Introduzione a Hume
La critica alla metafisica e l’infondatezza dei concetti di sostanza, soggetto, causa
1. LA CRITICA ALLA METAFISICA
David Hume nacque a Edimburgo nel 1711. Compì gli studi di diritto e per un breve tempo esercitò la professione di avvocato a Bristol. I suoi interessi di ordine filosofico vennero però sempre di più in primo piano e durante il soggiorno francese, fra il 1734 e il 1737, compose la sua opera fondamentale, il Trattato sulla natura umana, che fu pubblicato nel 1739. Seguirono, per Hume, gli anni delle missioni politiche; quindi, dopo il ritorno in Inghilterra, il filosofo fu in varie città d’Europa. Nel 1748 pubblicò la Ricerca sull’intelletto umano e nel 1752 la ricerca sui principi della morale. Entrambe queste opere rielaborano e riespongono in forma più concisa e lineare il Trattato sulla natura umana che rimane comunque l’opera di riferimento a cui ricondurre la filosofia di Hume. Seguirono gli anni di importanti pubblicazioni sul fenomeno della religione: i Dialoghi sulla religione naturale e la Storia naturale della religione. Il filosofo trascorse gli ultimi anni della sua vita nella sua Edimburgo e morì nel 1776. I capisaldi del filosofare di Hume vanno rintracciati sicuramente in una visione serratamente empiristica e nella conseguente critica della metafisica e dei suoi concetti portanti.
Quando scorriamo i libri di una biblioteca, persuasi di questi principi, che cosa dobbiamo distruggere? Se ci viene alle mani qualche volume, per esempio di teologia o di metafisica scolastica, domandiamoci: Contiene qualche ragionamento astratto sulla quantità o sui numeri? No. Contiene qualche ragionamento sperimentale su questioni di fatto e di esistenza? No. E allora, gettiamolo nel fuoco, perché non contiene che sofisticherie ed inganni.
Hume, Trattato sulla natura umana
2. LA CRITICA AI CONCETTI DI SOSTANZA E SOGGETTO
Non vi è, secondo Hume, né un sostrato permanente che costituisca la sostanza degli oggetti intorno a cui, poi, si dispongono le qualità degli oggetti stessi; ne vi è un sostrato permanente che costituisca la sostanza dei soggetti intorno a cui, poi, si dispongono le qualità dei soggetti stessi. Le cose e la coscienza non sono che una sintesi fluida di qualità e di impressioni che varia continuamente e non si riferisce ad alcun sostrato permanente sia oggettivo che soggettivo.
Qui troviamo che le conclusioni alle quali giunge il volgo su questo punto sono direttamente contrarie a quelle della filosofia. La filosofia dice, infatti, che tutto ciò che si presenta alla mente non è altro che percezione, la quale, interrompendosi, è dipendente dalla mente; invece il volgo confonde percezioni e oggetti e attribuisce una distinta e continuata esistenza alle cose che vede. […] In conclusione, la ragione non può darci la certezza della continuità e distinta esistenza dei corpi. Questa opinione è dovuta esclusivamente all’immaginazione.
Noi non siamo altro che fasci o collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità, in un perpetuo flusso e movimento. I nostri occhi non possono girare nelle loro orbite senza variare le nostre percezioni. Il nostro pensiero è ancora più variabile della nostra vista, e tutti gli altri sensi e facoltà contribuiscono a questo cambiamento; né esiste forse un solo potere dell’anima che resti identico, senza alterazione, un momento. La mente è una specie di teatro, dove le diverse percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano con un’infinita varietà di atteggiamenti e di situazioni. Né c’è, propriamente, in essa nessuna semplicità in un dato tempo, né identità in tempi differenti, qualunque sia l’inclinazione naturale che abbiamo ad immaginare quella semplicità e identità. E non si fraintenda il paragone del teatro: a costituire la mente non c’è altro che le percezioni successive: noi non abbiamo la più lontana nozione del posto dove queste scene vengono rappresentate, o del materiale di cui è composta.
Hume, Trattato sulla natura umana
3. LA CRITICA AL CONCETTO DI CAUSA
Gli uomini sono indotti a stabilire relazioni di causa e di effetto perché vedono che due eventi si collocano in contiguità nello spazio e in successione nel tempo. Sennonché la contiguità e la successione non sono elementi sufficienti per instaurare una relazione necessaria di causa e di effetto fra due eventi. Bertrand Russell spiegherà bene, con un esempio, l’impossibilità della contiguità e della successione a costituire dei paradigmi sufficienti a instaurare un nesso necessario di causa e di effetto. Un viaggiatore, esemplifica Russell, ignaro delle abitudini moderne, transita in treno tutti i giorni alle cinque davanti a una fabbrica e vede gli operai uscire; reitera tale esperienza numerose volte ed è quindi portato a credere che il passaggio del treno costituisca per gli operai il segnale della fine della giornata lavorativa. La contiguità e la successione, in questo caso, portano in questo caso a istituire un rapporto del tutto erroneo fra gli eventi. In più: se il viaggiatore fosse del tutto all’oscuro delle abitudini umane e constatasse che alle cinque in punto gli operai vedono il treno passare davanti alla loro fabbrica, potrebbe egli stabilire quali di questi due eventi è la causa dell’uscita degli operai? Certamente no. Per ritornare a Hume: non vi è niente altro che l’abitudine a istituire rapporti consequenziali di causa e di effetto e tale abitudine non può valere come parametro per istituire un rapporto necessario: un rapporto che non possa subire una variazione.
Dobbiamo anzitutto considerare l’idea di causalità e vedere quale ne è l’origine. […] Diamo dunque uno sguardo a due di quegli oggetti che chiamiamo causa ed effetto, e rivolgiamoli da tutti i lati per trovare quell’impressione che produce un’idea d’importanza tanto prodigiosa. Vedo subito che non devo cercarla in nessuna delle particolari qualità, poiché, qualunque di queste io scelga, trovo oggetti che non la possiedono e nondimeno sono chiamati cause ed effetti. Ed invece non esiste nulla nell’oggetto, né esternamente né internamente, che non si possa considerare o come causa o come effetto, sebbene sia evidente che non c’è alcuna qualità che appartenga universalmente a tutte le cose e dia loro diritto a questa denominazione.
L’idea di causalità deve quindi derivare da qualche relazione esistente tra gli oggetti, ed è questa relazione che dobbiamo cercare di scoprire. Trovo in primo luogo che gli oggetti considerati come causa ed effetto sono contigui; e che niente potrebbe agire su altro se tra essi ci fosse il minimo intervallo di tempo e di spazio. Sebbene oggetti distanti possono talora sembrare produttivi l’uno dell’altro, si scopre di solito che sono uniti da una catena di cause contigue tra loro; e anche quando non la possiamo trovare, presumiamo che esista. Dobbiamo dunque considerare il rapporto di contiguità essenziale a quello di causalità, o almeno supporlo tale, fin quando non avremo un’occasione più propizia per chiarire la questione esaminando quali sono gli oggetti capaci di giustapposizione e di congiungimento.
Il secondo rapporto che io stimo essenziale a quello di causalità non è ammesso da tutti, anzi è controverso, e consiste nella priorità di tempo della causa sull’effetto.
[…]
Ci contenteremo allora di questi due rapporti di contiguità e di successione, come se ci offrissero un’idea completa della causalità? Assolutamente no. Un oggetto può essere contiguo e anteriore a un altro, senza venire considerato come la sua causa. Occorre esaminare il rapporto di connessione necessaria, che ha un’importanza ben maggiore dei due precedenti. Guardo ancora l’oggetto da tutti i lati, per scoprire la natura di questa connessione necessaria e la impressione, o le impressioni, da cui può essermi venuta la sua idea. Scopro subito che il rapporto di causa e di effetto non dipende affatto dalle qualità conosciute degli oggetti. Delle loro relazioni vedo solo quelle di contiguità e di successione, che ho già dichiarato imperfette ed insoddisfacenti.
Hume, Trattato sulla natura umana