La scuola, il gattopardo mediatico e l’endemico economicismo
Ricordo che vi fu un periodo che non passava giorno e apertura di telegiornale in cui un pitbull non sbranasse una persona. Ecco: ora per un mese non si parlerà d’altro che di studenti che picchiano i professori. Poi tutto il circo massmediatico passerà a una nuova portata da fagocitare (ed evacuare) con tanti saluti alla scuola per come essa è e dovrebbe essere e non per quello che può offrire al rotocalco gattopardesco. Quel rotocalco in cui oggi si suole parlare di tutto perché di niente si parli (e si faccia). Già ho la nausea, in quanto insegnante, a sentire la parola scuola; soprattutto da parte dei tanti opinionisti della ribalta chiusi nelle loro redazioni d’avorio che niente ne sanno e su tutto, per un mese, pretenderanno di dirci. La nausea e un certo scoramento a sentire ripetere un ingenuo mantra: da molte parti infatti si sente ripetere a ogni pie’ sospinto che per riconsegnare agli insegnanti il loro prestigio sociale bisognerebbe aumentargli gli stipendi. Cosa certamente auspicabile e sacrosanta ma indice, sulle labbra di politici e giornalisti-scrittori pseudoilluminati e più tosto melensi con la loro pelosa militanza proprof, del male dei nostri tempi: quello per cui il prestigio sociale può discendere dall’unico valore che è riconosciuto come tale ovvero quello del danaro. Lì dove il prestigio sociale degli insegnanti dovrebbe discendere innanzitutto da un valore di cui si è persa ogni traccia proprio nell’ombra che su tutto getta il denaro: il valore del sapere, della cultura e della trasmissione del sapere e della cultura. Un valore assoluto che ha in se stesso la propria misura e per se stesso dovrebbe essere riconosciuto proprio al di là di ogni quantificazione economica. Al di là di quella distorsione che oggi individua gli intellettuali (a partire da quelli presunti rinchiusi nelle loro redazioni d’avorio) per la quantità dei libri che vendono piuttosto che per la qualità dei libri che scrivono.