Introduzione a Heidegger
La filosofia dell’esistenza
1. Ricerca ontica e ricerca ontologica
Martin Heidegger nacque mel 1889, nella regione tedesca del Baden, da umile famiglia. In virtù di una borsa di studio, il giovane Heidegger potè recarsi a studiare prima a Costanza e poi a Friburgo dove nel 1909 completò gli studi liceali. Nella stessa Friburgo, Heidegger intraprese gli studi universitari: prima di ordine teologico e poi, dopo l’interruzione di tali studi, di ordine scientifico e filosofico. Brentano e Husserl furono i primi filosofi a influenzare gli studi e il pensiero giovanile di Heidegger. Questi conseguì la libera docenza nel 1915 e divenne proprio assistente di Husserl che nel 1916 si era spostato a Friburgo; seguì la conoscenza di Jaspers e i tre filosofi furono sempre di più in streto contatto di amicizia e collaborazione. Nel 1923 Heidegger passò a insegnare a Marburgo dove entrerà in contatto, in un rapporto di scambio reciproco, con il teologo Rudolf Bultmann. A Marburgo, intorno a Heidegger si costituì un circolo di allievi fra cui Karl Lowith, Hans-Georg Gadamer, Hans Jonas e Anna Arendt. Nei momenti di ritiro nella sua baita nella Foresta Nera, Heidegger scrisse il suo capolavoro filosofico, Essere e tempo, che pubblicò nel 1927. Nel 1929 Heidegger ereditò la cattedra di Husserl a Friburgo e in occasione della successione tenne la prolusione Che cos’è la metafisica?, opera che sarebbe stata pubblicata nello stesso anno. Come si vede bene è il problema della metafisica a costituire il centro della speculazione di Heidegger. Un centro ben saldo, quello dell’indagine sull’essere, al di là della differenza fra la speculazione del ‘primo Heidegger’, che si muove verso tale centro a partire dall’indagine sull’esistenza, sull’ente, e in particolare dell’esistenza dell’uomo, e la speculazione del ‘secondo Heidegger’, che si muove verso tale centro a partire dal punto di vista dell’essere stesso. E se Essere e tempo è di certo l’opera che meglio testimonia la via della ricerca metafisica del ‘primo Heidegger’, la seconda via di ricerca può essere seguita in un più articolato complesso di scritti che prende le mosse dalla conferenza dell’essenza della verità del 1930 e passa dalla prolusione Che cos’è la metafisica? e arriva dall’importantissima Lettera sull’umanismo del 1947 per continuare quindi in una prolifica produzione che arriva fino agli ultimi anni della sua vita che si chiuse nel 1976 a Friburgo.
L’essere è sempre l’essere di un ente. La totalità degli enti, secondo i suoi diversi domini, può divenire il campo di ostensione e di delimitazione di particolari ambiti di cose (ad esempio la storia, la natura, lo spazio, la vita, l’Esserci, il linguaggio) i quali possono essere tematizzati come oggetti delle corrispondenti ricerche scientifiche. […] Ma poiché ognuno di questi ambiti può esser tratto esclusivamente da un dominio dell’ente, questa indagine preliminare che istituisce i concetti fondamentali è null’altro l’interpretazione di questo ente rispetto alla costituzione fondamentale del suo essere. Un’indagine del genere deve precedere le scienze positive. […] La ricerca ontologica è certamente più originaria che la ricerca ontica delle scienze positive.
Martin Heidegger, Essere e tempo , Introduzione
2. FILOSOFIA E INTERROGAZIONE DELL’ENTE. L’ESSERCI
La ricerca ontologica ripropone così, in Heidegger, la priorità della metafisica, intesa come scienza dell’essere, sulle scienze positive. E la metafisica, come dominio della ricerca sull’essere, passa per la via della ricerca e della interrogazione del modo specifico dell’essere, vale a dire, l’ente. Non un ente qualunque, poi, ma quell’ente fra enti che è l’uomo.
Nel problema dell’essere che stiamo per elaborare, il cercato è l’essere […] Se l’essere costituisce il cercato, e se essere significa essere dell’ente, ne viene che, nel problema del essere, l’interrogato è l’ente stesso.
Ma noi diamo il nome di ente a molte cose e in senso diverso. Ente è tutto ciò di cui parliamo, ciò a cui pensiamo, ciò nei cui riguardi ci comportiamo in un modo o nell’altro; ente è anche ciò che noi siamo e come noi siamo. […] In quale ente si dovrà cogliere il senso dell’essere? Da quale ente prenderà le mosse l’aprimento dell’essere? Il punto di partenza è indifferente o un determinato ente possiede un primato per quanto concerne l’elaborazione del problema dell’essere? Qual è questo ente esemplare e in che senso possiede un primato? […] Il volgere lo sguardo, il comprendere, l’afferrare concettualmente, lo scegliere, sono comportamenti costitutivi del cercare e perciò parimenti modi di essere di un determinato ente, di quell’ente che noi stessi, i cercanti, sempre siamo.
Questo ente, che noi stessi sempre siamo e che, fra l’altro, ha quella possibilità d’essere che consiste nel porre il problema, lo designiamo con il termine Esserci [Dasein].
Martin Heidegger, Essere e tempo , Introduzione
3. IL MODO PROPRIO DELL’ESSERCI
L’Esserci, cioè quell’ente fra enti che è l’uomo, ha, proprio rispetto a tutti gli altri enti, una proprio dimensione specifica. Non è riconducibile, come gli altri enti, a un universale ma fa capo sempre alla irriducibilità della sua esistenza. E’ esistenza e irriducibile esistenza personale.
L’essenza dell’esserci consiste nella sua esistenza.
L’ente che ci siamo proposti di esaminare è quell’ente che noi stessi siamo. L’essere di quell’ente è sempre mio. […] L’esserci non è perciò da intendersi ontologicamente come un caso o un esemplare di genere dell’ente inteso come semplice-presenza. Per l’ente così inteso il suo essere è indifferente […] Il discorso rivolto all’Esserci deve, in conformità alla struttura dell’esser-sempre-mio, propria di questo ente, far ricorso costantemente al pronome personale: “io sono”, “tu sei”.
Questi due caratteri dell’Esserci, il primato dell’ “existentia” sull’ “essentia” e l’esser-sempre-mio bastano a far vedere che un’analitica di questo ente si trova innanzi un campo fenomenico del tutto particolare. Questo ente non ha e non può avere il modo di essere proprio di ciò che è semplicemente-presente dentro il mondo.
Martin Heidegger, Essere e tempo, Capitolo Primo
4. ESSERCI E CON-ESSERCI
La dimensione propria dell’Esserci, continua a specificare Heidegger, non è solo quella di essere un soggetto e non un oggetto, ma quella di essere un soggetto che si costituisce nella relazione con altri soggetti, con altri Esserci.
L’interpretazione positiva dell’Esserci finora data vieta di partire dalla datità formale dell’io se si vuole giungere a una soluzione fenomeno logicamente adeguata del problema del Chi. L’analisi dell’essere-nel-mondo ha reso chiaro che non è dato innanzitutto, e non è mai dato, un soggetto senza mondo. Allo stesso modo non è mai dato, innanzitutto, un io isolato, senza gli Altri. […] Il problema è proprio quello di rendere fenomenicamente trasparente il modo di questo con-Esserci nella quotidianità immediata e di interpretarlo in modo ontologicamente adeguato.
La sostanza dell’uomo non è lo spirito, come sintesi di anima e corpo, ma l’esistenza.
Gli Altri non sono coloro che restano dopo che io mi sono tolto. Gli Altri sono piuttosto quelli dai quali per lo più non ci si distingue e fra i quali, quindi, si è anche. […] Sul fondamento di essere nel mondo “con”, il mondo è già sempre quello che io con-divido con gli Altri. Il mondo dell’Esserci è con-mondo. L’in-essere è un con-essere con gli Altri.
Innanzitutto e per lo più l’Esserci si comprende a partire dal suo mondo e il con-esserci degli Altri è incontrato, in varie forme, a partire dall’utilizzabile intramondano. […] L’Altro si incontra nel suo con-Esserci nel mondo.
L’essere per gli Altri è ontologicamente ben diverso dall’essere per le cose semplicemente-presenti. L’Altro ha infatti il modo di essere dell’Esserci. Nell’essere con gli Altri e per gli Altri si costituisce un rapporto d’essere fra Esserci ed Esserci.
L’apertura del con-Esserci degli Altri, propria del con-essere, significa: la comprensione dell’essere dell’Esserci include la comprensione degli Altri, e ciò perché l’essere dell’Esserci è con-essere.
Martin Heidegger, Essere e tempo, Capitolo Quarto
5. LA CURA
L’Esserci si costituisce, dunque, nella relazione con gli altri Esserci; e questa relazione, nell’orizzonte della Cura, può realizzarsi in modo inautentico o in modo autentico. Heidegger parla di una Cura inautentica quando un Esserci solleva un altro Esserci dalla propria Cura mentre parla di Cura autentica quando un Esserci presta il suo rapporto verso un altro Esserci mettendo questo secondo Esserci nella condizione di risolvere in prima persona la propria Cura. Si evince da ciò che la Cura non è per ogni Esserci che la progettualità che gli è propria in quanto essere-nel-mondo.
Ma se il con-Esserci è essenzialmente costitutivo dell’essere-nel-mondo, tanto esso quanto nel commercio ambientale con l’utilizzabile intramondano che abbiamo precedentemente definito come prendersi cura, dovranno essere interpretati a partire da quel fenomeno della Cura che determina in generale l’essere dell’Esserci.
I modi positivi dell’aver cura hanno due possibilità estreme. L’aver cura può in un certo modo sollevare gli Altri dalla cura, sostituendosi loro nell’avere cura, intromettendosi al loro posto. […] In questo modo di aver cura, gli Altri possono essere trasformati in dipendenti e dominati, anche se il predominio è tacito e dissimulato. […] Opposta a questa è quella possibilità di aver cura che, anziché porsi al posto degli Altri, li presuppone nel loro poter essere esistentivo, non già per sottrarre loro la Cura, ma per inserirli autenticamente in essa. Questa forma di aver cura, che riguarda essenzialmente la cura autentica, cioè l’esistenza degli Altri e non qualcosa di cui essi si prendano cura, aiuta gli Altri a divenire consapevoli e liberi per la propria cura.
Martin Heidegger, Essere e tempo, Capitolo Quarto
6. IL LINGUAGGIO E IL DISCORSO
Se la verità dell’Esserci si invera e diventa intelligibile nel rapporto con gli altri Esserci, il linguaggio e il discorso si caratterizzano in Heidegger come note costitutive dell’Esserci. I modi dell’Esserci per cui esso si relaziona, s’invera e si comprende nel rapporto con gli altri Esserci.
Nel parlare, l’Esserci si esprime e il discorso è l’articolazione in significati della comprensione emotivamente situata dell’essere-nel-mondo. I suoi momenti costitutivi sono: il sopra-che-cosa del discorso, ciò-che-il-discorso-dice come tale, la comunicazione e il far conoscere. Questi momenti non sono proprietà empiriche del linguaggio, ma caratteri esistenziali fondati sulla costituzione dell’essere dell’Esserci e tali da rendere originariamente possibile qualcosa come il discorso. […] il fatto che sovente essi non trovino espressione verbale non è che l’indice di un tipo particolare di discorso; ma il discorso in quanto tale deve portare sempre con sé la totalità di queste strutture.
Martin Heidegger, Essere e tempo, Capitolo Quinto
7. LA DEIEZIONE
Il rapporto fra gli Esserci può realizzare o presumere di realizzare l’Esserci; l’Esserci può guadagnare se stesso a una vita autentica o cadere in una vita inautentica. La deiezione è proprio la caduta, tranquillizante ma alienante, nella dimensione inautentica della vita. Tale dimensione si concretizza nella chiacchiera, nella curiosità e nell’equivoco.
Il fenomeno della deiezione documenta un modo esistenziale dell’essere-nel-mondo.
L’Esserci cade da se stesso e in se stesso nella infondatezza e nella nullità della quotidianità inautentica.
Il moto di questa caduta verso e dentro l’infondatezza dell’essere inautentico del Si allontana costantemente la comprensione dal progetto di possibilità autentiche e la sospinge sempre più nella tranquilizzante presunzione di possedere e di raggiungere tutto. Questa costante sottrazione dell’autenticità, unita alla presunzione del suo possesso e accompagnata dallo sprofondare del Si, caratterizza il modo della deiezione come gorgo.
L’essere dell’Esserci è costituito dalla situazione emotiva, dalla comprensione e dal discorso. Il modo di essere quotidiano dell’apertura è apparso costituto dalla chiacchiera, dalla curiosità e dall’equivovo. Questi tre fenomeni rivelano, da parte loro, la natura di moto della deiezione e ne pongono in luce i caratteri essenziali: la tentazione, la tranquillizzazione, l’estraniazione e l’autoimprigionamento.
In virtù della comprensione media che il linguaggio porta con sé, il discorso comunicante, successivamente, può essere compreso anche senza che colui che ascolta si collochi nella comprensione originaria di ciò sopra di cui il discorso discorre. Più che di comprendere l’ente di cui si discorre, ci si preoccupa di ascoltare ciò-che-il-discorso-dice come tale. L’oggetto della comprensione diviene il discorso, il sopra-che-cosa lo è solo approssimativamente. Si intendono le medesime cose perché ciò che è detto è compreso da tutti nella medesima medietà. […] L’essere-stato-detto, l’enunciato, la parola, si fanno garanti dell’esattezza e della conformità alle cose del discorso o della sua comprensione. E poiché il discorso ha perso, o no ha mai raggiunto il rapporto originario con l’ente di cui si discorre, ciò che esso partecipa non è l’appropriazione originaria di questo ente, ma la diffusione e la ripetizione del discorso. Ciò-che-è-stato detto si diffonde in cerchie sempre più larghe e ne trae autorità. Le cose stanno così perché così si dice. La chiacchiera si costituisce in questa diffusione e in questa ripetizione del discorso nel quale l’incertezza iniziale in fatto di fondamento si aggrava fino a diventare infondatezza. Essa trascende il campo della semplice ripetizione verbale, per invadere quello dela scrittura sotto forma di “scrivere pur di scrivere”. […] La capacità media di comprensione del lettore non sarà mai in grado di decidere se qualcosa è stato creato e conquistato con originalità o se è frutto di semplice ripetizione. La comprensione media non sentirà mai nemmeno il bisogno di una distinzione di questo genere, visto che essa comprende già tutto. La totale infondatezza della chiacchiera non è un impedimento per la sua diffusione pubblica ma un fattore determinante. La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza nessuna appropriazione preliminare della cosa da comprendere. La chiacchiera garantisce già in partenza dal pericolo di fallire in questa appropriazione. La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime da una comprensione autentica, ma diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di incerto.
La chiacchiera, che chiude nel modo descritto, è la modalità sradicata della comprensione dell’Esserci. Essa non sopravviene all’Esserci come uno stato sopravviene a una semplice presenza; sradicata esistenzialmente, essa produce a sua volta un costante sradicamento. Il che significa ontologicamente: l’esserci che si mantiene nella chiacchiera, in quanto essere-nel-mondo, è del tutto tagliato fuori dal rapporto primario, originario e genuino del proprio essere col mondo, con il con-Esserci e con l’in-essere stesso; si mantiene in una instabilità permanente nella quale, però, si rapporta pur sempre al mondo, agli Altri e a se stesso. […] L’ovvietà e la sicurezza proprie dello stato interpretativo medio fanno sì che, sotto il loro tacito predominio, resti nascosta all’Esserci l’inquietudine dell’infondatezza in cui egli è votato a una crescente inconsistenza.
La curiosità, ormai predominante, non si prende cura di vedere per comprendere ciò che vede, per «essere-per» esso, ma si prende cura solamente di vedere. Essa cerca il nuovo esclusivamente come trampolino verso un altro nuovo. Ciò che preme a questo tipo di visione non è la comprensione o il rapporto genuino con la verità, ma unicamente le possibilità derivanti dall’abbandono al mondo. La curiosità è perciò caratterizzata da una tipica capacità di soffermarsi su ciò che si presenta. Essa rifugge dalla contemplazione serena, dominata, come invece è, dall’irrequietezza e dall’eccitazione che la spingonono verso la novità e il cambiamento. In questa agitazione permanente la curiosità cerca di continuo la propria distrazione.
L’equivoco non riguarda soltanto la disposizione e l’impiego dell’utilizzabile che si incontra nell’uso e nella fruizione, ma si è già inserito saldamente anche nella comprensione come poter-essere, nella disposizione del progetto e nella predisposizione delle possibilità dell’esserci. Non soltanto ognuno sa e discute di qualsiasi cosa gli sia capitata o gli venga incontro, ma ognuno sa già parlare con competenza di ciò che deve ancora accadere, di ciò che manca ancora, ma dovrebbe «ovviamente» essere fatto. Ognuno ha già sempre presentito e fiutato ciò che gli Altri hanno presentito e fiutato. Questo essere-sulla-traccia è il modo più subdolo in cui l’equivoco può presentare all’Esserci le sue possibilità, perché le vanifica dall’inizio.
Martin Heidegger, Essere e tempo, Capitolo Quinto
8. HEIDEGGER. ESSERE, CURA, TEMPO
L’Esserci, consapevole dei modi della vita inautentica, può, di contro, guadagnarsi a se stesso e comprendere il senso del suo essere e dello stesso essere. Su questa via Heidegger richiama una favola antica che anticipa in maniera esemplare l’autointerpretazione autentica dell’Esserci, e attraverso di essa, l’interpretazione dello stesso essere. L’Esserci è Cura e le dimensioni articolate della Cura sono le dimensioni della temporalità. L’essere è tempo.
In una favola antica troviamo al seguente autointerpretazione dell’Esserci come «Cura»:
La «Cura», mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa, ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa abbia fatto, interviene Giove. La «Cura» lo prega d’infondere lo spirit a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri. Ma quando la «Cura» pretese di imporre il proprio nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio. Mentre la cura e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome perché aveva dato ad esso una parte delproprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione: «Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, finché esso viva lo possieda la Cura. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché è fatto di humus».
L’«essere-nel-mondo» ha una struttura conforme all’essere della «Cura».
Che cos’è che rende possibile la totalità del sistema articolato delle strutture della «Cura» nell’unità dell’articolazione che risultò proprio di essa?
Ogni sperimentazione ontica dell’ente, sia essa un calcolo ambientale dell’utilizzabile o una conoscenza scientificamente positiva della semplice-presenza,si fonda in un progetto dell’ente in questione, progetto che, di volta in volta, è più o eno trasparente. Questi progetti portano in sé un «ciò-rispetto-a-cui», da cui la comprensione dell’essere trae alimento. […]
L’Esserci, rispetto alla sua esistenza, è aperto a se stesso autenticamente o inautenticamente. […] Il senso di questo essere, cioè della «Cura» esprime originariamente l’essere del poter-essere. […] Il lasciarsi pervenire a se stesso nel manteniento della possibilità caratteristica come tale è il fenomeno originario dell’ad-venire.
Ma l’assunzione dell’essere-gettato significa per l’Esserci: essere autenticamente come già sempre era. L’assunzione dell’essere-gettato è quindi possibile soltanto a patto che l’Esserci adveniente possa essere il suo più proprio «come già sempre era», cioè il suo esser-stato. Solo in quanto l’Esserci è, in generale, un io sono-stato, esso può, in uanto adveniente, prevenire a se stesso nel modo del ri-venire. E’ autenticamente adveniente solo l’Esserci autenticamente stato. L’anticipazione della possibilità estrema e più propria è il comprendente rivenire sul più proprio essere stato.. L’esserci può autenicamente essere-stato solo in quanto è advenire.
L’esser-stato scaturisce dall’avvenire in modo che in modo che l’avvenire che è stato lascia scaturire il presente da sé.
Questo fenomeno unitario dell’avvenire essente-stato e presentante lo chiamiamo temporalità. Solo in uanto determinato dalla temporalità, l’Esserci rende possibile a se stesso quell’autentico poter-essere-un-tutto […] La temporalità si rivela come il senso della Cura autentica.
Martin Heidegger, Essere e tempo, Capitolo Sesto