Intervista su I canti della polis
Intervista di Fabrizio Ciccarelli per le pagine di Roma in Jazz a Giuseppe Cappello sul suo ultimo libro I canti della polis, Edizione del Faro 2019 pp. 48 € 10 (su Amazon IBS Feltrinelli)
Aggiungi una nuova ampia riflessione in poesia a quelle tante già espresse su importanti quotidiani, riviste, recensioni, articoli, un album musicale e libri di versi e di indagine filosofica: perché hai sentito l’urgenza di condividere queste nuove parole?
La scrittura è in generale un’urgenza che sento quotidianamente; i Greci per indicare la felicità, nel senso della realizzazione piena di un individuo, usavano il termine eudaimonia, che letteralmente significa il possesso di un buon demone interiore. Tutti lo hanno. L’impresa di tutta la formazione attraverso cui noi passiamo è quella di cercare veramente quale sia il proprio demone e coltivarlo. Quanto all’esigenza specifica di questa nuova raccolta di poesie, I canti della polis, posso dire che essa continua il cammino nella scia del canto della relazione. Con la prima raccolta (Le danze dell’anima) il canto era concentrato sulla relazione sentimentale in quanto in essa germogliavano poi i valori della sensibilità, dell’intelligenza e dell’agape; quindi, nella seconda e la terza raccolta (Il canto del tempo e Il gioco del cosmo) il canto poetico, a partire dal mio insegnamento al liceo, si è sviluppato soprattutto nell’orizzonte della relazione con gli studenti; fino ad arrivare ai versi della successiva silloge (Vita nuova) dove il canto emerge dalla relazione familiare: in particolare a partire dall’evento della nascita di mia figlia fino a quello della scomparsa di mio padre. In questa nuova raccolta (I canti della polis) il sentimento e la parola hanno quindi messo al centro il tema della relazione politica in senso ampio; la parola ha cercato di dare la voce alla condizione dell’uomo contemporaneo nella sua dimensione di cittadino della cosmopoli terrena e del suo stesso rapporto con la natura. I canti della polis sono i canti sui temi che, nella tela ormai globale dell’umanità, ricadono sulle esistenze individuali ponendo in esse inquietudini, sfide e riflessioni.
Le tue poesie osservano, vivono, amano e a volte “bacchettano”, seguendo il titolo da te scelto, quella che secondo te è (o dovrebbe essere o potrebbe essere) la polis… cosa manca alla polis per divenire “terra non degli uomini ma per gli uomini”?
Potrei dire velocemente che alla polis manca la polis! Stiamo ripiegando su un’esistenza totalmente individuale che mi fa pensare alla situazione degli uomini e delle donne dell’età ellenistica. Con la differenza che invece di cercare un rifugio nell’antico quadrifarmaco epicureo della filosofia o dell’avvento del messaggio teologico cristiano ora ci illudiamo che ogni nostra ‘salvezza’ possa essere risolta dalla tecnologia e nella tecnologia. O forse, meglio, nell’illusione della tecnologia. Perché se la medicina, le neuroscienze ecc. hanno sicuramente migliorato le nostre condizioni di vita, oggi pensiamo che la tecnologia si risolva nello specchio degli smartphone. E’ un’illusione che sta decarnificando le nostre esistenze e al contrario delle promesse di farci vivere una realtà in 3D sta schiacciando le nostre relazioni su uno schermo in due dimensioni facendoci perdere il volume del nostro essere. Ecco: se Sant’Agostino pensava che l’inveramento della nostra polis terrena sarebbe avvenuto in una polis celeste, oggi ci stiamo ingannando nella prospettiva che l’inveramento della polis terrena possa avvenire in una polis digitale.
Potenzialmente la polis qualche pregio l’avrebbe anche. Cosa fare per recuperarlo nel modo più funzionale ad un mondo (diciamolo nella maniera più semplice) più giusto?
Innanzitutto, direi, coltivare quelle che mi piace chiamare le piccole agorà! Luoghi d’incontro vero dove la relazione passa ancora fra le persone in carne e ossa; in carne, ossa, sentimento e ragione. Dove ci si incontra al di qua delle promesse delle realtà virtuali e anche a dispetto della contemporanea organizzazione sociale del lavoro che invece ci lascia pochi momenti di vero incontro. Probabilmente l’incontro continuo, compulsivo e irriflesso della realtà 2.0 è il surrogato storico di una relazione che è invece continuamente amputata dalle richieste performative del lavoro in una sorta di totalizzazione delle logiche della produzione e del mercato.
L’essenza del Vir Artifex, dell’uomo consapevole delle ragioni della sua presenza nel mondo e protagonista della propria esistenza, è agire assieme ai propri simili, “partecipare” (scusa se ricordo il decasillabo di Giorgio Gaber “libertà è partecipazione”)?
Esatto! La libertà è partecipazione, è nella partecipazione. E la partecipazione, a dispetto di illusorie partecipazioni 2.0 a una illusoria cosmopoli globale a portata di click, è negli arcipelaghi di quelle che appunto chiamo piccole agorà. Persone che vincono la pigrizia, escono di casa, si incontrano per parlare, per esempio, di un libro. In carne ed ossa! Senza accomodanti mediazioni che ci vedono esausti sul divano la domenica sera e che foraggiano solo quello una volta veniva chiamata “industria culturale”. Che peraltro oggi di culturale non ha più niente … solo trash e cash. Con l’illusione dello smash del povero addivanato che ancora trova la forza di entrare nelle grandi catene commerciali della ‘editoria’. Una volta c’erano i libri messi all’Indice. Qualche volta, entrando nelle sale d’ingresso dei grandi punti della rivendita culturale, mi viene veramente il senso che li ci sia l’indice di tutto quello che non si debba leggere.
Cosa hanno veramente da insegnarci i pensatori (che forse il genere umano non ha mai ben voluto intendere) i quali da sempre sono nei tuoi pensieri sia come storico della filosofia che come artista? Cito istintivamente Aristotele, Platone, gli Illuministi, Sartre, Marx, Nietzsche e i “maestri del sospetto”?
Mah … insomma, la cultura per essere tale deve prima fare quello che hanno insegnato Socrate, Cartesio e Kant. Ciò che in maniera alta si dice fare un’analisi critica su ciò che ci circonda, ciò di cui noi stessi ci pasciamo inconsapevolmente e anche inconsciamente. Ma lo vorrei dire, vivendo in tempi di mercato, con i termini del mercato: l’unica cosa che può insegnare il pensiero che si è elevato al di là delle sue contingenze storiche è l’esercizio del fare la tara agli idoli da cui siamo circondati. Nel mito della caverna, Platone si riprometteva di portare gli uomini dal sapere sensibile al sapere della ragione; ma aveva previsto anche un grado più basso del sapere sensibile; quello in cui non si ha a che fare direttamente con gli oggetti sensibili ma addirittura con la loro immagine umbratile proiettata sullo sfondo della caverna. Ecco: già ritornare ai sensi, agli uomini e le donne i carne e ossa, mi sembra un atto di grande razionalità oggi.
Perché dedicare versi a Sting? Cosa ti unisce al vocalist dei Police?
La domanda viene bene rispetto all’ultima che abbiamo appena chiuso. Il quarto disco dei Police si intitolava Ghost in the Machine e aveva al suo interno pezzi come Spirits in a material world e Rehumanize Yourself! Insomma qui, finora, forse non ho detto altro che dobbiamo cercare di riumanizzare noi stessi con la tensione a realizzare la nostra spiritulità rispetto a un mondo che più che materiale è diventato un mondo digitale. Forse il titolo della canzone andrebbe aggiornato appunto in Spirits in a digital world. Sennonché vedo che lo stesso Sting a cui ho dedicato molte poesie e che ha scritto canzoni in cui sono depositati e da cui riemergono momenti vivi della mia stessa esistenza si è forse abbandonato troppo al mercato e a un mondo musicale che non è il suo. Ho ammirato Sting, oltre che per la sua musica, anche per capacità di sapersi rinnovare continuamente; di sapersi rinnovare anche quando sull’altare del sacrificio c’erano gli stessi Police. Ecco forse adesso le ultime puntate dei rinnovamenti sono più attente al mercato che alla musica. Questa è la facoltà critica di cui sopra: interrogarsi sempre anche di fronte a quell’idolo in cui hai risolto pezzi della tua stessa esistenza. Diceva un’antica canzone di Finardi che cito a memoria: “perché sai non basta / scegliere di avere un’idea giusta / assumerne il linguaggio e il comportamento / e poi dormire dentro”. E’ un passo che consiglio a molti di quelli che si sentono sicuri delle loro verità guadagnate magari a dispetto del volgo. Tutti siamo chiamati in gioco oggi e a maggior ragione chi pensa di frequentare la ragione.
Come docente e come artista credi che la poesia sia un aspetto naturale ed essenziale della filosofia?
In una delle piccole agorà, abbiamo fatto una presentazione del libro I canti della polis con tre amici che mi fa piacere qui citare per amicizia e per la grande stima che ho di loro (nonché per il regalo che mi hanno fatto nelle loro dire del libro come tu ora in questa intervista). Insomma, dai fuochi incrociati di Stefano Cazzato, insegnante di filosofia, saggista e scrittore, di Michela Mastrodonato, insegnante di lettere nonché fine e passionaria studiosa di Dante, e Alessandro Conti, pianista di levatura internazionale, è venuto fuori che la mia prospettiva sarebbe appunto, a dispetto della mia attività di insegnante e di studioso di filosofia, quella di una ricerca innanzitutto di ordine poetico. Con il tempo si impara, a voler seguire lo stesso precetto socratico del conoscere se stessi, così come lo esortava l’oracolo di Delfi, appunto a conoscere se stessi. Il fine, come dicevamo all’inizio, è quello di scoprire quale sia il buon demone che abita dentro di noi, quel demone la cui coltivazione ci rende felici. Io scrivo di politica, di filosofia, ho studiato chitarra jazz al Saint Louis e scrivo musica fino alla produzione di un CD che si trova peraltro su Spotify, ma se devo andare a circoscrivere, o meglio, a vedere in quale luogo tutto lo spirito risolve in quello che mi fa essere sopra ogni cosa felice è quello della scrittura poetica; a cui però non posso non mettere di fianco il mio insegnamento della filosofia a scuola. E, per venire sul punto preciso della domanda che mi hai fatto, la prima nota che si presenta di fronte ai ragazzi e alle ragazze del terzo anno del liceo è quella della filosofia dei presocratici ovvero di una filosofia che pure nella sua astrazione per eccellenza, quella parmenidea, si è espressa in versi. Lo dirò nel linguaggio dell’armonia musicale: la tonica della filosofia è la poesia.
Leggo l’ultima poesia dei I Canti della Polis, Il nostro tempo: “Ogni giorno di più il tempo nel cieco pasto dell’essere”. Lasciando la metrica tradizionale sembra apparire il “verso nudo” all’Ermetismo: un “verso nudo” per le tua anima e per le tante anime della polis?
Li uso spesso questi versi nudi. Qualche volta partono, non te lo celerò, da un’esigenza pratica. Devo sistemare le poesie secondo un ordine e ho il buco di una pagina ma non ho una poesia. Così in una necessità cerco una virtù. Alcune volte riesce, altre un po’ meno. Ma che altro sono la vita e la stessa poesia se non la sublimazione di una mancanza in una virtù? Il mito della nascita di Eros, dalla madre Penìa (la Mancanza) e dal padre Poros (l’Ingegno), sta lì a insegnarcelo da sempre e per sempre nel più grande capolavoro filosofico-letterario che sia mai stato scritto, il Simposio di Platone.