Servi e ultrà
Il mondo del calcio, preso ormai nel suo folle meccanismo di denaro e di violenza, sembrava aver trovato un momento di umanità, di unità e di verità nel nome di Davide Astori. In una delle scorse giornate di campionato, quella che cadeva proprio intorno alla ricorrenza annuale della morte di Astori, tutte le squadre si erano fermate al minuto 13° per ricordare, prendendo a spunto il numero della sua maglia, il calciatore prematuramente scomparso per un problema cardiaco. Proprio ieri, poi, c’è stata la partita che doveva ricordare più intensamente Astori perché giocata fra le due squadre più significative in cui il giocatore ha militato, il Cagliari e la Fiorentina. Non l’ho vista e non so se ci sia stato (ma immagino di sì) un momento di commemorazione ulteriore rispetto a quella della precedente giornata. Quello che invece apprendo ora su Repubblica è che, durante la partita, un tifoso cagliaritano ha avuto un infarto e, dalla curva dei tifosi viola, è partito il coro: “Devi morire”. Il tifoso cagliaritano, Daniele Atzori, incredibilmente vicino nel nome e nel destino ad Astori, è poi realmente morto una volta trasportato all’ospedale. E vengo alla risoluzione della questione: ma quanta ipocrisia vi è in queste manifestazioni di celebrazione di unità fra le tifoserie e di testimonianza di un lutto di com-pianto? Il caso ha voluto che, una volta celebrata la messa in scena di una ipocrita e pelosa solidarietà su Astori, subito sia riuscita fuori, proprio sullo stesso tema di un uomo infartuato, Atzori, tutta la barbarie in cui vive il mondo delle curve! Rispetto a cui non sono eterogeni episodi che succedono dal gradino superiore dei distinti fino alle tribune d’onore. Uno spaccato di barbarie calcistica che certo non può non far pensare al riflesso di un più ampio spaccato sociologico in cui gli individui, in ogni espressione della vita quotidiana, stanno diventando sempre più ultrà. Fra simulati convenevoli e profondi covi interiori di irriducibile violenza.
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Gli schiavi premoderni non potevano esprimere il loro disagio; non potevano rilanciare la violenza che su di loro veniva esercitata. Per la stragrande maggior parte essi non avevano nemmeno la coscienza della libertà e dunque non vivevano la loro schiavitù come tale; forse non sentivano come tale nemmeno la violenza che veniva esercitata su di loro. I nuovi nuovi schiavi contemporanei, ovvero una parte sempre crescente della società contemporanea, che subisce questo forsennato sistema di produzione e una sempre più disumana organizzazione sociale del lavoro, hanno invece nei loro cromosomi (dopo la Rivoluzione francese e i due secoli che l’hanno seguita) la coscienza della libertà; e con essa la coscienza della violenza che subiscono. Vivono una situazione schizofrenica: devono sottomettersi al sistema di produzione e all’organizzazione sociale del lavoro ma poi, insieme alla coscienza della violenza che subiscono, hanno la possibilità di esternare tale violenza. Senza però saperla più razionalizzare nella dialettica politica o sublimarla in qualche forma di arte. Lo sfiatatoio della religione è sfiatato esso. Di qui probabilmente la barbarie e il clima di violenza a tutto campo, da quella verbale a quella fisica, da quella virtuale a quella reale, che caratterizza sempre più diffusamente le nostre società e un intendimento patologico della libertà. I violentati diventano violentatori.