Un gioco che non basta mai
Una lettura della mia poesia Ancora ti chiedo di stare nel controluce della sensibilità letteraria di una fine critica letteraria; la mia cara amica Michela Mastrodonato.
(pubblicata sul numero 45-46 della Rivista Quadrimestrale La Perla del Molise Settembre 2018-Agosto 2019)
Della luce irradiata dagli spiriti liberi che guidano i nostri passi ci avvediamo pienamente solo quando si spegne. Prima essa si confonde tra le pieghe della vita, tra i suoi umori, i suoi clamori. E’ una luce contraddittoria, che resiste, si cimenta, complica le cose, schiude nuove prospettive, ci mette sotto gli occhi i volti sconosciuti della nostra stessa esistenza.
E’ una luce mai pacificata, mai banale quella degli spiriti liberi che nei primi anni della nostra vita si assumono l’onere di addestraci al compito di essere umani. Ci accompagnano per un tratto di strada, sopportando le nostre insofferenze (avendole premonite da lungo tempo) e poi svaniscono lasciandoci «scemi di sé», come dice dante nel XXVII del Purgatorio quando si accorge di non avere più accanto Virgilio, «dolcissimo padre».
Possiamo dirci fortunati, scampati al pericolo, se in qualche ordinario minuto prima del commiato siamo stati graziati da una conversazione, uno sguardo, una frase, una carezza in cui riconoscersi: uno negli occhi dell’altro.
Il poeta Giuseppe Cappello ha avuto questo privilegio, ha riconosciuto il padre in vita, ha reso omaggio alla sorgente della propria cognizione di «libertà e dignità»; ha goduto del «maturo riabbraccio» dopo il «conflitto». Il figlio riconosce l’enigmatico alfabeto che ha sillabato le emozioni paterne, riconosce quell’«arabo volume del sentimento»; e riconosce la diversità, il percorso unico e faticoso di un’«intelligenza figlia di un piatto di fave».
Il poeta Cappello non ha il rammarico di aver taciuto quanto era da dire prima del saluto: tutto l’omore, tutto l’onore, tutta la fatica di essere uomini. Tutto è stato adagiato in un «maturo riabbraccio».
Ma c’è un ma.
«Ma io», dice leopardianamente Giuseppe Cappello:
ma io ancora ti chiedo
nel gioco con l’amata nipote
ti chiedo di stare».
E’ questa un’invocazione poetica che egli depone alle porte del Silenzio.
E’ la richiesta di prolungare uno «stare», di indugiare «ancora» un poco su quell’esperienza, su quella condivisione ritrovata. Non c’è mancanza in questa invocazione, non c’è rammarico. Nessun rimorso: ecco l’unica vera grazia per gli umani.
C’è invece molto di più, c’è la sacralità dell’esserci insieme, ancora e ancora, nel varco delle generazioni,. Anche se è stato detto tutto quanto era da dire, anche se è stato compreso tutto quanto era da comprendere.
Perché il «gioco» di appartenersi non si esaurisce chiamandosi per nome una volta per tutte. Ma vivendo e vivendo, occhi negli occhi.Ancora, e ancora.
Ed è un gioco che non basta mai.
Michela Mastrodonato
(Docente di letteratura italiana, critica letteraria e scrittrice di numerosi saggi sui principali autori della letteratura italiana dalle origini ai giorni nostri)