Quel pomeriggio di un giorno da precari
(pubblicato su “il Riformista” del 11/09/2011)
Caro direttore,
deve ancora iniziare l’anno scolastico e, potremmo dire, il cattivo giorno si vede dal mattino. Lo scorso lunedì mi sono recato come al solito, da quasi dieci anni ad oggi, nella cosiddetta scuola polo che assegna, per conto del provveditorato di Roma, le cattedre per la mia classe di concorso, quella di filosofia e storia. Le scene, sin dall’inizio, alle tre di pomeriggio, quelle di ogni anno: docenti seduti e ammassati in attesa sulle scale dal piano terra fino al primo piano; una ragazza che, in questa confusione, allattava il suo bambino mentre il padre, il nonno del bambino, le sentiva la febbre; imprecazioni di qui e di lì per lo stato di malessere generale e ripetuto sia dei docenti che del personale addetto alle convocazioni; fra una confusione di appelli di diverse classi di concorso per all’assegnazione delle destinazioni. Rabbia, sconforto, confusione e indignazione nell’attesa estenuante in una specie di girone infernale per il cui puntuale affresco scomoderemo il canto dantesco nell’antinferno: “Quivi sospiri, pianti e alti guai / risonavan per l’aere senza stelle, / […]. Diverse lingue, orribili favelle, / parole di dolore, accenti d’ira, voci alte e fioche […]”. Ma si era, appunto, solo all’antinferno. I numeri direi, più che le persone, cominciavano a entrare nella stanza della speranza contro ogni speranza e, dopo un lungo e incalzato tergiversare nella scelta della meta, uscivano chi euforico per una sorte benevola e chi affranto per una fortuna disastrosa. La sorte, al di là di ogni merito e di ogni spesa, per discutibili e costosi master a cui ognuno di noi è costretto per scalare il monte di Sisifo, la sorte, lo ripeto, unica logica in questo caos di eventi, di speranze e di voci. Dalle tre del pomeriggio, fra le malebolge, si era alle otto meno un quarto di sera ed ero ancora di fuori alla stanza di un Minosse dalla coda impazzita. In un gioco simile al mercante in fiera, in cui ognuno spera, quasi coccolandola col pensiero, che la propria destinazione più adatta rimanga fino al proprio turno, i pochi rimasti ci contavamo e ricontavamo, ormai senza più cognizione dell’aritmetica, per vedere chi avrebbe potuto scegliere che cosa; e fino a che punto sarebbe arrivata la distribuzione delle cattedre. Gli ultimi cominciavano a sperare di non essere chiamati: meglio scegliere per primi alla prossima convocazione piuttosto che dover per forza accettare gli scarti della giornata. In virtù del paradosso che l’inefficienza e il ritardo della comunicazione delle cattedre spesso riserva cattedre migliori a chi sceglie dopo rispetto a chi lo sopravanzava per titoli e per anni di insegnamento. Comunque, alle otto di sera, la fatidica chiamata: la coccolata cattedra ubicata all’interno del raccordo anulare aveva resistito e mi sembrò di riuscir “a riveder le stelle”! In questi momenti si scrive nel pieno segno dell’arbitrio la vita di tutta un’annata, la propria vita e quella della propria famiglia. Così il giorno seguente mi sono recato a prendere servizio nel liceo romano. Sennonché, una volta entrato nella segreteria amministrativa, ho dovuto prendere coscienza del fatto che le ore che mi erano state assegnate dal provveditorato non risultavano alla scuola. Dopo l’antinferno, l’inferno di chi in quel momento si sente “qual è quei che volontieri acquista, / e giugne ’l tempo che perder lo face, / che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista”; e così sono stato ributtato “là dove ’l sol tace”. Una condizione sempre più diffusa fra coloro che, nella propria vita, hanno scelto l’amore per il sapere e per la sua trasmissione.