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Il verbo e il suono su un dì d’infinito

By admin
maggio 8, 2019
1847
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Per festeggiare i primi 50 anni di Giuseppe Cappello, la scrittura di Stefano Cazzato e la musica di Alessandro Conti che esprimono, nel dono della parola e del suono, i cromatismi di una vita … activa!

Chi conosce bene Giuseppe sa come lui tenga tanto al privato – i suoi cari, gli affetti, le amicizie – quanto al pubblico – la scuola, la storia, la comunità, la polis come ama spesso ripetere nei suoi articoli; la polis non è per lui una parola, un’entità astratta, ma un modo di stare al mondo, l’oikos dei greci, la casa comune, il destino comune.

Basta leggere, fra le tante, la lettera pubblicata sul “Fatto quotidiano” per il 25 aprile, per capire l’autenticità e l’intensità di questa sua passione civile.

Dico questo perché non parlerò, in ordine alla sua poesia (che può essere letta nell’ampia raccolta Dì d’infinito articolata in tre libri ) della sua metrica, del suo verso, del suo stile elegante, ricercato, classico (lascio ad altri, più esperti di me, questo compito) ma di quello che è, a mio parere, il motivo dominante della sua produzione letteraria: e cioè la ricerca  di un ancoraggio tra la dimensione privata e quella pubblica, tra le piccole agorà e la grande agorà, come se dalla felicità della seconda dipendesse quella della prima. Tra le righe delle sue poesie io sento vibrare questa domanda che rivolge a sé e a tutti noi: come faccio ad essere felice io se non lo sono anche gli altri? Come faccio a essere felice se non sono anche giusto?

Ebbene questa poetica, in cui pubblico e privato convergono, come nella considerazione di un Giano bifronte, che guarda da una parte senza perdere di vista l’altra, la definirei poetica dell’attenzione, della responsabilità, della cura (proprio nel senso heideggeriano di “aver a cuore”, “farsi carico di”).

Ed è una poetica che si manifesta sia sotto forma di denuncia della vita offesa, la vita abbassata, umiliata, che rischia di non essere più vita, sia sotto forma di amore e di stupore per la vita redenta dalle sue offese, dai suoi limiti, disalienata, la vita che ritorna ad essere vita.

Vita nuova, come scrive nella silloge che segue a Dì d’infinito ed è dedicata alla nascita di Beatrice, ma – abbiamo ragione di credere – a ogni nascita, avvento, scatto, impulso dell’essere a vivere, andare avanti, rinnovarsi, vincere la morte, la resistenza, l’inerzia, la passività, a liberarsi dalle strettoie, dalle opacità.

Qual è allora il discrimine tra l’una e l’altra? Perché l’una si converta nell’altra? Quali sono le condizioni del riscatto? Bellezza, intelligenza, carità, dice un verso (e cioè sensibilità, pietà, condivisione, cognizione del dolore altrui, speranza per il domani, amore per l’arte, per la natura, per la propria donna, la propria figlia). Ecco il discrimine.

Ma se vogliamo cercare questo discrimine in qualcosa di ancora più filosofico (del resto non si può negare che l’elemento filosofico entri in quello poetico) allora della triade bellezza, intelligenza, carità dobbiamo soffermarci soprattutto sul termine intelligenza.

Penso infatti che si possa applicare alla poesia di Giuseppe il motto socratico “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”, a condizione che non  prendiamo questo motto in modo snob, elitario, aristocratico, accademico, come se introducesse un confine tra intellettuali e non, tra professionisti della parola e non.

Non si tratta evidentemente di questo. Una vita senza ricerca è una vita irriflessa, senza pensiero, senza domande, ideali, valori, una vita che si lascia vivere, che si consegna allo scetticismo, al nichilismo, alla demagogia, che butta via i talenti della ragione o che li subordina all’animalità.

Quando l’uomo smette di pensare non è più uomo, diceva Hannah Arendt in Vita activa riconoscendo – proprio come Socrate – nell’attività del pensiero lo specifico della condizione umana.

Una vita senza pensiero è una vita senza concetto.  Del resto, hegelianamente, il concetto per Giuseppe non è un’astrazione, ma il farsi, il costruirsi, faticoso, concreto, del senso attraverso il discorso che è parola, ascolto, dialogo, contraddizione, dibattito, interlocuzione  aspra, se occorre. Non c’è niente di più concreto del concetto: ciò che concresce, cresce insieme, nella dialettica, nel confronto.

Caro direttore è in questo senso un esempio della tenacia con cui si è ritagliato un posto nel dibattito nazionale attraverso una via del tutto inconsueta, postmoderna, sagace, che è quella delle lettera al giornale. Altro che lettere, i suoi sono veri e propri editoriali!

Tornando alla poesia, devo dire che sia a una prima lettura che a una seconda (quella fatta in occasione di questo compleanno) mi ha sorpreso quante volte e in quanti contesti appaia la parola “concetto” nelle composizioni di Giuseppe.

Se volessimo fare un’analisi linguistica (alla Austin o alla Wittgenstein) potremmo esaminare una per una le volte in cui il concetto è di casa nelle sue poesie. Quante volte occorre e con che senso, con che sfumature, che significati, che varietà semantica.

Ecco “l’eco luminosa dei discorsi”;  “la parola che ci divide ma che unisce”; “il parlare per la via” che ricorda le passeggiate filosofiche di Socrate e dei suoi interlocutori attraverso i luoghi di Atene (a cui ha dedicato il suo libro Viaggio in Grecia); “il concetto che rapisce i cuori”; “il concetto che si distende”; “la mano del concetto”; “il capitano del concetto”; “i concetti condivisi”; “la geometria organica del concetto”; la necessità di “scendere nel concetto”; “il rito dell’astrazione” amaro, faticoso, sciropposo ma necessario; “la physis con il logos”, non contro il logos; “il monastero del concetto”. E non a che fare col concetto anche la strada “fra i cipressi che da Mileto a Tubinga”?

Per non parlare poi di quando Giuseppe introduce l’espressione di “ostetrico”, che gli si addice perfettamente, perché chi ha la fortuna di leggere i suoi scritti o di essergli amico e interloquire con lui, deve riconoscere che egli fa partorire in noi pensieri, riflessioni, domande, curiosità. Perché  la funzione del concetto non è quella di giudicare ma di capire, di invitare al dialogo. Esso stesso è frutto di un conflitto che si ricompone, di una tensione provvidenziale tra il senso e il non senso, tra la vita nuova e la disperazione. Così l’anima bella ritrova se stessa.

Stefano Cazzato

Nell’ambito dell’incontro Giuseppe Cappello ha letto alcune delle sue poesie sulle musiche di Philip Glass scelte e interpretate dal Maestro Alessandro Conti

 

Immagine in copertina di Biagio Cappello, Il geonauta, Olio su tela

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Chi è Giuseppe Cappello

Giuseppe Cappello è nato a Roma nel 1969.

Dopo gli studi classici si è laureato in Filosofia presso l’Università di Roma «La Sapienza».
Insegna filosofia e storia al Liceo.

Ha pubblicato diverse sillogie di poesia: "Le danze dell’anima" , "Il canto del tempo", "Il gioco del cosmo", "Scuola", "Dì d’infinito" e "Vita nuova".

Autore del libro "Viaggio in Grecia" e ultimamente anche di un CD musicale dal titolo "Days of Infinity".

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