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Home›Res Publica›Parlare in BIOS e parlare in iOS. Ovvero dell’insostituibilità della scuola in presenza

Parlare in BIOS e parlare in iOS. Ovvero dell’insostituibilità della scuola in presenza

By admin
novembre 7, 2020
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Oggi mi trovavo a fare lezione di storia in una terza liceo. Ragazzi e ragazze che sto cominciando a conoscere e che stanno cominciando a conoscermi. L’articolazione della classe in due gruppi che si alternano con la presenza a scuola ad intervalli di un giorno mi ha messo di fronte alla necessità di utilizzare una strategia didattica particolare; ho messo da parte le mie riserve sull’utilizzo della LIM (la lavagna elettronica) perché, non essendoci metà della classe ogni giorno, ora spiego e costruisco in diretta l’ossatura concettuale del discorso su un file proiettato sulla lavagna che poi, alla fine della lezione, mando attraverso classroom anche a chi sta a casa e dunque può subito usufruire del percorso concettuale che abbiamo fatto in classe; credo che sia importante anche per chi sta in classe vedere come il docente ragioni e metta per iscritto, anche secondo un ordine grafico che ne sottintende uno logico, lo sviluppo dei concetti dentro cui si scioglie una lezione di filosofia o di storia. In questo caso era una lezione di storia. E, in questo caso, quasi alla fine della lezione, mentre scrivevo l’ultimo passaggio logico dell’argomentazione e mi apprestavo a chiuderla e a mandarla a tutti i ragazzi che stavano a casa, il computer si spegne e lascia tutti in scacco; lascia in scacco soprattutto la mia necessità di tesaurizzare la lezione e spedirla ai ragazzi a casa. Ho continuato e ho chiuso per i ragazzi e le ragazze presenti in classe. Con l’idea di rifare su un file il percorso concettuale per iscritto oggi pomeriggio e mandarlo ai ragazzi a casa. Ma è lì che mi scatta un’idea immediatamente a seguire. In questa classe c’è un nutrito gruppo di ragazzi e tre ragazze. Il mio sguardo va su ognuno di loro stando attento a non perdere nessuno e nessuna o perché sicuro di quelli che vedo che capiscono al volo e non ho bisogno di guardare o su quelli più facili alla distrazione che per altri motivi ho bisogno di tenere vigili continuamente per non perdermeli per strada fra chissà quali loro percorsi mentali ed emotivi. Poi, fra le ragazze, ci sono due casi esattamente opposti per cui la mia attenzione è richiamata in maniera strutturale; una è molto brava e la devo stimolare verso l’alto; l’altra non parla una parola di italiano e la devo tenere ‘dentro’ alternando continuamente spiegazione in italiano e spiegazione in inglese. Ma quando parlo in inglese, gli altri? Faccio i passaggi italiano inglese nonché inglese italiano molto ravvicinati perché il flusso delle parole richiami sempre l’attenzione di tutti e non solo perché la ragazza che non capisce l’italiano sia sempre lì viva dentro la classe ma perché da questa necessità anche gli studenti che mi seguono in italiano capiscano quanto stia dicendo in inglese e possano avere un ‘in più’ anche loro dalla lezione. Non bisogna perdersi nessuno e nessuna occasione didattica per nessuno. Arrivo a parlare quasi come in una di quelle canzoni di Pino Daniele in cui italiano inglese e cadenza dialettale si mescolano a formare una lingua unica; al posto del napoletano naturalmente qualche volta la mia cadenza va sul romano. Non ho mai disdegnato anche questo utilizzo linguistico, distillandolo con cura, ma per andare a mettere degli accenti per alcuni ragazzi o anche per tutta la classe lì dove questo modo comunicativo mi dava l’idea di essere germinale, di aggiungere un seme ulteriore al tutto. Insomma fra italiano, inglese e qualche accento che può capitare in slang sto andando a chiudere la mia lezione. Mi accorgo però di una cosa fondamentale: ho interloquito poco con gli occhi con la terza ragazza. Perché? La prima, quella molto brava, aveva bisogno di un ‘di più’ a rialzo; la seconda, quella che non capisce una parola in italiano, ha bisogno di un ‘di più’ che la vada a prendere e tenere su; entrambe hanno bisogno per diversi motivi di un ‘di più’; ognuna a modo proprio diventano protagoniste della lezione, si sentono al centro della mia attenzione che distribuisco nello stesso modo anche ai vari gruppi dei ragazzi. Ma qui il racconto è significativo sulle ragazze perché si esemplifica in maniera paradigmatica proprio su di loro; una brava, una disarmata già nella lingua, e l’altra? Verso la fine della lezione realizzo che sono con lei in difetto di attenzione intellettuale e soprattutto emotiva; quindi innanzitutto cerco di riequilibrare la situazione con gli sguardi mentre spiego. Poi appunto l’occasione del computer che si spegne. E’ una ragazza delicata, non introversa ma misurata; ha bisogno pure lei, mi dico, di sentirsi al centro anche sé non vivace comunicativamente come quella molto brava e soprattutto veloce nell’instaurare rapporto con chi sta parlando; né in difficoltà con chi deve seguire non appena venuta non solo con la lingua ma anche con il bagaglio concettuale ed emotivo da un altro continente. A proposito di continenti: il computer ci ha lasciato tutti alla deriva; non avrei bisogno ma lì chiedo: “avete preso gli appunti della lezione?” Qualcuno non li ha presi ma la maggior parte si. “Bene – gli dico – fatemi fare una foto della vostra pagina così ho un appunto per rifare il discorso per iscritto da mandare ai vostri compagni che stanno a casa sulla stessa scia di come lo abbiamo fatto in classe”. “Sì prof – mi dicono – io ce l’ho … io ce l’ho … io ce l’ho”. Ho l’imbarazzo della scelta. Ma in realtà la scelta da fare è una sola … andare dritto dalla ragazza delicata, media nel suo interloquire, per farle capire che ho fiducia in quello che ha fatto lei; infatti ci vado e le dico “brava, ottimo … posso fare la fotografia?”.”Certo” mi dice nella misura delicata di quella che non è un’introversione ma che allo stesso tempo non è un’espansività decisa … quasi con la ‘o’ finale di quel “certo” che non si sente. Guardo quello che ha scritto e le dico: “perfetto, è proprio come ci serviva!”; poi faccio un ulteriore passo … in quel momento ho tutto quello di cui avevo bisogno e ho risolto anche i conti emotivi della lezione; no, ancora no … se non passassi a vedere gli altri come hanno fatto gli appunti potrebbero loro sentirsi trascurati; epperò a quel punto, guardando e vedendo anche qualcosa di ancora più aderente ai passaggi della lezione e dicendo bravo o brava mi guardo bene dal fotografare … devo far capire a quella ragazza che sto scegliendo, perché passo fra tutti loro e potrei fare un’altra fotografia ma non lo faccio perché da lei ho trovato quello che cercavo. Che per me era sì l’appunto della lezione ma nei suoi confronti era quell’ ‘in più’ di attenzione che non le avevo dato perché né vivacemente dentro alla lezione come la ragazza brava né fatalmente fuori come quella che non parla una parola. Ecco: queste situazione si moltiplicano nelle esigenze di un insegnante di ora in ora, di lezione in lezione, di caso in caso, di sfumatura in sfumatura, di declinazione in declinazione. Pensate in un anno quante se ne possano dare. Pensate poi come non c’è LIM o DAD che possano innescare tutta questa dialettica intellettuale ed emotiva; come non c’è nessuna scienza della pedagogia che ti possa scrivere tutto questo in un manuale o in una monografia né lungo un corso universitario. O in realtà una scienza della pedagogia c’è … quella che si acquista frequentando la letteratura classica italiana, latina, greca, la letteratura filosofica nonché quella scientifica con lunghi anni di amore per tutto ciò perché dentro tutto ciò cresce la sensus habilitas … la sensibilità … la capacità di stare attenti e rispondere a tutto ciò che ci circonda … a chi ci circonda! Dentro tutto ciò cresce questa sensibilità e si sviluppa nella raffinatezza della stessa intelligenza … ad un patto, di tenergli fede sempre … il che per un insegnante significa amare non solo il contenuto di quello che legge durante una intera esistenza ma anche di amare quei ragazzi e quelle ragazze che ti stanno di fronte, nelle loro molteplici distinzioni e necessità, per un’intera esistenza. Questa è la scuola! Questa è l’utilità di tutti quegli studi che sembrano inutili ma sono invece i più indispensabili a perché gli esseri umani si tengano l’uno con l’altro nella sensibilità e nell’intelletto nel prendere e nel dare. Questo è quello che in ognuno di noi lascia la scuola fino al liceo; dopo, con l’università o il lavoro, si imparano le professioni … a scuola si impara l’essere presenti gli uni agli altri nella sensibilità, nell’intelletto, nel prendere e nel dare; quell’essere presenti che nessuna mirabolante invenzione tecnologica di una didattica digitale o intelligenza artificiale ci potrà mai dare. Ad un bios si parla solo con il bios … al di là della potenza di un processore e di una virtualità la più sofisticata e avanzata dell’ iOS che potrà mai essere a disposizione.

GC Roma 9 ottobre 2020

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Chi è Giuseppe Cappello

Giuseppe Cappello è nato a Roma nel 1969.

Dopo gli studi classici si è laureato in Filosofia presso l’Università di Roma «La Sapienza».
Insegna filosofia e storia al Liceo.

Ha pubblicato diverse sillogie di poesia: "Le danze dell’anima" , "Il canto del tempo", "Il gioco del cosmo", "Scuola", "Dì d’infinito" e "Vita nuova".

Autore del libro "Viaggio in Grecia" e ultimamente anche di un CD musicale dal titolo "Days of Infinity".

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