche con il mio voto) le elezioni perché l’ultima frontiera del populismo è ormai chiaramente l’astensionismo.
Ed è sull’astensionismo, pur a non voler mescolare quello che non bisogna mescolare, che il voto amministrativo si imparenta comunque con il più vasto orizzonte politico. A quale prezzo il Pd e i suoi alleati hanno vinto infatti le elezioni? Al prezzo di identificarsi, lo si voglia o no, con il partito che più si giustappone al governo Draghi, a Draghi stesso. Sennonché questa giustapposizione è politicamente vincente a due condizioni: quella di una completa ritirata del partito democratico rispetto alla rappresentazione delle istanze sociali del demos che, per la fortuna del partito di Letta, è giunto a declinare appunto il suo populismo nella forma dell’astensionismo; e alla seconda condizione che un partito che si chiama e si dice democratico paga ancora di più per la sua vittoria: lo svuotamento sempre maggiore che stanno subendo le istituzioni democratiche.
La politica oggi, orfana del popolarismo dei partiti istituzionali e ora anche del populismo dei movimenti antisistema, sembra essere ridotta all’arbitrato di un podestà comunale straniero. Mutuando schemi che prenderemo a prestito, ci sia consentito, da un altro tempo, non dobbiamo oggi chiederci almeno se la res publica consolare non stia evolvendo in forme di res publica podestarile fine alle soglie della signoria?
Avremo modo di verificare, in fondo già dal profilo che assumerà nel prossimo anno l’istituzione della Presidenza della Repubblica (sempre più legata alla persona e sempre meno alla carica già con il doppio mandato a Napolitano e con le pressioni per un doppio mandato di Mattarella) se questa è solo una suggestione o un’analisi che effettivamente coglie in embrione una metamorfosi delle forme di governo; metamorfosi delle forme di governo che naturalmente non può non tenere conto delle metamorfosi sociali ed economiche che sembrano andare anche lì verso il fenomeno della iperconcentrazione del potere piuttosto che verso il mantenimento della sua pure minima articolazione.
Il Dragopardo
(23/09/2021)
Il mio interesse per le vicende politiche italiane sta sempre di più affievolendosi in maniera direttamente proporzionale al declino intellettuale che tali vicende esibiscono. Che i protagonisti di queste vicende esibiscono. Peraltro, parlare di protagonisti mi sembra un torto proprio all’etimologia della parola in due sensi. Di protoi, primi, non ne vedo; né tantomeno vedo l’agonismo.
Primo, oggi, e osannato, quasi alla maniera periclea per cui di lui si potrebbe dire con Tucidide che la nostra “nelle parole è una democrazia, ma di fatto il governo del primo cittadino”, è Mario Draghi. Concediamoglielo pure: sennonché in un panorama antropologico così deprimente verrebbe da dire con Erasmo da Rotterdam: “inter caecos regnat strabus”.
E, proprio, sullo strabismo, oggi Draghi ha dato una significativa prova di quale sia la parte a cui egli, sotto le vesti del padre della patria, guarda in maniera esclusiva. Alla riunione di Confindustria si è espresso in maniera chiara e distinta: “in questo momento, è una cosa che è importante ribadire, il governo non ha nessuna intenzione di alzare le tasse”.
Ora, questo momento, è ancora il momento della pandemia, che ci ha insegnato, nel suo primo tempo, quanto sia importante lo stato sociale perché chi ha di meno possa, ad esempio, accedere alle cure; ci ha poi insegnato, in questo corrente secondo tempo. come la scuola pubblica sia stata riaperta perché in essa, posta un edilizia scolastica arrangiata e vetusta, non viene più osservata nessuna misura di distanziamento; ci ha insegnato come sui trasporti pubblici non ci sia stato nessun intervento di rafforzamento rispetto a una dignità ed efficienza almeno sufficiente; ci sta insegnando quanti lavoratori e quante lavoratrici (GKN, Whirlpool, Alitalia) stanno perdendo il loro posto di lavoro. Già prima dello sblocco dei licenziamenti che avverrà a gennaio.
Cosa significa allora che il governo non ha nessuna intenzione di mettere mano, nel momento più alto della concentrazione della ricchezza a fronte della diffusione dell’indigenza, a una pure minima redistribuzione della ricchezza pubblica? Gli imprenditori lo hanno capito e hanno applaudito! Significa che il trend liberista, nonostante questi due anni devastanti, non verrà invertito; almeno mitigato. Significa che Draghi crede legittimamente, da uomo di destra, che la soluzione ai problemi dell’economia possa e debba venire solo dal mercato. Queste le convinzioni del monocolo in un mondo di ciechi; dell’acclamato protos.
E l’agonismo? Ho ascoltato Enrico Letta, a Ottoemezzo, non dire una parola sul tema di questi gravi problemi sociali. Giannini, il direttore de La Stampa, il che è tutto dire, ha stigmatizzato i giri di parole del segretario del PD apostrofandolo come doroteo; la stessa Gruber gli ha dovuto ricordare che, in questi ultimi giorni, ha preso più volte la parola Romano Prodi per sottolineare come il PD di Letta insegua i temi dei diritti civili, sacrosanti, ma non dica una parola sulla questione sociale.
Dov’è allora l’agonismo? Quell’agonismo che, oltre a essere il dovere della sinistra, è ancora più a monte il sale della democrazia. La sua quintessenza! Quell’agonismo che fa si, esso stesso, che ci siano protoi e non pseudoprotoi. Lo stesso Landini, una volta sempre sopra le righe alla FIOM, ora sembra aver riparato sotto le righe alla CGIL. Fuori allora, come oggi, dal pentagramma. Cosicché, di penta, ciò che si vede è solo il riaffioramento del pentapartito.
Il pentapartito: era il 1981 e alla Casa Bianca entrava Ronald Reagan; la Thatcher già era a Downing Street da due anni. I dieci anni che sono seguiti li conosciamo: economicamente, socialmente, politicamente e culturalmente; così come conosciamo anche la sinistra che è andata perdendosi dagli anni Novanta in poi. Prona ai protoi. Un attore e una baronessa.
Probabilmente, con Draghi e questo gran ballo dell’angelicata Italia, un novello Visconti potrebbe girare oggi il Gattopardo del terzo millennio: dai set di Hollywood così come dagli inglesi manieri ai banchieri anglofoni. Perché tutto cambi affinché nulla cambi; ironia della sorte, o forse del più forte, sullo scranno confindustriale dove Draghi scandiva con forza che non avrebbe toccato le tasse lo slogan del sottopancia era: ‘scegliere di cambiare’.
E allora, quale suggestione dalla politica? Quali interessi, passioni, azioni o solo anche una riflessione scritta può suscitare in chi si augurava che almeno un fenomeno epocale e globale come quello della pandemia non rimanesse sul campo come una “inutile strage”? Almeno a sinistra, almeno per la sinistra.
Le lacrime afghane e il nostro stesso oblio
(pubblicato su l’Espresso del 1/09/2021)
La guerra che Bush cominciò all’indomani dell’11 settembre e battezzò come Infinity War è finita. Di infinito, oltre allo strazio dei sommersi e dei salvati dell’aereoporto di Kabul, rimane soprattutto la terribile testimonianza del video che la bambina afghana ha girato a metà agosto fra le lacrime per quello che le avverrà ora. Il suo volto, bello, pulito, truccato acqua e sapone con la cosmesi del futuro finirà molto probabilmente dietro un burqa: terribile e impossibile da accettare; e ancora più terribile, straziante è il fatto che quella bambina sarà ‘rieducata’ e già fra un anno ragionerà come i suoi aguzzini. Una cosa atroce: la devastazione di una coscienza e la sua sostituzione con un’altra. Un’altra coscienza che forse non saprà mai di aver pianto quelle lacrime e andrà lieta verso l’altare nuziale che per lei già si prepara. La cosmesi acqua e sapone del futuro e della libertà si tingerà della cipria nero caligine della dimenticanza del sé. E in quella dimenticanza del sé c’è l’oblio di tutti noi a noi stessi. Perché anche noi dimenticheremo; come abbiamo dimenticato le infinite tragedie per cui abbiamo prodotto disapprovazione, sdegno, dimenazione mediatica ma poi abbiamo archiviato come episodi. E questo perché in fondo, in questo «mondo che brucia in fretta quello che ieri era vero», l’anima non fa mai in tempo ad essere realmente toccata e a elaborare un’idea da cui discenda anche un’azione organizzata che alla realizzazione del «cosmopolitismo dei mali comuni» contrapponga almeno in agenda un cosmopolitismo dei beni comuni. Dovevamo esportare, in quanto Occidentali, la democrazia ma, lì dove l’abbiamo promessa, abbiamo prima abbandonato le primavere degli arabi e ora la cosmesi acqua e sapone di un prefigurato futuro dell’Asia; intanto le nostre città tracimano della marea dell’idiosincrasia degli uni agli altri e si fanno sempre più tristi e violente. Violente ma non forti: perché se c’è un rimprovero da fare fra Washington, Londra e Bruxelles non è assolutamente quello dell’imperialismo; tutto il contrario! Che gli imperi le guerre le vincono e di lì istituiscono paci e istituzioni durature
La pandemia e il sapere criptico-oracolare di Agamben
(pubblicato su Domani del 1/08/2021)
Ho letto con grande interesse l’articolo che su ‘Domani’ ha scritto Raffaele Alberto Ventura in merito alle posizioni di Agamben (e bisogna aggiungere di Cacciari) sulla presunta occasione che la pandemia starebbe offrendo a un gruppo di oligarchi mondiali per ridurre la popolazione mondiale in una forma di schiavitù 2.0. C’è chi in questo senso e nello stesso solco concettuale ha parlato di «glebalizzazione». Negare ora che la questione sia complessa e che ci siano problemi legati all’azione del grande capitale sulle società contemporanee sarebbe sciocco; ma proprio perché a sciocchezza si risponderebbe con una sciocchezza e si accetterebbe solo a un livello più alto e concettualmente raffinato il manicheismo mediatico della querelle no pass/si pass
Sennonché l’articolo di Ventura, al di là di querelle circensi 2.0, ha il merito di andare proprio dentro il concetto originario per cui tanta filosofia riscrive in maniera secolare la imbarazzante pagina che pure, con qualche ragione in più, scrive tanta teologia (non tutta); l’imbarazzante pagina di un rifiuto della modernità, il che significa innanzitutto l’imbarazzante pagina di disagio con cui sia la teologia che la sua variante secolare filosofica, vivono nei confronti della scienza moderna: disagio da cui almeno la filosofia, nata proprio dalla necessità di superare nel logos una visione mitica della natura, della physis, si deve guardare bene.
Per fare un passo avanti non se ne possono fare due indietro.
E questo è quanto Agamben fa nella sua heideggeriana e criptoteologica visione della modernità, schierandosi pure foucaultianamente fra gli psicotici demoni persecutori di una visione panoptica delle istituzioni liberal-democratiche. Pure qui: nessuno è ingenuo e dismette il sapere critico che costituisce la quintessenza della filosofia. Ma appunto il sapere critico, che il sapere criptico, quello dei filosofi-vate, è esattamente lo speculum di quanto essi credono di vedere e di combattere. Liberarsi da questo speculum, da questi idòla theatri che sono esattamente il complemento degli idòla tribus, è innanzitutto allora il compito del buon filosofo. Che non può non fare i conti con la modernità nella sua dimensione epistemologica della scienza e politologica della liberal-democrazia. In quale specifico ruolo? In quello che è, all’opposto di un improbabile veste criptica, appunto il suo ruolo critico.
Critico perché la liberal-democrazia possa evolvere sempre più in forme di social-democrazia o, si dica più nettamente, di democrazia sociale; e critico perché la scienza moderna non inciampi in residualità neopositivistiche ma possa avere proprio dalla filosofia una giusta nozione di ciò che ha da intendersi, ad esempio, per natura e sui i rapporti che con essa deve intrattenere l’uomo. Che se questi oggi rifiuta modernamente una visione per cui sia l’Essere delle teologie o delle onto-teologie a spiegare la sua finitezza, al contrario, non può nemmeno pretendere che sia la sua finitezza con le proprie prestazioni epistemologiche e i loro risvolti pratici e tecnologici a spiegare la natura.
Non ci rivolgeremo alla tradizione che va da Eraclito (fr. 30), passa per Spinoza, arriva a Darwin e risolve, per il contemporaneo, in Dio, uomo e mondo di Karl Löwith; ma diremo in questa sede che se siamo entrati in quell’era che gli scienziati chiamano antropocene, l’era in cui l’uomo è in grado di incidere sia sul microcosmo della biologia che sul macrocosmo della astrofisica, ciò non avviene senza che su di lui non ricadano le conseguenze di quella incidenza. Senza nessun danno per la natura naturans, proprio «dell’uomo ignara, e dell’etadi», ma con il danno fino alla possibile estinzione di quella natura naturata che ha trovato per caso e selezione la via di homo sapiens ma che non ha nessuna ragione, se non quella che la filosofia mette a disposizione proprio dello zoon logistikòn, di doverla mantenere per mantenersi.
I no vax e la Grande Guerra
(pubblicato su Domani del 30/07/2021)
Cercando di prendere seriamente, per quanto l’oggetto lo permetta, la questione dei cosiddetti no vax, viene da pensare come le sue origini possono essere in qualche modo ricondotte a una delle cause che furono alla base della Prima guerra mondiale. Per quest’ultima ci furono motivi di ordine politico, di ordine territoriale e di ordine coloniale; sennonché a leggere un buon manuale di storia (e anche di letteratura) viene in evidenza come un fattore molto importante che diede origine alla prima guerra della società di massa fu quello psicologico esistenziale.
La seconda rivoluzione industriale e in particolare gli anni che vanno dal 1890 fino al 1913 significarono per l’uomo europeo una fortissima compressione dell’individualità e dell’identità personale lì dove la meccanizzazione e l’automazione del lavoro, nonché la formazione di grandi agglomerati urbani, determinarono sempre di più un grigio anonimato delle esistenze. La guerra fu vista allora come un’occasione per ritrovare il carattere eroico della vita; non è un caso che il famoso incitamento al combattimento d’annunziano Eia Eia Alalà era il grido con cui alla guerra andava Achille; e non è un caso che alla grigia ripetizione esistenziale dell’anonimato urbano-industriale, in Italia, le giornate per la discesa in guerra del Paese nel 1915 furono acclamate come i giorni del ‘maggio radioso’. La coppia cromatica e concettuale fra il grigiore dell’esistenza e la sua risollevazione radiosa spiega bene perché numerosi uomini andarono incontro alla guerra per uscirne poi con un’idea del tutto diversa. La biografia e l’opera di Ungaretti parlano per tutti. Ed oggi parlano pure a chi volesse comprendere il fenomeno no vax; un modo per porre, in fondo, pur in modo elementare, inconsapevole e degno alla fine di un sorriso, il problema del riscatto dell’individuo e del suo anonimato pubblico di fronte a quanto viene individuato come un sistema.
Un sistema che, dal canto suo, in maniera molto meno elementare e per niente compatibile con un sorriso, sospinge e utilizza questa querelle dell’opinione pubblica esattamente per uno degli altri motivi per cui i governi europei si adoperarono alla fine per la Grande Guerra; quello della necessità di scaricare il conflitto sociale, quando non di occultarlo, sul conflitto nazionale.
Viviamo oggi in un tempo che, sebbene latente, vive di un conflitto sociale che potenzialmente avrebbe la capacità di destabilizzare il sistema economico contemporaneo molto più della stessa pandemia. Il tema, per il sistema dei governi mondiali, è quello di occultarlo e, proprio in virtù di questo fine, di scaricarne le energie civili su questioni relativamente risibili.
Si pensi se oggi la veemenza del conflitto che c’è nell’opinione pubblica sul virus si spostasse sulla questione dello sfruttamento del lavoro e della perdita progressiva di diritti sociali che avanza e si diffonde esattamente come un virus su scala globale senza che vi sia posto lì sì un vaccino.
Perciò: in fondo i no vax possono pure essere solo i destinatari del sorriso che si fa all’ingenuità di un bambino; salvo il fatto che questa puerilità è poi portatrice di una componente reazionaria, distrattiva e distruttiva, che mentre avanza eroicamente al grido della libertà è invece uno degli elementi che concorre esattamente a istituire il contrario della libertà perché occultatrice del luogo in cui si annida profondo il problema nelle nostre comunità profondamente alienate nell’economia, nella psicologia e nella sociologia. Tanto nella materia, insomma, quanto nello spirito.
Santa Maria Capua Celere e la Nazionale
(pubblicato su l’Espresso del 1/07/2021 e su Domani del 2/07/2021)
Il primo pensiero che ho avuto, quando ho visto le immagini che Domani ha pubblicato in esclusiva sulle violenze della Polizia nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, è andato a un altro fatto che apparentemente potrebbe sembrare non entrarci con l’accaduto; il pensiero è andato alla questione dell’inginocchiamento dei giocatori della Nazionale che esprimesse solidarietà al movimento Black Live Matter. Una questione su cui la FIGC sta collezionando una pessima figura dietro l’altra con le sue ‘indicazioni’ per cui prima si sarebbe potuto inginocchiare chi dei calciatori avesse voluto; poi ci si sarebbe inginocchiati se la squadra avversaria si fosse in ginocchiata; e, non per dare un segno contro il razzismo (e “ogni discriminazione” ha avuto ben a dire Lukaku) ma per rispetto alla squadra avversaria! Purtroppo il filo rosso, o meglio nero, che parte da Santa Maria Capua Vetere, passa per l’Olimpico di Roma e va fino a Wembley, è il filo di una matassa che ha un suo telaio in dei tessitori non casuali: Salvini e la Meloni da anni inoculano nell’opinione pubblica italiana il virus del discredito di ogni forma dello stato di diritto. In questo caso dell’Habeas Corpus, quando Salvini, rispetto alle violenze del carcere campano, dice che andrà in questo luogo per portare la sua solidarietà alle Forze dell’Ordine del penitenziario. Ma quale ordine? Quello per cui ahimè sentiremo molti dire che “fanno bene a menare la gente in carcere”; senza pensare che la gente che menano è quella povera; che i ricchi in carcere, magari per aver sottratto allo Stato milioni di euro, non ci vanno; e, quando per sbaglio gli capiti di passarci, non finiscono certo sotto i manganelli di agenti indisciplinati ma di poliziotti penitenziari che magari li debbano pure servire in celle che tutelino il loro stile di vita … che sennò poi gli viene la depressione! Eccolo il cosiddetto centrodestra italiano: garantista con i ricchi e repressivo con i disgraziati.
La libertà che tutte le altre distrugge e rende vane
(pubblicato su Domani del 1/07/2021)
Pare che lo scisma fra Grillo e Conte si sia definitivamente consumato; e, in effetti, c’era da aspettarselo. Grillo non ha cultura istituzionale mentre Conte ne ha maturata molta durante la sua esperienza di governo; direi più in generale che Grillo non ha proprio una cultura mentre Conte può vantare gli studi che si dovrebbero addire a qualsiasi uomo o donna alla guida della res publica. Ora, per Conte, che era faticoso vedere alla guida di un movimento populista, peraltro ora nemmeno più popolare, sarebbe il caso di mostrare quel cuore che, in origine, egli stesso disse battergli a sinistra. Il PD non è più un partito di sinistra, non lo è la sua classe dirigente e non lo è più soprattutto la sua comunità (se ce ne n’è una) di elettori. Motivo, quest’ultimo, per cui ho deciso di non seguirlo più già da un po’ di tempo. A sinistra ci sono rimaste però le questioni più urgenti per l’Italia. La questione dei diritti sociali innanzitutto: non è difficile vedere come nel mondo in cui viviamo la ricchezza si stia sempre di più concentrando nel grande capitale mentre la condizione dei lavoratori si fa sempre più complicata sia in ordine a salari e stipendi che alle forme di contratto. In una tribuna politica di un po’ di tempo fa, Enrico Berlinguer si auspicava una repubblica democratica che garantisse tutte le libertà tranne una: «quella di sfruttare il lavoro di un altro essere umano, perché questa libertà tutte le altre cancella e rende vane». Ecco: il mondo, e l’Italia in esso, sta andando in questa direzione e allora è bene che gli uomini e le donne di sinistra si ritrovino pure per ricominciare daccapo. Conte, se il suo cuore veramente batte a sinistra, parli con Bersani; ai due si aggiunga il Presidente della Camera Fico. E di lì si ricominci con la costituzione di un partito unito che possa rappresentare il mondo del lavoro; il mondo di quel pubblico di cui la pandemia ha messo ben in evidenza l’esigenza (anche per quei privati che se ne ricordano solo quando c’è da prendere). C’è bisogno di costituire una via di uscita a sinistra dal trionfo e dalla crisi stessa del neoliberismo; altrimenti, come è accaduto con il fascismo, il grande capitale troverà facilmente il modo di servirsi dei populismi contemporanei e proprio attraverso di essi imporrà il suo sfruttamento sugli uomini e le donne nel segno di una libertà «che tutte le altre distrugge e rende vane».
Democrazia e scuola in analisi
(27/06/2021 e pubblicato su l’Espresso del 4/07/2021))
Capita, nella pulsazione storica della scuola, di fare i conti con quanto i grandi maestri della filosofia abbiamo inciso sulla società. E, a proposito di questi grandi maestri, si potrebbe oggi aggiornare il punto sui cosiddetti «maestri del sospetto»: Marx, Nietzsche e Freud. Più che maestri del sospetto, forse soprattutto per i cattivi discepoli che hanno avuto, sembrano essere stati maestri di grandi problemi. L’influenza del pensiero di Nietzsche e di Marx sui sistemi totalitari del Novecento è nota e discussa. Sennonché più interessante è vedere oggi la ricaduta del pensiero di Freud nei sistemi democratici. Che nell’osservatorio sociale della scuola si può ben vedere quanto sia pernicioso un diffuso psicologismo pseudo-democratico. Dove non arriva il diritto, con famiglie in punta di sciabola e avvocati in difesa della negligenza scolastica di figli e di genitori stessi, molti insegnanti hanno interiorizzato loro il fioretto di un confessionale pietismo dei falsi amori crocerossini dell’adolescenza. Pure di fronte al più sfrontato degli studenti negligenti, lì dove non arrivino gli avvocati, in una sorta di autoflagellazione di classe, primo fattore nel discredito del ruolo sociale del docente, arriva puntuale un giustificazionismo psicologico d’accatto fatto di mille pseudo-accortezze e improvvisazioni diagnostiche che, andando oltre il naturale buon senso di una sacrosanta comprensione della storia e dell’emotività dello studente, sta allevando generazioni sempre più fragili e incapaci di sostenere le dure sfide a cui una società sempre più cruda li esporrà senza troppi sconti. Che, nella sfera del lavoro, innanzitutto proprio agli insegnanti, nessuna psicologia è concessa. Per non parlare della fisiologia: che forse dovremmo contare quante diottrie siano rimaste sul campo di questo lungo periodo di ‘smart’ schooling; diottrie tanto dell’occhio biologico per tutti quanto di quello logico di chi non riesce a vedere quanto sia vacuo e mercantile questo disumano modo di ‘ripensare’ la scuola.
Il mondo … famolo strano!
(pubblicato su Domani del 15/06/2021)
Non so per quale tiro mancino dell’algoritmo di Google, mi sono ritrovato di fronte a un servizio che mostrava la casa di una Claudia Gerini; una lussuosa villa a Roma, sulla via Cassia, che si affaccia sul Parco di Veio. E mi sono chiesto: ma questa signora, così come tutte le altre attrici e gli altri attori, da Roma a Hollywood, quali meriti vanta di fronte a un professore per occupare un posto nella società che, sia economicamente che socialmente, sopravanza appunto un docente in maniera così sproporzionata se non incommensurabile?. Si badi bene, io sto bene economicamente (quantunque già meno dei miei genitori che facevano anche loro gli insegnanti); in fondo non mi manca nulla (sebbene comincino in realtà ad essere minori le possibilità di viaggiare rispetto a trent’anni fa e a venire meno la ricaduta didattica dei viaggi che può fare un docente). Ma quando giustamente ci si meraviglia e indigna di fronte allo stipendio di un calciatore mi chiedo ancora: quale merito ha, di fronte alla società, un attore, un’attrice e qualsiasi esponente del mondo dello spettacolo (anche musicale comincio a pensare) di fronte a un professore? Di fronte al futuro dei giovani? Quali studi e in veste di quale curriculum di formazione lo sopravanza? Perché gli intellettuali radical chic che affettano nausea di fronte al guadagno di un calciatore poi si lasciano avviluppare dalle moine di questi personaggi che, ahinoi, loro sì fanno cultura, quando sfilano sui red carpet che celebrano la vanità e la vacuità. Perché poi, lasciando perdere le case e gli averi, quale consistenza effettiva ha la parola, il logos generale, di un attore o di un’attrice rispetto a quella di un docente? Eppure è dalle loro interviste e dalle loro parole, dal loro mondo, che si fa la cultura in questo mondo. Un mondo che, a guardare dagli effetti di oggi, il buon Dio, all’atto della creazione, deve essersi divertito a concepirlo in questi termini … famolo strano!
La liberazione di Brusca e l’agenda in rosso della Repubblica
(pubblicato su l’Espresso del 02/06/ 2021)
Il caso vuole che abbia appena chiuso il registro elettronico per un ultimo conteggio delle ore di Educazione Civica, introdotta quest’anno come materia autonoma al liceo, e, ad apertura di giornale, veda il titolo con cui si dà la notizia che Giovanni Brusca è un uomo libero. Un pluriassassino, lui stesso ha dichiarato di aver commissionato e commesso più di centocinquanta omicidi; ha squagliato nell’acido un bambino; stragista a partire dallo sventramento di un’autostrada per uccidere Giovanni Falcone, la compagna Francesca Morvillo e tre uomini della scorta. Pentito, in ultimo, dalla confessione controversa, “assai tortuosa” (Maria Falcone).
Non c’è discorsività che tenga per esprimere tutto il dolore, lo sdegno e il senso di impotenza di fronte a una scarcerazione del genere dopo soli 25 anni di detenzione. Una scarcerazione che non è solo una scarcerazione. Il povero Dottor Caponnetto, quando uccisero Borsellino, appoggiandosi alla mano del cronista, quasi con gli occhi a chiedere che gli dicesse che non era vero, si lasciò andare alla disperazione e al grido di dolore: “E’ finito, è finito tutto”. Lo diceva certamente nel segno della giustizia e del sentimento, forse in senso profetico rispetto a quello in cui oggi va intesa questa scarcerazione di Brusca. E’ finito tutto: socialmente, politicamente, culturalmente, è finito tutto! Così ha da intendersi oggi.
Maria Falcone, nella sua profonda dignità, si è detta addolorata ma ha pure aggiunto che la legge va rispettata. Ora io non so in virtù di quale condotta carceraria un criminale del genere abbia potuto riacquistare la libertà. So però come i Romani dicessero nella lingua del diritto: “Summum ius, summa iniuria”. Una locuzione da tenere presente anche quando, senza storicizzare, si dice, con Piero Grasso, che la legge sui collaboratori di giustizia fu voluta proprio da Giovanni Falcone. Un’obiezione rispetto a cui sarebbe bene tenere presente una pagina di Werner Jaeger (Paideia, 2, p. 231) sul Gorgia di Platone lì dove lo studioso tedesco parla del confronto di Socrate con i retori Gorgia e Polo e sottolinea come il paradigma socratico non regga più di fronte al terzo retore del dialogo, Callicle, e lo stesso discepolo di Socrate sia costretto a andare oltre il grande maestro lì dove la forza del maestro “consiste nella solidità, nell’immunità da contraddizioni, del suo atteggiamento interiore […] ma quello che, dal punto di vista logico è il suo vantaggio, è anche, secondo Callicle, la sua rovina se il suo pensiero, di tanta apparente consequenzialità, si commisura all’esperienza reale”. L’esperienza reale che non è più, dopo e con la morte di Socrate, quella in cui si muoveva Socrate, come non è più oggi, proprio dopo e con la morte di Falcone e Borsellino, quella in cui si muovevano Falcone e Borsellino.
Con la loro perdita e, oggi, con la scarcerazione di Brusca tutto è perduto. Mi si dica cosa dovremmo festeggiare in questo venturo 2 Giugno! Con quale stato d’animo. L’unico che mi viene in mente e mi arriva dritto al cuore è quello di Rita Atria. Forse pochi la ricorderanno quella ragazza. Quella ragazza che, dopo aver creduto nello Stato individuandone il volto e la carezza in Paolo Borsellino, a una settimana esatta dalla strage di Via D’Amelio si gettò dal settimo piano di una palazzina di Roma in viale Amelia.
Il 3 giugno ritorneremo a scuola per chiudere questo durissimo anno scolastico e ritorneremo a credere e a lottare comunque. A insegnare quella vera educazione civica che sono l’italiano e la matematica, la fisica e la storia, la filosofia e l’arte, la musica e la ginnastica, l’inglese, il francese, il tedesco e lo spagnolo, il latino e il greco. Ma lasciate e lasciate dire a chi crede ancora veramente nella Repubblica che, dopo la liberazione di Brusca, in questo 2 Giugno venturo la bandiera della Repubblica, “il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni” … è e non può non essere che listato a lutto.
(pubblicato su Domani del 20/05/2021)
Mentre Draghi governa a reti unificate, Enrico Letta ha provato a uscire dall’angolo della subalternità, in cui rispetto ai poteri (dei) forti la sinistra versa ormai agonizzante da anni, dicendo appunto qualcosa di sinistra. Il segretario del PD ha invocato una tassa sui patrimoni che superano i cinque milioni di euro per sostenere le vere vittime, oltre a quelle colpite nella carne e nelle ossa, della pandemia, i giovani. Il che poi significa sostenere i giovani e le loro famiglie.
Sennonché il Presidente del Consiglio ha subito rimesso in riga Letta apostrofandone l’uscita con la risposta per cui questo non sarebbe il momento di prendere dai cittadini ma il momento di dare. Un’umiliazione di Draghi, quella a Letta, come è stato subito detto; ma, ancora più che a Letta, quella di Draghi è stata un’umiliazione all’intelligenza di ogni persona che abbia un minimo di buon senso per capire che risolvere “i cittadini” in una massa indistinta di persone non è corretto. E’ una mistificazione demagogica della realtà. Ci sono infatti i cittadini ricchi, agiati, e quelli meno agiati, sulla soglia magari proprio della povertà.
Cosa significa allora la frase di Draghi? Semplicemente il fatto che non è il momento di prendere dai cittadini ricchi per dare ai cittadini poveri. Ma, se non ora, quando? Quando, se non in questi tempi in cui chi è ricco e addirittura straricco sta accrescendo i suoi dividendi e chi è meno agiato, povero, addirittura strapovero sta accrescendo i suoi affanni? In particolare nel mondo giovanile intorno a cui ruotano intere famiglie preoccupate per se stesse e per il futuro dei propri ragazzi.
Sono passati solo pochi giorni da quando si sono riuniti i cosiddetti Stati generali della natalità in cui Draghi ha parlato dell’impegno prioritario del governo verso le famiglie e l’incremento della natalità in un’Italia che ha l’età media più alta d’Europa. Bene, al di la delle parole gesuitiche della carità, quale misura concreta il Presidente del Consiglio, pensa di adottare materialmente per ridare ai meno abbienti e allo stesso ceto medio una condizione in cui si possa pensare al futuro nel segno della procreazione?
Inutile fare prediche, le nozze e anche i figli non si fanno con i fichi secchi; e i figli, la famiglia e la scuola non si fanno per l’industria ma casomai è l’industria che si fa per i figli, la famiglia e la scuola. L’unica strada effettuale è perciò quella della giustizia sociale che passa attraverso una redistribuzione della ricchezza pubblica. Proprio ora, che i ricchi trovano sempre più occasione di diventare più ricchi e i poveri, verso il cui stato il ceto medio si sta sgretolando come l’iceberg che si è staccato dal Polo Nord ha fatto in questi giorni per andare verso la deriva dello stato liquido.
Natura e società vivono, fra le prediche a reti unificate del chierico-capitalista di turno, lo stesso dramma. E se è un fatto che il sistema economico in cui viviamo sta devastando la natura, allo stesso modo, è un fatto che tale sistema economico stia devastando la stessa società in ogni sua cellula organizzativa: dalla famiglia alla scuola. E’ il tempo che alle politiche e alla cultura della transizione ambientale si affianchino le politiche e la cultura della transizione sociale. Ma al di là delle parole, sia per la transizione ambientale che per quella sociale, servirebbero i fatti e invece i bei discorsi e i neologismi buttati nel calderone perché l’informazione mastichi e il popolo sputi non fanno che stendere ghirlande di fiori sulle catene di chi non ha altro pensiero intimo di perpetrare lo sfruttamento dell’uomo sulla natura e quello dell’uomo sull’altro uomo.
Il segretario cineasta, l’attore vate e la caduta di Atene
(15/05/2021)
Chi mi conosce bene sa come mi sia fatto la convinzione che il cinema sia stato il cavallo di Troia degli Stati Uniti nella roccaforte della sinistra italiana.
Proprio sul concetto di egemonia Gramsci aveva costruito il progetto della sfida al capitalismo in generale e la strategia della contesa del potere politico in Italia. Bisognava costruire e soprattutto diffondere le idee socialiste attraverso un determinato esercizio della riflessione concettuale. In questo, del resto, Gramsci era un intellettuale classico che certo avrà letto il passo dove Platone scrive che non c’è nessuna virtù, fra cui eminentemente la giustizia, lì dove gli uomini non si elevino ad essa in maniera riflessa (Fedone 69b).
Probabilmente gli Americani, che Marx, il nemico, lo hanno studiato e capito più di tutti, hanno riservato la stessa cura a Gramsci. Come rispondere alla sfida dell’uomo di Ales? Come rispondere ad un Partito Comunista Italiano che durante la guerra e fino al 1964 era guidato da un uomo chiamato ‘Il Migliore’ proprio in virtù della sua eccellenza negli studi nata nella ferrea credenza dell’assioma istruzione-emancipazione che arrivava fino all’ultimo contadino della remota provincia siciliana di fronte alle coste africane. Come rispondere alla sfida di un popolo di uomini e donne con il credo che la cultura dei libri europei fosse l’arma per emanciparsi materialmente?
Con un altra cultura rispetto a quella dei libri europei!
La cultura delle immagini! Che erode lentamente la capacità di astrazione intellettiva e la stessa immaginazione (altro che “nel pensier mi fingo”!). Non è forse un caso che il più noto mito della filosofia di Platone, il mito della caverna, indichi nella conoscenza per immagini (le ombre proiettate sul fondo buio della spelonca) il grado più basso della conoscenza umana; inferiore alla stessa conoscenza sensibile per non dire del rapporto con la vera conoscenza: quella geometrico-matematica fino poi a quella filosofica grazie a cui gli uomini inverano nell’ideazione la loro essenza di esseri razionali. E soprattutto di esseri liberi perché razionali.
Sappiamo quale sia stata la storia della sinistra italiana quando i suoi leader hanno smesso di dedicarsi alla lettura: l’epilogo non casuale della dissoluzione è stata la fondazione del PD con un segretario padre costituente cineasta. Respinto (al mittente) al primo anno del liceo classico, in quarta ginnasio, e riparato subito fra i lidi dell’Istituto professionale Cine-Tv Rossellini. Questa la sua formazione in quegli anni in cui non si costruisce solo un sapere, ma, attraverso un sapere, la persona stessa. Il sé di un futuro uomo e una futura donna. Per sempre.
Quel futuro uomo, ad esempio, che ben è esemplificato dall’idolo del momento. Quello verso cui convergono tutti gli sforzi ‘culturali’ (dei produttori e dei fruitori) della malata società contemporanea. Parlo di Pierfrancesco Savino. Che, ad uno di questi festival del cinema, dentro cui si concretizza tutta la vanità e soprattutto la vacuità contemporanea, ha avuto da dire che oggi a scuola si dovrebbe insegnare il cinema. Che lo ha detto, guardate il filmato, con quella veemenza della tracotanza di chi, essendo poco o nulla, è giunto al centro della scena sociale e nei panni dell”attore è stato investito anche della funzione del vate.
Dal poeta vate di dannunziana memoria siamo giunti alla figura dell’attore vate. Ci dice lui, circondato dal suo stuolo di adoranti ammiratori ripagati nelle loro velleità culturali, dove deve andare l’istruzione e, meglio, la società attraverso l’istruzione. Per carità oggi nella scuola italiana c’è posto per tutti! C’è posto per tutto! Ma tutti e tutto proprio!
L’importante è aggirare l’ultimo scoglio che è rimasto: la matematica! Non parlo della letteratura, della storia, della filosofia che, nelle mani di magnifici docenti e progressivi, vengono ‘insegnate’ proprio nella lingua del cinema. Che vuoi insegnare con un libro? Per carità? Cioè puoi anche farlo, salvo il fatto che oggi, a sfogliare i libri delle cosiddette materie umanistiche, sembra di entrare esattamente in una sala cinematografica. Immagini su immagini su immagini. Del resto, come parlare al popolo dei 140 caratteri di Twitter? Osare due pagine di seguito senza un fuoco d’artificio del colore è esporre i ragazzi a una tortura cerebrale.
Sennonché sulla matematica poco si può barare in questo senso. Espressioni, equazioni, logaritmi e via dicendo non si possono contraffare. E le difficoltà con queste materie dei ragazzi non dipendono, come si dice, da una scarsa cultura scientifica dovuta all’egemonia degli studi umanistici. Tutto il contrario! Quando ancora la scuola italiana era permeata di vero umanesimo, da essa uscivano i migliori matematici e fisici del mondo. Che la matematica è un sapere umanistico, se per umanesimo si intende ciò che per esso va inteso: lo sviluppo della quintessenza razionale dell’uomo.
Hollywood ci ha asfaltati! Il cavallo di Troia ha compiuto la sua missione; salvo il fatto che da esso non è sceso Ulisse ma Favino. Ovvero: il cavallo di Troia ci ha asfaltato perché da esso è sceso Favino. Per carità, qui non è Favino in quanto il buon Pierfrancesco; ma Favino in quanto colatura d’asfalto, come tante altre, su una delle strade secondarie che vengono da Hollywood. Questa Penisola di cui Cicerone pensava che le Alpi costituissero un “invalicabilis finis”; come Temistocle, ad Atene, pensava al “muro di legno” costituite dalla flotta della città attica. Pure essa caduta oggi, nella sua Acropoli, sotto una colata di cemento. Non figurale! Asfalto vero e proprio!
Immagine di oggi è la ‘pista’ di asfalto costruita tutta intorno al Partenone. Che pure esso ha da essere in galleria! Bisogna che la pletora di gente che va e paga il biglietto gli scorra velocemente intorno. Un selfie, tanto per rimanere sul tema dell’immagine, e se ne torni a casa col suo bottino da mostrare al mondo che tutto un cinema è diventato.
Per carità, guai a sedersi su una pietra della rocca, respirare l’odore dell’erba e del terriccio con la sua polvere, nella più magica delle sinestesie, e contemplare; chinare magari il capo per riflettere assorti su se stessi. Chinare il capo ormai, nella più tragica delle anestesie, lo abbiamo fatto già in un altro modo … quello della metamorfosi del nostro occhio logico, la mente, in un occhio biologico che non sa più guardare anche esso se non attraverso uno schermo.
Perché Draghi non Ciampi e l’Europa è un’espressione economica
(10 aprile 2021)
Spesso si istituisce un paragone della figura di Draghi con quella del Presidente Ciampi. Innanzitutto perché Draghi fu uno dei cosiddetti “Ciampi Boys” e soprattutto perché pare che la Presidenza della Repubblica sia ormai l’epilogo politico predestinato dell’attuale Presidente del Consiglio. Sennonché non c’è niente di più diverso tra la figura di Draghi e quella di Ciampi. L’uno economista prestato alla politica; l’altro politico in forza all’economia.
Parlare di un Ciampi politico può lasciare anche perplessi. Ma non è così se ci si riferisce alla politica nel senso alto e smarrito del termine. Quel senso che acquista il suo senso quando si guarda alla formazione dell’uomo. Alla paideia.
Ciampi, non va dimenticato, si laureò innanzitutto in lettere alla Normale di Pisa. Dopo aver sostenuto l’esame di ammissione ed essere stato esaminato da Giovanni Gentile si laureò in Letteratura Greca. E durante il corso di studi fu affascinato seguace delle lezioni di Guido Calogero, il più grande studioso di filosofia antica che l’Italia abbia avuto. A lui si deve proprio l’istituzione della cattedra di Storia della filosofia antica all’Università de La Sapienza. Istituzione che fu inaugurata con una lectio magistralis sulla figura e il pensiero di Socrate. A cui va aggiunto un elemento fondamentale: Calogero non fu studioso rinchiuso nella sua torre d’avorio; o ancora meglio d’oro e d’avorio come i componenti che costituivano la statua crisoelefantina di Atena scolpita da Fidia e chiusa nella cella del Partenone. La cella a cui Calogero casomai espose il rischio della sua esistenza fu quella fascista; che tra studio filosofico e impegno politico non c’era in lui soluzione di continuità. Casomai, con una parola che ci ha insegnato a tutti, c’era una piena coalescenza. E Ciampi fu discepolo di Calogero anche in questo. Intrepido quando il suo maestro, durante la Resistenza, gli affidò il compito di portare delle notizie di comunicazione partigiana che Ciampi per ottemperare alla missione nascose con un bigliettino dentro il suo calzino. Si badi bene: e Calogero e Ciampi non furono dei pericolosi comunisti! Militarono entrambi nelle Brigate partigiane di Giustizia e Libertà, la formazione liberalsocialista che era nata in Piemonte sulla scorta delle idee di Gobetti e l’azione originaria dei fratelli Rosselli. Calogero fu, nel dopoguerra, anche il principale teorico del liberalsocialismo. Orizzonte politico che pure fu quello del Presidente Ciampi. Ciampi insegnò anche latino e greco al Liceo.
Questo una volta facevano i professori del liceo: studiavano e pensavano. Erano degli intellettuali. Lì dove la scuola di Draghi li sta relegando sempre di più a degli impiegati più assimilabili a degli amministrativi che a degli uomini e donne della lettura, della cultura e della coltura dei giovani.
Poi, con un percorso comune a molti uomini della sua generazione, Ciampi prese una seconda laurea in giurisprudenza. I cui studi non confinavano tanto con l’economia, come succede oggi, ma con la politica. In questo senso un altro interlocutore del futuro Presidente della Repubblica fu Norberto Bobbio.
Questa insomma la quadruplice radice del principio della formazione ciampiana. Quella di un umanesimo integrale che, avendo acquisito il software della paideia, poteva operare in tutte le direzioni dell’applicazione pratica.
Ciampi a questo punto fu economista. In questo spirito fu economista. Dunque non un economista prestato alla politica ma un politico, nel senso più alto e più fertilmente platonico del termine, che poteva occuparsi di economia come di qualsiasi altro genere di occupazione umana. Perché in possesso del software della paideia. Oggi siamo esattamente sul fronte opposto. Quello della paideia del software! Bisogna imparare a far di conto e a programmare. Per poi scaricare tutto in griglie, algoritmi e profilazioni che quanto più sono eccellenti tanto più smarriscono il dato reale di partenza, il mondo della vita, il lebenswelt. Ciampi non l’avrebbe considerata, quest’ultima, una parolaccia: durante i suoi suoi studi universitari passò un lungo periodo all’Università di Lipsia. E scrive perentoriamente e direttamente il Presidente in memoria di Calogero su la Repubblica del 21 maggio 2001:«Senza quell’insegnamento giovanile, la mia vita, la mia lunga attività nelle istituzioni fino ad oggi, sarebbero state diverse. Per me è stato un maestro e un amico. Il maestro è per me colui che va al di là della disciplina specifica, che è capace di affrontare i problemi infondendo una visione della vita basata sui valori morali, che sa andare al di là della professionalità dell’insegnamento»
Il far di conto, la programmazione e rinchiudere tutto nella cella del codice a (s)barre è diventato il profilo dell’istruzione oggi. Bill Gates disse una volta da Fazio: “A che cosa servono i filosofi?” A niente gli avrebbe risposto Ciampi, e per converso a tutti. I filosofi non servono o meglio, a identificarli con la formazione di Ciampi e a vederli bene negli uomini e nelle donne delle humanae litterae, servono lo Stato. Si costituiscono come il Civil Servant che dovrebbe costituire, con un termine più moderno, il profilo di Draghi. Che però non lo può essere al di là dei suoi demeriti personali. Perché? Beh, semplicemente perché se si danno uomini formati alla scuola dell’universale, la politica, che prestano la loro opera al particolare, l’economia, per converso la crisi di questa società globale ci dice che non vale il contrario: che possano darsi uomini che formati al particolare, l’economia, possano efficacemente prestare la loro opera all’universale, la politica. Non lo dice il sottoscritto: con questa convinzione Napoleone istituì gli studi liceali in Francia nell’epoca moderna; quattro anni di studi di greco di fianco ai sei anni di studio del latino. Questa fu l’Europa di Napoleone; oggi abbiamo l’Europa di Michel. Voilà la difference! Che poi è una differenza di teologie: confessionale ed economica quella di Erdogan, economica quella di Michel ma totalmente destrutturata dalla sua confessione del latino e del greco. Ed è su questo che la Von der Leyden, cioè l’Europa, è stata messa all’angolo. E’ all’angolo!
Me ne frego … autobiografia di una nazione
(15/03/2021)
Me ne frego! … era questo il motto che girava fra gli Arditi che poi confluirono nei Fasci di combattimento e in ultimo nel Partito Nazionale Fascista che dagli anni Venti portò l’Italia alla catastrofe politica e morale. Una catastrofe morale che Benedetto Croce interpretava appunto come una “parentesi “di crisi morale del popolo italiano. Una parentesi che, a giudicarla tale, durò comunque più di venti anni e trascinò l’Italia nel baratro. Ma fu veramente una parentesi? Negli stessi anni di Croce, Piero Gobetti indicò nel fascismo e nel suo ‘me ne frego’ – me ne frego degli altri, me ne frego del Parlamento, me ne frego delle regole, me ne frego se picchio a sangue un contadino italiano e quello muore; me ne frego di tutto – “l’autobiografia di una nazione”. Ieri siamo andati con degli amici al cimitero e ci siamo fermati al famedio del PCI ovvero il luogo dove sono sepolti tutti i più importanti dirigenti di quel partito; Togliatti e la Iotti, Di Vittorio, Lama e Trentin. Emilio Sereni e Alicata … fino a Emanuele Macaluso. Ci siamo quindi mossi sempre insieme e siamo passati da mio padre che da bambino mi portava ai comizi di quei grandi e dove un popolo si riuniva senza soluzione di continuità; stavamo quindi completando il giro per andare al memoriale degli Ebrei romani deportati ad Auschwitz durante il fascismo e sulla strada abbiamo incontrato un gruppo di persone che venivano nella direzione opposta; da lontano sembrava una comitiva in visita ma mano mano che si avvicinavano i contorni si facevano più distinti; erano una trentina di persone tutte insieme senza mascherina; noi, eravamo in sei, tutti con la mascherina. Ci siamo guardati … noi con aria sorpresa loro e loro con una risatina noi. Poi due incisi della parola: ” ah ah guarda questi con la mascherina all’aperto! ah ah” … e altri due che parlavano per affari loro … “si non te ricordi quello … dai stava con noi al Fronte della Gioventù”. E ti pareva! … la mascherina … me ne frego! vabbe’ trenta balordi. Come era scritto su un palazzo, diroccato dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, che ricordo da quando ero bambino a San Lorenzo dove ho fatto le elementari … “EREDITA’ DEL FASCISMO”. Trenta balordi … alla fine, eredità del fascismo. Così via, diritti al Memoriale degli Ebrei. Tutti i nomi di italiani rastrellati dai fascisti a Roma e spediti ad Auschwitz dal Binario 1 della stazione Tiburtina … al centro del Memoriale un’urna con la scritta ‘ceneri degli ebrei provenienti dai lager nazisti’. Siamo rimasti lì un po’ attoniti e, pur non essendo ebrei, un po’ come si sta in famiglia. Con le bambine che giocavano e scrivevano dei bigliettini da lasciare con i sassi – come vuole la tradizione – sotto il Memoriale. Poi la comitiva si è sciolta e noi ci siamo rimessi in macchina verso casa. Erano le 13.30. Abbiamo attraversato Roma per 9 km e fra lo stupore … ristoranti pieni di gente assembrata con un controllo del territorio inesistente; di fronte al McDonald di Piazza Regina Margherita uno stuolo di giovanni senza mascherina e truci nelle fattezze. Ma si … “me ne frego!”… un me ne frego che dal cimitero si faceva sempre più autobiografia di una nazione mano mano che procedevamo al ritorno a casa assembramento per assembramento. E nessuno a vigilare sul territorio pieno di assembramenti … così alla mente le parole di Mussolini prima della Marcia su Roma: “se in Italia ci fosse uno Stato degno di questo nome oggi stesso dovrebbe mandare i suoi agenti e carabinieri a scioglierci […] soltanto che in Italia lo Stato non c’è” … e in fondo quella saetta di Gobetti (non un comunista ma un liberale, morto in conseguenza delle violenze delle camice nere) “il fascismo come autobiografia di una nazione” a rimbombare nella mia testa e soprattutto a ricadere sul mio cuore pensando al futuro di mia figlia. Con l’amara consapevolezza che una parentesi in Italia, la “parentesi” di Croce, non è stato il fascismo ma quegli anni della Resistenza e poi della Costituzione … comunista, socialista, cattolica e liberale … una parentesi di virtù morale … poi già da un po’ è rivenuta fuori la nazione con la sua autobiografia prepotente … me ne frego! E ora gente in terapia intensiva, medici e infermieri distrutti, 100.000 morti … me ne frego! Magari un giorno a quei morti fra i medici, infermieri e gente ligia alle indicazioni gli faranno un Memoriale e intanto però per le strade … me ne frego!
La risposta dei filosofi alla domanda di Draghi
(pubblicato su Domani del 14/03/2021)
Nella sua visita al centro per le vaccinazioni di Fiumicino, il Presidente Draghi ha fatto un inciso interlocutorio chiedendo: «Chissà perché dobbiamo usare tutte queste parole inglesi»; si riferiva Draghi, nella circostanza, al baby sitting e allo smart working. Chissà perché? E’ una domanda a cui rispondono le parole del filosofo Ludwig Wittgenstein che scrive: «I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo». La risposta che dunque la filosofia può dare all’economista Draghi è che usiamo tutti questi termini inglesi perché l’inglese è la lingua dell’economia e il nostro mondo è diventato essenzialmente il mondo dell’economia. Il mondo in cui la logica e il linguaggio dell’economia permeano tutti gli ambiti del reale affinché esso si esplichi e su di essi si realizzi l’intesa sulla cosa. Si fa presto a dire come per esempio il latino sia la lingua del diritto e così, oggi, anche chi non lo ha mai studiato parla ordinariamente di ius soli come parla ordinariamente di smart working. C’è dunque una spiegazione nell’utilizzo pervasivo dell’inglese; la pervasività dell’economico in ogni ambito del reale. Cosa che non è solo un fatto linguistico appunto ma un fatto in cui si oggettiva la stessa realtà delle cose: che nella scuola, ad esempio, pure si costituisca sempre di più tutto un gergo inglese non è solo il segno di una cultura anglofona che va erodendo quella continentale e segnatamente italiana. O meglio: è il segno di una cultura anglofona che si va sostituendo a quella continentale e italiana perché quella cultura è la cultura in cui si realizza la stessa vita quotidiana; ovvero di una quotidianità sempre e più solo economica. Un altro filosofo come Martin Heidegger ha scritto che «la parola procura l’essere alla cosa». Ecco: viviamo in un mondo in cui qualsiasi cosa si procura l’essere e la verità pubblica e riconosciuta solo se essa acquista la parola dell’economia ovvero la parola di quel tipo di utile che a sua volta si riduce al linguaggio del denaro. Che l’utile, cosa che abbiamo disimparato, non è solo quello che si realizza nella sfera del denaro. Molte cose vi sono di utilità all’uomo; sennonché la mentalità corrente e quella che pure si va affermando nella scuola è che tutto deve essere ridotto all’utilità del denaro. Ma a quale costo chiederebbe stavolta il filosofo all’economista? La risposta la conosciamo: “Whatever it takes!”
Il capitalismo contro la proprietà privata
(pubblicato su l’Espresso del 12/03/2021)
Oggi sono passato da alcuni amici che sono dei medi esercenti, come ascolto le storie familiari dei miei studenti che hanno anche loro esercizi commerciali medi in un quartiere bene di Roma; e ho visto lo sconforto rispetto all’idrovora della grande produzione e della grande distribuzione monopolistica in settori che sembrano i più lontani dalle potenzialità di quella idrovora. Non si tratta solo di operai; si tratta di persone che, piccoli e medi imprenditori, sono destinati a diventare operai. Li ho visti, questi amici, fra le loro macchine del retrobottega, fra i loro mezzi di produzione. Che probabilmente fra un po’ non saranno più i loro. Con il che mi si vado convincendo sempre più che oggi il vero nemico della proprietà privata è proprio il capitalismo nella concentrazione ipertrofica della ricchezza a fronte della sempre più diffusa situazione di disagio economico anche lì dove ieri c’erano i ceti medi. Il che non è solo una questione di economia. Intorno a questi esercizi di quartiere, rimangono accese le luci della città, la loro effettiva sicurezza, e soprattutto si istituiscono relazioni umane. Cosa ci capiterà domani? Tutti in casa a ricevere con un un click senza avere più delle città vive? Tutti magari in smart working? Questo è l’oltreuomo, cioè quanto si prepara dopo l’uomo, nei fatti! Non fantomatiche rappresentazioni nietzscheane. Ma veramente è questo che vogliamo? Io no e, credo, molti non lo vogliano. E se da una parte ho chiare le fattezze dell’uomo per come lo ha scolpito la paideia greca e pure il messaggio cristiano originario per andare poi alle pagine dell’illuminismo moderno, mi chiedo sempre di più quali siano le condizioni materiali che permettano quella scultura. E non riesco a vederle che nella giustizia sociale da rileggere e studiare pure criticamente fra molte pagine marxiane; lontane da ogni Tesi di aprile e invece più precisamente nella traduzione italiana della ragion pura e soprattutto della ragione pratica.
Il PD rimetta la S
(pubblicato su Domani del 8/03/2021)
Con le dimissioni di Zingaretti, in una forma che ne esplica tutta la sostanza, il re è nudo veramente e per il Pd l’unica via da percorrere è quella di rimettere la ‘S’ … PDS! La strada intrapresa da Veltroni e percorsa dal gruppo dirigente del partito è stata la vera condanna allo «stillicidio» del socialismo democratico italiano, raggiunto con tanta fatica dal PCI, e dello stesso cattolicesimo democratico italiano. Il Pd ovvero, a dirla con la filosofia, «la notte in cui le vacche sono nere»; in cui ogni identità razionale e sentimentale è sparita e la filosofia politica si è consegnata all’esito fatale della filocrazia. Le chiacchiere sono a zero: la sinistra italiana ha bisogno di riorganizzarsi intorno a quei valori chiari e distinti che ne costituiscono l’essenza e ne autenticano l’esistenza: quelli della giustizia sociale e della libertà «nelle forme e nei limiti della costituzione».
La nuova scuola e laburizzazione dell’adolescenza
(pubblicato su il Venerdì del 5/03/2021)
Caro Serra,
alla guida del Ministero dell’Istruzione, abbiamo di nuovo un cosiddetto tecnico che ha condensato il suo pensiero sulla scuola in un saggio che si intitola Nello specchio della scuola. Il titolo è esemplificativo delle idee di Bianchi sulla scuola; di quelle idee che vorrebbero la scuola a immagine e somiglianza dell’economia e per l’economia. Per il negotium lì dove la parola scholè ha il suo più aderente calco nel latino otium. Il tempo libero rispetto al lavoro. Un tempo libero che negli anni è stato acquisito come un diritto della fanciullezza; un diritto alla fanciullezza. Una fanciullezza che non è capriccio dell’irresponsabilità ma momento essenziale per la strutturazione spirituale della persona (la paideia). Fra le riforme care a Bianchi c’è quella dell’accorciamento degli studi liceali a quattro anni; bisogna che i giovani corrano verso l’economia, con l’economia e per l’economia. In una laburizzazione dell’adolescenza che non lasci il tempo per quello che chiameremo il catechismo dell’universale ovvero il percorso in cui costruire una visione del mondo. Questa c’è, preconfezionata, e la scuola deve essere il microonde in cui scongelarla il più in fretta possibile: non perdere tempo con Tacito ma tacere e correre nel più breve tempo; che il tempo è denaro: sempre più spesso per quell’oligarchia delle multinazionali che sta desertificando lei il mondo dalla proprietà privata … altro che i comunisti!
La risposta di Michele Serra
E’ un argomento che mi vede irrimediabilmente anacronistico, proprio come lei caro Cappello; rassegnamoci. Pure io pavento una scuola plasmata a misura dell’aziendalismo che sta uniformando il mondo nel segno della più rigida ideologia: mi piace la sua definizione: laburizzazione dell’adolescenza. Ma sono cose che a dirle, in questo preciso momento storico, si finisce diritto delle ‘anime belle’. Dove farei volentieri due chiacchiere con lei su Tacito, meglio ancora su Seneca.
I tecnici, politica e scuola ai tempi del Covid
(Pubblicato in forma ridotta su Domani del 19/02/2021)
Il problema di una classe politica rissosa e non all’altezza del proprio compito, che gli viene affidato dalla sovranità popolare attraverso l’esercizio del voto, purtroppo sta sempre più ricorrentemente mettendo capo al ricorso ai cosiddetti tecnici. Si invoca la competenza contro l’incompetenza. Ma competenza di cosa? Mi ricordo come il professore universitario con cui mi sono laureato, Gabriele Giannantoni, che fu deputato per tre legislature nonché vicepresidente della Commissione Cultura della Camera dal 1972 al 1978, a lezione spesso ci ripeteva come a mettere i dieci migliori tecnici di un argomento intorno a un tavolo non si usciva con la riforma migliore ma con dieci riforme differenti.
E’ un pensiero che mi viene in mente dopo aver letto quanto il Corriere della Sera riporta di un libro in cui il nuovo Ministro dell’Istruzione Bianchi ha condensato del suo pensiero intorno alla riforma della scuola. Bianchi è un economista; si dice con una sensibilità particolare verso il mondo della scuola. Ma questo ne fa un competente?
In verità alla base dell’idea che dei supertecnici delle professioni possano essere dei competenti c’è un grande equivoco. Ovvero l’equivoco di scambiare il competente, nel caso in esempio dell’economia, con il competente della politica. Essere competente della politica è esattamente il contrario della tecnicalità che si va affermando oggi. La tecnicalità che si va affermando oggi è una tecnicalità del particolare, della specializzazione per cui un medico che ti opera alla mano sinistra ha una certa riluttanza a mettere il suo bisturi sulla tua mano destra, lì dove la politica è per definizione la tecnicalità dell’universale.
Cosa significa tecnicalità dell’universale? Lo specialismo dell’universalismo ovvero la capacità di vedere dentro quale orizzonte un insieme di cose differenti si tengono in un organismo. Di vedere, per essere specifici, un’idea; l’idea dentro cui, in un determinato momento geostorico, ogni parte concorre alla vita di un tutto.
Il falegname è colui che vede come un insieme di legni separati possono stare insieme nel modo di comporre una sedia; quando una sedia si sfonda tutti suoi legni sono sempre lì eppure quanto abbiamo di fronte non è più una sedia. Abbiamo una sedia sfondata, ovvero senza fondamento. Ovvero senza l’idea che teneva insieme quei legni in un determinato modo. Lo stesso è con la politica; quando una società si sfonda, esattamente come la sedia, si hanno precisamente tutte le sue parti che ci sono di fronte ma senza quell’idea che, tenendole insieme in un certo e unico determinato modo, le conferiva il suo vero essere una società.
La politica, esattamente come la falegnameria, è questo: una tecnica; ma non una tecnica del superprofessionista delle specializzazioni quanto la tecnica del superprofessionista dell’universale. Un conto fu, nell’Atene democratica del V secolo a.C. , eccellere in ogni disciplina del sapere e dell’agire, altro conto fu essere Pericle. Colui che la polis, ciò che per etimologia è molteplice, doveva ordinare secondo l’unità, un’idea.
Sennonché è qui, ritornando al nostro tempo dei supertecnici delle professioni e dello specialismo, che bisogna guardare proprio con uno sguardo politico. Lo sguardo che ci fa vedere come oggi l’idea universale che tutto tiene insieme è proprio quella del particolarismo. E così si muove la politica quando viene messa nelle mani dei tecnici. E del tecnico dei tecnici. Che però non è un politico. O meglio, è colui che per eccellenza oggi è permeato più di tutti dell’universalismo del particolarismo. Il che con una parola sola va sotto il nome di economicismo. Di un economicismo che ha una sua caratteristica storica: quella dell’ipertrofia del privatismo. Che è esattamente il contrario della res publica (la res privata è esattamente il contrario della res publica).
E stringiamo sulla scuola: il supertecnico dell’economia Bianchi, propone di ridurre il liceo a quattro anni (una blasfemia paideutica) e di potenziare gli istituti tecnici. Ovvero, con uno sguardo politico: permeare totalmente la scuola della logica dell’economia. Lontano da moralismi, un ossimoro etimo-logico! Scuola viene dal greco scholè con cui si intende proprio il tempo libero dal lavoro; il latino ci aiuterà di più: scuola, volendolo tradurre dal greco al latino, ha il suo calco esatto nella parola otium; che è esattamente il contrario del negotium. Con il che la direzione in cui si muoverà Bianchi, stando a quanto emerge dal suo libro, è facile da prevedere: metterà il piede ancora di più sull’acceleratore dell’ossimoro; della contraddizione, del corto circuito in cui l’otium entra con il negotium. Un corto circuito in cui l’uno o l’altro devono devono essere risolti in uno dei due. Senza mediazione possibile alcuna.
E’ quello che sta avvenendo da molto tempo e ora il processo continuerà fino alla laburizzazione totale e totalizzante della scuola e della stessa fanciullezza.
Una laburizzazione che seguirà le regole più generali di quanto appunto avviene nel mondo del lavoro. In cui è in corso un altro corto circuito; la contraddizione delle contraddizioni che ci sono di fronte: la distruzione della proprietà privata proprio ad opera del capitalismo. Viene da sorridere a pensare oggi come si possa pensare che siano i comunisti (quelli della res communis) a poter mettere in crisi il capitalismo. L’iperconcentrazione dei monopoli multinazionali sta radendo al suolo proprio essa la proprietà privata: al di fuori dei magnati della Silicon Valley, quanto alla proprietà privata, abbiamo dirimpetto il deserto della Death Valley in cui vediamo sempre più una pletora di individui assetati nell’acqua sempre meno potabile del salario. Navighiamo (e per questo o li amiamo o li odiamo) come i migranti del Mediterraneo: attraversiamo una grande distesa di acqua ma non ne possiamo bere quasi più nemmeno una goccia.
Mandraghi per venti giorni di scuola in più?
(pubblicato su Domani del 11/02/2021)
Mario Draghi è stato chiamato dal Presidente Mattarella per risolvere i problemi causati da una crisi sanitaria, economica e sociale senza precedenti nella storia contemporanea; Draghi è stato chiamato pure perché alla crisi sanitaria, economica e sociale, la politica ha dimostrato anche essa una crisi di sistema. Ascoltare ora che il primo provvedimento certo, quasi sulla prurigine dell’azione, del nuovo premier ancora solo incaricato è quello di allungare la scuola fino alla fine di giugno lascia un po’ interdetti: siamo certi che di fronte a quanto la pandemia ha provocato in questo ultimo anno, il primo solo e definito annuncio dovesse essere quello dell’allungamento della scuola di venti giorni? Come insegnante non sono spaventato all’idea di stare venti giorni in più in classe; cosa cambia? Il problema è dunque proprio questo: abbiamo chiamato il migliore degli italiani che c’era in giro per il mondo perché egli venisse a dirci come prima cosa che bisogna allungare la scuola di quindici giorni? Perché egli venisse a lasciare intendere che in fondo gli insegnanti e gli studenti, in questo ultimo anno, hanno giocato? Sennonché riteniamo troppo intelligente Draghi perché l’annuncio suoni ridicolo invece che sinistro: il timore è che Draghi possa avere nella testa di cogliere l’occasione della pandemia per completare il processo di uniformazione della vita, del profilo e dei ritmi della scuola a quello che è la vita, il profilo e il ritmo della produzione dentro cui già è finito il mondo del lavoro. Una scuola in stile Amazon: per i tempi, il rapporto fra gli insegnanti e i dirigenti, la finalità. Quest’ultima risolta anche essa nel profitto; non più scolastico ma aziendalistico. Il profitto dell’azienda di babysitteraggio per altri lavoratori in apnea familiare e genitoriale. Forse quella parte della società che ancora irriducibilmente pensa che i professori “c’hanno tre mesi di vacanza” potrà ancora una volta rivolgere il rancore nel sadico compiacimento che ultimo gli rimane fra le catene. E però farebbe bene a riflettere, e faremmo tutti bene a riflettere, se con Draghi non stia arrivando quella «glebalizzazione» del lavoro che tutti ci colpisce senza distinzione di professione e anzi risolvendo ogni professione in una forza lavoro la cui categoria di interpretazione non è più quella della qualità ma quella della quantità; con l’annessa dimensione della sostituibilità e il conseguente corollario del sottocosto del lavoro.
Il PD stia con Draghi ma LeU si tenga fuori
(pubblicato su Domani del 8/01/2021)
L’arrivo di Mario Draghi sulla scena della politica italiana sta ridisegnando tutta la geografia dei partiti e nei partiti. In ognuno, dopo i no che prevalevano in un sistema di veti incrociati ormai giunti a paralizzare ogni forma di esecutivo che potesse essere espresso dal Parlamento, si sta rivoluzionando la disponibilità e la stessa essenza all’insegna dei sì. Per le forze convintamente europeiste e democratiche questo era quasi scontato; era scontato che il PD accogliesse l’arrivo di Draghi con favore; il compito che adesso gli tocca è quello di saper dire i no, non il no, a Draghi lì dove l’azione del governo non tenesse bene ferma in agenda la questione della giustizia sociale. Scontati erano il sì di Forza Italia e il sissignore di Italia Viva; quasi scontato era il sì dei 5S che ormai hanno superato ogni acerbità giovanile e hanno capito il senso del momento storico che stiamo attraversando e che loro stessi attraversano al loro interno. Non suona poi per niente strano il sì della Lega: più che le citofonate di Salvini, ha prevalso la linea che, attraverso Giorgetti e Zaia, è espressione del mondo imprenditoriale del Nord. Cosicché, se non stupisce la rotazione su se stessi dei partiti dal no al sì a un esecutivo che era l’unica prospettiva con cui affrontare la crisi economica, sociale e perfino esistenziale che attraversano gli Italiani, pure non stupisce il no della Meloni; non vi si spendano parole. Quello che invece preme da ultimo dire è di LeU ovvero del partito più responsabile che c’è stato nell’ultimo frangente di questa legislatura: a mio avviso è importante che in questa nuova situazione LeU passi dal sì al no. Un no dentro cui attendere a due compiti: ricomporre una forza segnatamente socialdemocratica che vigili senza ostilità dall’esterno sul governo e lasciare a sinistra, specularmente a quanto il centrodestra fra con la Meloni, un catalizzatore di consensi qualora le cose non dovessero andare bene. Anche perché, dopo questi due anni di governo che auguriamo i migliori al Presidente Draghi, il centrodestra si ricompatterà avendo detto si e no; ed è bene che pure che il centro sinistra si ricompatti avendo detto sì e no.
Draghi e la ridisegnazione della politica italiana
(pubblicato su l’Espresso online del 4/02/2021)
Mattarella ha rotto ogni indugio. E innanzitutto ha messo fine al bullismo parlamentare del teppistello squadrista che ormai da troppi anni sabota ogni soluzione la più ragionevole che riesca ad esprimere la politica italiana: da Enrico Letta fino allo stillicidio che si è consumato in questi ultimi giorni intorno ad un governo che, con tutti i suoi limiti, ha lavorato onestamente per rispondere all’emergenza sanitaria, economica e sociale determinatasi con la pandemia.
Il teppistello squadrista pensava di farla ancora franca dopo che con il suo scippo di parlamentari al PD teneva in ostaggio il Parlamento e ogni dimensione esecutiva che in esso si potesse esprimere per rispondere alle esigenze che le circostanze sanitarie, economiche e sociali richiedono. Pensava di farla franca e di dare la trentatreesima coltellata alla politica e all’intero corpo di una nazione in cui alle apnee fisiche si sta sempre più aggiungendo un’apnea psicologica e morale senza precedenti. Cosicché appunto, Mattarella, perché il bullo mostrasse almeno l’altezza di Bruto gli ha messo sulla scena della trentatreesima coltellata il corpo di un vero Cesare. Con il che la prima cosa che si verificherà (insieme alla ridicola sceneggiata di rivendicare meriti sulla convocazione di Draghi) è che il bullo si mostrerà pure lontano dalla stilettata di Bruto e ci apparirà per quello che è: un bullo di questa terra «non più signora di province» ma lei provincia più squallida di quella scena internazionale che bel altre figure esige perché la sua esistenza sia ricondotta all’essenza della sua storia e del suo prestigio secolare.
Quella storia e quel prestigio, nell’ora più buia, hanno dunque ritrovato il verbo nelle parole sacre e ferme che il Presidente della Repubblica ha scolpito in una sintesi adamantina fra la comprensione del presente e la prospettiva per il futuro con quello che è stato un messaggio e un vero e proprio atto politico di fronte a tutti gli Italiani. Il messaggio che ogni vero italiano avrebbe voluto ascoltare e soprattutto dire per ritrovare la sua appartenenza a una nazione di cui andare fiero. La voce della nazione ha parlato senza che nessun ‘particulare’ si sia potuto arrogare il diritto di elevarsi a universale.
Ora, invece, ogni ‘particulare’ è di fronte al compito di concorrere alla composizione dell’universale e da questo si parrà la sua nobilità senza infingimenti, ipocrisie, sotterfugi e meschinità. Ogni finitezza è chiamata a mostrare il suo volto di buona o cattiva finitezza. Il suo essere o il suo non essere. Cosicché c’è da aspettarsi che all’interno di ogni forza politica avvenga pure una rielaborazione al fine di mostrare quello che essa è o non è.
Innanzitutto il PD è chiamato al gravoso quanto necessario e rigeneratore compito di ritrovare la sua ‘S’ di Sinistra per troppo tempo messa alla mercé di volubili ingenuità e disattenzioni nei confronti di quel mondo del lavoro che per troppi anni è stato mortificato e consegnato ai biechi populismi speculatori e parassiti di ogni crisi sociale, economica e perfino esistenziale. Nei confronti di Draghi, che non è Monti e in cui male si intenderebbe se si guardasse lontano dal Quantitative Easing e dalle nuove posizioni che la stessa Europa ha lentamente maturato, è comunque tenuto a vigilare sulle istanze del lavoro e della giustizia sociale more costitutione ordinata. Cosicché è pure bene che a sinistra tutti coloro che a loro volta non credono che questo compito sia più nelle corde del PD escano dal non essere della frammentazione e costituiscano un partito unitario di una seria sinistra riformista ed effettivamente socialdemocratica.
Sulla via poi del M5S vi è il compito pure di concludere quel cammino di emendazione populista e di rappresentare in maniera sacrosanta l’istanza della questione morale individuale e delle forze politiche che aspirino a sedere fra gli scranni di una rigenerata rappresentanza parlamentare.
Bisogna essere attenti in questo momento anche alla stessa Lega. Che l’occasione a liberarsi da Salvini e a rappresentare more costitutione ordinata le istanze del Nord e di una certa borghesia imprenditoriale sinceramente liberale hanno certamente in Giorgetti e Zaia due soggetti che potrebbero ricondurre questo soggetto politico fuori dal bieco populismo salviniano. Hic Rhodus, hic saltus!
A Fratelli d’Italia niente credo si possa chiedere se non di essere quello che è: una destra populista e parafascista da cui non c’è niente da aspettarsi se non il fatto che diventi il catalizzatore di ogni scoria di chi, e da un M5S e da una Lega che si emendino e ritornino alle loro origini, è populista e parafascista in maniera strutturale.
Viene in ultimo Forza Italia e un soggetto liberale di centro destra che effettivamente voglia pure essere il riferimento per il mondo liberale e insieme paraclericale (penso alla Gelmini). Qui il compito più gravoso di tutti: bisogna che la Carfagna, Toti e chi è con loro siano effettivamente disposti a compiere il patrignicidio per divenire finalmente adulti e rimettere invece a Berlusconi ogni adulterio. Perché si intenda bene: tutto quello che l’Italia è stata nell’adulterio rispetto alla vita civile e alla formazione degli stessi figliastri spuri di una sinistra liberista, del dimenarsi inintelligente e acerbo del grillismo, dei dioscuri sfascisti Renzi e Salvini, proviene appunto dalla paternità trentennale della televisione commerciale che ha svilito ogni qualità civile, morale e soprattutto intellettuale nelle saghe dei Grandi Fratelli e dintorni.
In fondo, come nel secondo dopoguerra, tutti i soggetti politici sono chiamati a cooperare per quello che essi possono e devono al Paese in questo momento sanitario, economico e sociale straordinario; in uno scatto dell’intelletto prima ancora che della morale che solo può assicurare la loro sussistenza e con essa quella delle istituzioni parlamentari e della stessa Europa.
Lo stesso Draghi, non si tralasci questo in ultimo, è chiamato a farsi, da eccellenza dell’economia, eccellenza della politica (ma questo del riordino dell’oeconomicus nel politicus è il compito che sta di fronte all’intera umanità contemporanea: dalle eccellenze fino a ogni uomo e ogni donna comuni.) Lo deve a un Paese che grazie al suo Presidente della Repubblica ha avuto riportato – insisto – la sua esistenza alla sua essenza; e lo deve anche a quel Presidente che in fondo gli ha dato l’investitura di prossimo inquilino del Colle onde presidiare il più alto scranno della Repubblica dalle velleità quirinalizie della suburra arcoriana.
La democrazia fra Capitol Hill e capitolazione
(pubblicato su l’Espresso online del 7 gennaio 2021 e Domani del 10/01/2021)
A me è capitato così: ho acceso la televisione e mi sono casualmente imbattuto nelle inimmaginabili immagini dell’assalto e dell’occupazione del Senato americano a Washington. L’impressione è stata più forte addirittura di quella dell’abbattimento delle Twin Towers. Se infatti nell’occasione dell’11 settembre lo sgomento era accompagnato soprattutto dal dolore per le persone che stavano perdendo la vita, nella sera di questo 6 gennaio lo sgomento si è coniugato con il dramma delle istituzioni democratiche che presiedono allo svolgimento storico della vita di milioni e milioni di persone; in una dimensione appunto storica e di ordine concettuale.
Molti subito hanno invocato la follia di Trump; a me sono invece subito venute alla mente le immagini dei disordini di agosto del 1991 con cui di fatto è cominciata la disgregazione storico-concettuale dell’altra superpotenza mondiale, l’URSS. Credo che, per fortuna, le istituzioni democratiche americane siano ancora storicamente vitali e dunque c’è da aspettarsi che alla fine il dramma non finisca in tragedia; una tragedia che significherebbe la destabilizzazione totale dell’universo storico e concettuale occidentale come è avvenuto per il blocco sovietico.
Sennonché vedere le immagini dell’assalto al tempio della democrazia occidentale, in seguito alla provocazione continua di chi proprio da quella democrazia è stato eletto solo quattro anni fa, è un fatto gravissimo che non ci deve lasciare pensare nei termini dell’episodicità. Le istituzioni americane e il mondo storico concettuale che vi è dietro, credo siano ancora solide; e lo stesso Biden è un politico che ha dimostrato subito di essere all’altezza di quelle istituzioni, di quella storia e di quei concetti; le sue parole sono state subito nell’ordine della migliore coniugazione della fermezza con la razionalità; di fronte, invece, le parole ancora una volta equivoche di Trump: che ha solo invitato a tornare a casa quelle persone che lui stesso aveva poco prima sobillato scientemente proprio nei momenti precedenti alla ratifica dell’esito delle elezioni presidenziali; richiamato a Washington, sobillato e poi solo invitato a tornare a casa senza nessuna stigmatizzazione dell’accaduto; anzi ribadendo che la vittoria elettorale è stata ‘rubata’ (stolen) e che lui continua ad amare questa gente (‘we love you’).
Ed è sull’equivoco continuo che le istituzioni democratiche di tutto il mondo sono minacciate al di là di quanto è accaduto; l’equivoco è la peggiore arma che si possa usare contro l’avversario, contro la morale, contro la democrazia; perché l’equivoco è l’ipocrisia della logica; quella logica in cui poi i pensieri si coagulano e si fanno carne nelle azioni delle persone. Non è un caso che il più grande filosofo dell’antichità, Aristotele, contro il disfacimento di quell’animale politico e razionale che l’uomo è allo stesso tempo, abbia messo il punto fermo (bebaios) del principio di non contraddizione. E questo principio è il grande malato del nostro tempo; lì dove si dice una cosa e se ne sottende un’altra. Sobillando abilmente gli istinti né politici né razionali di un uomo deumanizzato. Questo è stata la presidenza Trump con i suoi accoliti in ogni regione del mondo, compresa questa nostra provincia italiana.
La speranza è che negli Stati Uniti tutto rientri ma il lavoro lungo e titanico di una rinascita della politica vera sta proprio in un lavoro di igiene logica che è poi coalescente con l’igiene pratica e politica; delle azioni individuali e di quelle collettive. Su questa strada la via è lunga e tormentata (long and winding); in salita e controcorrente. Esige un sforzo personale di tutti senza il quale il crollo dell’orizzonte storico concettuale in cui siamo nati, cresciuti, anche nel dissenso totale, sarà solo stato rimandato. E allora lì si Capitol Hill diventerà Capitol Fall … con una parola che le riassume tutte e due … la capitolazione.
Il tragico errore di riaprire le superiori il 7 gennaio
(pubblicato su ‘Domani’ del 3/01/2021 e la Repubblica del 5/01/2021 )
Non sono fra quelli che sono sempre contro i governi ‘senza se e senza ma’; soprattutto nel caso in specie del difficile compito svolto dal cosiddetto ‘Conte bis’; invece è mia convinzione ‘senza se e senza ma’, in qualità di insegnante si filosofia e storia al liceo, che la didattica sia solo quella in presenza lì dove la didattica a distanza può essere solo un provvedimento di assoluta emergenza rispetto a una situazione di emergenza assoluta qual è quella della pandemia in corso. Fissati questi punti, ritengo che la riapertura delle scuole, peraltro nell’ibrido di una didattica fra presenza e distanza che non sarà né in presenza né a distanza, sia un errore inspiegabile del governo. Più prudente e soprattutto più utile, al fine di tornare presto stabilmente ad una vera didattica in presenza, sarebbe stato prorogare, anche dopo le mescolanze che saranno avvenute nel Capodanno dei teenagers (ma non solo!), la didattica a distanza fino alla fine di gennaio; che poi, con le misure prese dalla quasi totalità delle scuole, sarebbe coinciso con la fine del primo quadrimestre. Più prudente sarebbe stato dunque finire con l’omogeneità didattica del primo quadrimestre per preservare l’omogeneità del più auspicabile ritorno a scuola nel secondo quadrimestre dalla fine di gennaio. Speriamo che possa esserci ancora un margine di ripensamento!
Il bivio del nuovo anno fra caos e cosmo
(Roma, 31 dicembre 2020)
Ci apprestiamo a chiudere questo anno, che certamente ricorderemo, e speriamo di aprire una nuova pagina seppure lenta nel suo costituirsi. La messa a punto del vaccino che gli scienziati hanno fatto in meno di un anno ha del miracoloso e veramente non si riesce a capire come, piuttosto che a loro, le preghiere debbano essere rivolte a quelle persone che credono di trovare un significato alla loro esistenza nella solo ottusa e stupida riottosità a vaccinarsi. Comunque grazie al buon senso della maggior parte delle persone anche questi titanici eroi del nulla potranno godere della famosa immunità di gregge e dunque non c’è troppo da preoccuparsi.
La preoccupazione con cui invece si apre il nuovo anno è un’altra: l’impiego dell’ingente somma di denaro che arriverà con il Recovery Fund; e qui il nostro pessimismo è cosmico come quello dello poeta di Recanati. Investe un cosmo ovvero, stando all’etimologia greca del termine, un ordine. Quell’ordine che si è costituito nelle nuovo mondo delle «magnifiche sorti e progressive» 2.0 per cui ora tutti sono in ansia per i ‘progetti’ lungo cui dovranno essere spesi i miliardi di euro che vengono dalla così vituperata Europa al cui tavolo oggi tutti vorrebbero sedersi pur di partecipare alla spartizione del bottino; ma appunto non è tanto su queste bassezze politiche che un pessimismo alto possa temere; il pessimismo cosmico sul Recovery Fund è sulle affermazioni per cui questi soldi dovranno essere ‘spesi bene’. Sui progetti giusti. Con il che quando si ascolta la parola ‘progetto’ tremano le vene e i polsi a chi invece è rimasta cara ancora la parola ‘idea’; perché queste due parole richiamano due mondi completamente diversi. Quello per cui i soldi finiranno tutti in giga, per potenziare le sinapsi della rete e quello per cui i soldi dovrebbero essere impiegati innanzitutto nelle sinapsi dell’intelletto umano.
Non siamo così ingenui da pensare che oggi si possa fare a meno delle sinapsi dei giga ma pure non siamo nemmeno degradati e trascinati dalle acque torrenziali della «fium@na del progresso» per continuare a pensare che non urga un momento di riflessione sulla riattivazione delle sinapsi dell’intelletto; dello spirito umano. Quel luogo intangibile dove nascono appunto, di contro ai progetti, le idee.
Ma che cos’è è un’idea? Oggi molte persone credono di averne quando lanciano quella che è molto più banalmente e dannosamente una ‘trovata’. No! L’idea è quell’atto dell’intelletto con cui appunto la mente riesce a ricondurre la molteplicità dei fenomeni che gli sono di fronte all’unità di un pensiero. Con il che si distingue fra una persona che pensa e che si pensa e una persona che si dis-pensa e si disperde; fra una società che pensa e che si pensa e una società che si dis-pensa e si disperde. Quella dispersione che è frammentazione dell’io della persona e del noi della società che porta alla psicosi e dell’io della persona e del noi della società. Che avanza dentro il movimento centrifugo di quell’apparenza dell’unità e del futuro che appunto brilla di fronte agli entusiasmi ciechi di uomini e donne dei progetti; di contro al sempre più ritirato mondo del movimento centripeto dell’essere vero dell’unità e del futuro che tende sempre più a impallidire di fronte alla residualità di uomini e donne delle idee.
Questo è il bivio di fronte a cui l’io e il noi stanno di fronte già da molto e soprattutto con l’epocale crisi (proprio nel senso etimo-logico che il termine ha) del Covid; esattamente il bivio del caos da una parte e del cosmo dall’altra. E appunto, fra i soldi del Recovery Fund e una più generale visione dell’uomo, si leva il nostro pessimismo cosmico; ovvero letteralmente il pessimismo sul fatto che lo schizofrenico mondo contemporaneo possa prendere la via ordinata del cosmo rispetto alla tossicodipendenza gigacentrifuga del caos.
Massini e la vulgata fra scuola e spettacolo
(28/12/2020)
Domenica, alla ricerca di un programma televisivo, con cui distendersi un po’ la sera e concludere questo fine settimana natalizio dove abbiamo trovato il vero Natale, nell’intimità del calore familiare, a dispetto di tutti gli altri che sono in verità i Natali ‘diversi’, mi sono imbattuto nella trasmissione ‘Ricomincio da Rai Tre’ condotta da Stefano Massini e Andrea Delogu. Un’ottima trasmissione per la ripartenza del teatro con personaggi noti e persone meno note che ne incarnano lo spirito in monologhi, dialoghi, frammenti e digressioni. In particolare bellissimi i momenti di Elena Sofia Ricci che interpreta Pirandello e Lella Costa in un pezzo di Franca Valeri su Santippe, la moglie di Socrate. Mirabile la danza di un giovane ballerino classico che ha interpretato il Lago dei Cigni di Čajkovskij e, alle parole di Bolle, sull’importanza della danza nell’abbattere l’ignoranza bullistica della discriminazione sessistica, commovente la sua lacrima commossa che il regista ha tempestivamente e sapientemente ripreso scendergli sulla guancia. Insomma un momento di televisione piacevole, lodevole intelligente, a dispetto di tanti altri, con cui sembrava chiudersi la settimana di questo Natale diverso nel suo essere autentico. Sennonché, quando ero disteso nel corpo e nello spirito, la frase che mi fa saltare sul divano. Quella di Massini che elogiando un’irenica situazione di complicità fra registi, attori, operatori dietro le quinte e ogni individuo che operi nel teatro si lascia sfuggire il seguente virgolettato: «perché nel teatro e nello spettacolo non ci sono ruoli, gerarchie, come a scuola fra studenti, bidelli, professori». E’ una frase che se non squalifica tutta la trasmissione è per la valenza che essa ha conquistato con donne, uomini, ragazze e ragazzi, che hanno saputo vivere la scuola come momento di cui è si è nutrita o almeno giovata nell’apprendimento, nella cultura e nella socialità la loro passione. Proprio fra Pirandello, Socrate, Čajkovskij e quanto altro ancora non si può enumerare. E non la squalifica per la maturità di quello spettatore, come nel caso del sottoscritto, che sulla frase lascia cadere un sorriso nella convinzione della canzone dell’Englishman in New York per cui «ci vuole un uomo per sopportare l’ignoranza con un sorriso». Si, perché quella di Massini è una caduta di stile che partecipa del clima di ignoranza che in un modo o nell’altro deve ricadere sempre con il suo discredito volgare (nel senso della vulgata corrente) sulla scuola. Che se effettivamente è malconcia non lo è per le gerarchie ma casomai per la partecipazione culturale a quella temperie spirituale contemporanea per cui proprio «uno vale uno». Cosicché lo studente contesta l’operato del professore, il genitore viene in forza a sostenere il figlio, i presidi chiedono spiegazioni e un po’ tutti si sentono padroni e vessati allo stesso tempo. Niente più e niente meno di quello che accade nella società contemporanea. Niente più e niente meno, vorrei dire a Massini, di quello che accade anche dietro le quinte della televisione e del teatro quando si chiude il sipario o si spengono le luci delle telecamere. Ma forse lì qualche gerarchia è rimasta, di quelle importanti, vere, nutrienti e sane se Flavio Insinna non nomina quasi mai, durante il suo contributo alla trasmissione in questione, il nome di Gigi Proietti e lo invoca continuamente con il termine di Maestro. Che la caduta di stile di Massini non è solo sul gioco irriflesso e alla moda del tiro al bersaglio sulla scuola ma proprio nel pensiero contemporaneo che ognuno debba valere uno lì dove effettivamente poi ognuno solo vuole valere uno e sono in pochi (un’oligarchia sempre più ristretta e invisibile) invece effettivamente a scandire tempi, modi, ritmi e fortune (anche economiche) della società; anche nella sua provincia del teatro e della televisione; a meno che non si incontri un vero Maestro, quale ad esempio Gigi Proietti, che nella consapevolezza del suo valore sapeva poi come condividere questo valore con il mondo dei giovani e in generale delle persone che lo circondava. Questa è la democrazia vera; quella che il buon Massini dovrebbe ricordare proprio dai suoi studi di lettere antiche del liceo e dell’università; che credo abbia avuto buoni Maestri anche lui fra le gerarchie della scuola e della scuola del teatro e li benedica quando vi pensi veramente e magari gli ritorni in mente quel passo di Tucidide su Pericle in cui lo storico dice dello statista e del momento più alto della vera democrazia che fu «di nome una democrazia ma nelle cose il governo del primo cittadino»; si badi bene del primo cittadino, non del primo despota. Che la differenza è abissale: perché il primo cittadino, nella democrazia vera, quella del teatro, della scuola, di ogni attività umana e della società in generale è il potere del primus inter pares che proprio i veri pares riconoscono come tale e per cui lo investono del consenso nel governo della cosa pubblica; pure al netto, si dica, di ogni irenismo che invece non fa altro che dissimulare ipocritamente e strumentalmente, o solo nelle parole alla moda, di che lacrime e di che sangue grondi lo scettro dei regnatori.
Ahi serva Europa!
(pubblicato su ‘Domani’ e su l’Espresso online del 14/12/2020)
In questi ultimi giorni, durante i quali emerge in maniera prepotente il sentimento di dolore per le torture che hanno segnato l’agonia e la morte di Giulio Regeni, è accaduto anche che il Capo dello Stato francese, il Presidente Macron, abbia conferito la più alta onorificenza della nazione al Presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Proprio nel contesto di un incontro che aveva come tema la questione dei diritti umani e proprio a dispetto di quell’amicizia italo-francese che dovrebbe costituire una delle tessiture fondamentali lungo cui si possa leggere la storia europea e immaginarne un suo futuro. Un futuro su cui, invece, proprio alla luce di questi eventi, bisogna porre, pure con dolore, degli interrogativi inquietanti. Quel Mondo Atlantico che aveva messo all’indice i cosiddetti ‘stati canaglia’ si trova sempre di più a dover pagare il suo pegno disonorevole nei confronti di quelli che chiameremo piuttosto degli stati straccioni; sempre di più siamo messi di fronte alle scorribande con cui Stati come l’Egitto, la Turchia, l’Ungheria e la Polonia, fanno il bello e soprattutto il cattivo tempo in Europa. Più ci proponiamo come europei di ‘stringerci a coorte’, quella della democrazia e dell’Illuminismo e più invece dobbiamo fare i conti con la nostra subalternità rispetto a un vero e proprio dispotismo ottenebrato. E’ forse una debolezza che viene da lontano con le due guerre suicide e fratricide del Novecento – che fanno pensare a quelle con cui gli Stati italiani dell’Umanesimo e del Rinascimento si consegnarono al dominio francese, spagnolo ed austriaco – e allora, al di là dei miseri atti di sudditanza nei confronti di questi questi stati straccioni, forse dovremo ancora più preoccuparci della subalternità che sta maturando sempre di più rispetto ai loro tutori: la Russia, la Cina e gli stessi Stati Uniti in cui solo l’elezione di Biden ha messo al riparo, almeno per un po’, l’asse dell’atlantismo. Così, a fronte dell’ottimismo della volontà che ci fa ancora credere a un possibile futuro del nostro Continente, si staglia il pessimismo della ragione nel cui fosco cielo si aggiorna l’invettiva e il lacerato grido dantesco in questi termini: ahi serva Europa, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province ma … e, sull’epilogo, cada almeno una latina pietas a risparmiarci.
Il Natale del Covid fra Socrate e Gesù
(pubblicato su Domani del 4/12/2020 ed Espresso online del 4/12/2020)
Maradona e il mistero dei ludens
(pubblicato su Domani del 27/11/2020)
In questo mondo, in cui siano precipitati fra acronimi e sigle, la scuola è finita fra le magnifiche sorti e progressive della DAD; ci sono anche i POF, i PTOF, i PAI e i PIA; per il mondo dei grandi il tristo MIB e il triste RT; fino al calcio singhiozzato dello stop and go della VAR; ed è proprio da questo e in questo mondo di VAR e CR7 che è arrivata la notizia della morte di Diego Armando Maradona. Chi era costui? Beh, mai acronimo DM10, uomo innanzitutto e innanzitutto un uomo povero; e però un uomo, per dirla con la filosofia di chi nacque a “dodeci miglia da Napoli”, in cui tutta l’animazione vivente dell’universo si era concentrata nel piede sinistro; così come nel ragno tutta l’animazione vivente dell’universo si concentra nell’operosa tessitura della sua ragnatela; o, su per i cieli, nella più ampia tessitura delle costellazioni sideree.
Fino a seguirlo nel suo mancino, dunque, Diego Maradona è stato un uomo; un uomo la cui mancina tessitura dell’estro mise in crisi le più sofisticate ragnatele del Milan di Sacchi; pure quelle, si badi bene, concrezìone in un punto della divina animazione universale.
Sennonché Maradona, oltre che mirabile concrezione mancina della divina materia vivente, fu anche infrazione; infrazione delle leggi degli uomini ma anche infrazione dei doni e delle concentrazioni di Dio … ebbene sì, nella partita che lo portò sul tetto del mondo per consegnarlo a una gloria assoluta, Maradona segnò con il piede mancino quello che fra i goal della storia è stato probabilmente il più divino; concentrazione assoluta di Dio; ma poi, oltre il divino, l’epica mondiale che andava oltre il calcio a vendicare anche un conflitto politico e militare, l’uomo se la andò a prendere nell’esplicazione verso l’universo con la mano; la Mano de Dios. Nel paradosso dentro cui vivono quegli uomini che hanno in sorte di dare del tu all’infinito; di darsi del tu con l’infinito.
Questo è stato allora Diego Armando Maradona … concentrazione del dono e infrazione rispetto a quel dono per cui Derrida ci dice che mai ci si libera veramente dal donatore con cui in fondo sempre si rimane debitori; per questo Maradona è stato, attraverso il calcio, eroe degli uomini che in lui hanno vissuto e il dono di Dio ma anche la libertà tutta umana dalla machina universale dell’universo.
Concrezione e concreazione.
La VAR quel goal l’avrebbe annullato e con esso tutta avrebbe annullata quella capacità degli uomini di dare del tu all’infinito … nel dono e nel furto; così come in ogni contraddizione dentro cui, oltre i sapiens, i ludens intravedono e si fanno essi stessi il mistero dell’universo.
Lì dove anche i numeri diventano parola … AD1OS DIEGO!
Biden e la maturità sociale della libertà americana
(pubblicato su Domani del 10/11/2020 e su il Venerdì del 20/11/2020)
Nel mio pensiero, appresa la notizia dell’elezione di Biden, si sono subito dischiusi molteplici concetti da mettere in ordine e che però hanno presto risolto intorno a un assioma strutturale: un’uscita a destra dalla democrazia liberale è stata scongiurata ma, pena il ripresentarsi del pericolo, bisogna che ora Biden abbia chiaro che il secondo tempo della partita per difendere le istituzioni liberal-democratiche è quello da giocare in attacco; un attacco in cui, leggendo nel fenomeno trumpiano i profondi disagi in cui il capitalismo ha gettato larghi strati della popolazione americana e occidentale, la punta centrale della Casa Bianca dovrà mettere in rete (anche quella del web) l’idea che la liberal-democrazia non può sopravvivere se non a patto di esplicarsi nella social-democrazia. Lo scrisse mirabilmente Guido Calogero così: «Il liberale vecchio era convinto che il liberale non può essere socialista: il liberale aggiornato s’è accorto che può esserlo. Non però, ancora, che deve esserlo». E in questo senso gli americani dovranno intendere le stesse parole di Kamala Harris che, citando John Lewis, ha subito ben detto: «la democrazia non è uno stato ma un atto». E questo atto ora è il compito della maturità sociale di un popolo liberale: gigantesco quanto ineludibile! Ma forse è proprio fra la pandemia del virus che il respiro di un’intera nazione troverà l’energia eolica per la ventilazione del pensiero della libertà con quello dell’uguaglianza.
Lo smart working e il prezzo di un tè caldo
(pubblicato sul l’Espresso del 9/11/2020)
Bisogna chiedersi, in questa Italia spaccata fra chi teme di morire per il virus e chi teme di morire di fame, fra salutisti ed economicisti, se dentro l’aut-aut di questa necrologica binaria non ci stia sfuggendo una terza questione che ancora non vediamo; pure se tutti in un modo o nell’altro ci stiamo facendo quotidianamente i conti. Forse, per certi versi, più di quanto non accada per la salute biologica e quella economica.
Chi non ha a che fare oggi infatti con il lavoro da remoto? E soprattutto: chi, dopo aver blindato le porte del proprio appartamento e predisposto sistemi di grate e di allarmi per le proprie finestre, non ha a che fare con il furto del ristoro, dell’essenza della familiarità e dell’intimità, che sta progressivamente erodendo la nostra vita domestica?
Ad ora temiamo giustamente la necrologia del virus e quella del bisogno ma la pandemia alla fine passerà; quello su cui invece è bene interrogarsi come un fenomeno di lungo termine è l’ulteriore cambiamento strutturale che sta subendo l’organizzazione del lavoro. In particolare nel settore del terziario, infatti, tutta la produzione si sta spostando dai luoghi di lavoro a casa.
Sulle prime rifiatiamo, al di là degli stessi rischi per la salute, per il fatto di poter condurre le nostre fatiche senza muoverci; di poter lavorare nel calduccio delle nostre case. Ed è qui il punto! Siamo sicuri che proprio questo calduccio non sia esposto a un processo di ibernamento e di ibridazione dove innanzitutto il confine fra il lavoro e la famiglia non squilibri ancora di più i termini di questo rapporto in favore del primo? Tanto più che ognuno in famiglia diventa il termine del lavoro di tutti e gli stessi rapporti della più stretta parentela sono esposti a diventare, in una matassa tanto invisibile quanto tossica, pure rapporti di lavoro. Ognuno in casa diventa fatalmente, su molteplici piani, il terminale e il termine del lavoro di tutti dentro il corto circuito se non la pericolosa sovrapposizione della produttività alla familiarità. Tanto più che proprio il calduccio della familiarità diventa sempre più reperibile dall’aspro mondo della produttività. Forse non ci stiamo accorgendo infatti quanto, al prezzo di un tè caldo sulla scrivania, stiamo concedendo di più in termini di tempo al mondo del lavoro.
E qui la questione non è solo un fatto di sovrapposizione fra la nostra dimensione familiare e la dimensione lavorativa; la questione si fa più propriamente economica. Ritiriamolo fuori quel signore che forse troppo in fretta è stato dato morto proprio per essere assassinato da chi lo conosceva e lo conosce meglio di tutti; non ci si spaventi insomma al nome e al linguaggio di Karl Marx; di fronte a quel linguaggio che ci dice che, al prezzo di un tè caldo, le nostre dita che scorrono compulsive sulle tastiere casalinghe dei computer stanno producendo una quantità di pluslavoro di cui nemmeno ci accorgiamo; chi può negare infatti che, con il fenomeno dello smart working, dentro la stessa soglia di stipendio la quantità di tempo che si sposta dalla familiarità alla produttività sta nettamente aumentando? I datori dei nostri lavori questo lo sanno bene; come sanno bene che quel plusvlavoro si traduce per loro in un plusvalore che finisce poi a ingrassare i termini dei loro saggi di profitto. Tanto più che, con le spese dell’energia elettrica, con le spese per il continuo adeguamento della perfomatività di hardware e software e via dicendo, il costo dei mezzi di produzione non è più a solo carico di chi investe ma si sta trasferendo in chi lavora.
Dunque: dentro un quoziente di quantità lavorativa che cresce senza che ce ne accorgiamo (ma chi non lo sente dentro gli affanni e la tossicità informatica!) con cui fa il paio la riduzione dei costi dei cosiddetti mezzi di produzione per chi sta dall’altra parte del terminale c’è forse da chiedersi cosa veramente rimarrà di letale quando il coronavirus passerà ma intanto nelle nostre case avremo portato il virus trojan con cui pensavamo che Atena ci volesse dare un segno del suo favore. Sennonché la dea dell’intelligenza non parla ancora in inglese e, lì dove lo capisse, avrebbe forse un bel ridire sul fatto che tutto ciò che cade sotto il suo dominio possa prendere il nome di smart! Stiamoci dunque ben attenti prima di salutare la comodità di una tazza di tè sulla scrivania come agio e agilità del nostro lavoro.
Il mondo al bivio cieco delle presidenziali americane
(pubblicato su ‘Domani’ del 3/11/2020)
Le elezioni politiche statunitensi si stanno concludendo e fra martedì e mercoledì sapremo chi avrà vinto tra Biden e Trump. Nonostante i sondaggi siano abbastanza netti in favore di Biden non è molto facile, a mio avviso, fare un pronostico; sappiamo che l’affluenza è stata alta e questo, più che a una vittoria di Biden, fa pensare al fatto che gli americani hanno più o meno consapevolmente intuito o capito il valore epocale di questo passaggio storico. Si tratta infatti, al di là delle persone e anche della stessa intera politica interna statunitense, di scegliere se il capitalismo può essere ancora coniugato con le strutture della democrazia occidentale o se tale sintesi non è più possibile; se lì dove i due termini erano sinonimici ora sono irriducibilmente diventati ossimorici. Una vittoria di Biden andrebbe nella direzione di quello che è comunque uno sforzo per conciliare ancora capitalismo e minimali istituzioni liberali e democratiche; una vittoria di Trump, invece, ci direbbe che gli Stati Uniti, nell’umore profondo del suo popolo, hanno intuito che, per non cedere definitivamente l’egemonia economica alla Cina, devono anche essi prendere la strada dell’autoritarismo politico. Quanto vediamo in questo fenomeno della pandemia non ci lascia in ciò ben sperare e anche una vittoria di Biden potrebbe essere il canto del cigno della democrazia americana; il mercato si sta sempre più concentrando, sia per la produzione che per la distribuzione, su un numero ristrettissimo e plenipotenziario di aziende se non proprio di persone (che non sappiamo quanto possano permettersi di lasciare ancora quote di mercato ai piccoli e ai medi imprenditori) e non possiamo dunque non pensare che ciò non abbia il suo riflesso sulla politica; ove vengano meno i corpi intermedi dell’economia non vi è ragione di pensare che debbano permanere i corpi intermedi della politica. Insomma, il cittadino statunitense si presenta di fronte al seggio con un’alternativa drammatica: provare a tenere in piedi le istituzioni democratiche e cedere l’egemonia politica mondiale alla Cina oppure iniziare un cammino verso forme di democrazia plebiscitaria. La questione è terribile tanto quanto abbiamo imparato a capire come sia terribile dover scegliere ogni giorno oggi fra la salute e il lavoro. Più che in un vicolo cieco, siamo oggi nel passaggio epocale e tragico di un bivio cieco; quello in cui si decide la storia o dove forse la storia ha già deciso per noi.
La nuova scuola e il vecchio ebreo
(01/11/2020)
La scuola, come si va sempre di più configurando negli ultimi anni, è ormai diventata il luogo dove si elaborano griglie, progetti, tabelle e ogni sorta di materiale burocratico che toglie ai docenti sia il tempo della didattica quanto soprattutto, lo diremo proprio in una possibile terminologia che accompagna ormai questa rivoluzione, il settaggio delle loro menti e delle stesse emozioni sull’insegnamento. Docenti? Ormai si parla di referenti, coordinatori, staff, team e, più dell’antica cattedra, i piani della scrittura e dell’attività generale sono diventati i cosiddetti ‘tavoli di lavoro’; per tutto, oggi, si dà un ‘tavolo di lavoro’ nella scuola. Sarebbe interessante sviluppare proprio l’approfondimento del discorso sulla nuova figura del docente in relazione allo spostamento termino-logico che lo vede dalla cattedra al tavolo. Ci limitiamo a dire che l’unica cosa in comune che lasciano intendere i due vocaboli della lingua italiana è il legno di cui sono fatti; un legno che sempre di più costituisce poi, al fondo, la croce su cui la didattica viene inchiodata sanguinante e incoronata, più che dall’alloro degli studi, dalle spine sotto cui è finito l’utilizzo delle teste dei docenti; molti si illudono di riuscire a servire due padroni ma su questa via crucis del calvario dovrebbe ammonirli proprio la parola evangelica del fatto che ubbidire a una diarchia non è possibile. Non si può rispondere insieme all’appello di una pseudomanagerialità del mercante e all’officiamento dell’autentica lezione del tempio. Delle due l’una, o mercanti o con-templanti; questa è la scelta che si pone nei termini irriducibili dell’aut-aut al di là delle facili e facilone prospettive dell’et-et. Ma veniamo dal Nuovo Testamento ai nostri “fratelli maggiori” dell’Antico; tanto più che, una volta, scherzosamente, una collega alle soglie della pensione mi disse che sulla scuola io non ero abbastanza “smart” e invece “veterotestamentario”; e di fatti lo ero; ero e sono orgogliosamente veterotestamentario! Lì dove peraltro si racconta un aneddoto di un vecchio ebreo al cui capezzale dell’ultimo giorno tutti i parenti si affrettavano a testimoniare, fra i suoi ultimi respiri, la loro vicinanza e la loro presenza; papà sono io tuo figlio, sono qui eh; zio sono qui eh, nonno sono qui eh! E via dicendo per tutte le filiazioni possibili di Abramo e di Giacobbe. Cosicché l’ultimo soffio vitale del vecchio pare sia stato questo: “sì sì vabbe’, ma a bottega chi ce sta’?”. Ecco, tutti, più o meno consapevolmente e doglianti – ma ce n’è anche per i masochisti che ha trovato il piacere, ricercano uno pseudopotere nonché il surrogato a precedenti fallimenti professionali ai veri tavoli di lavoro – si affrettano intorno al capezzale delle griglie, dei progetti, delle riunioni di staff, dei coordinamenti, dei dipartimenti e così via. Ma, direbbe il vecchio ebreo esalante … sì sì, vabbè, ma a bottega – la didattica – chi ce sta?