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Atene. La scuola del mondo fra uomini e dei

By admin
dicembre 29, 2017
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Quando si giunge ai piedi dell’acropoli di Atene lo sguardo si innalza lì dove l’uomo ha inscritto nel cielo degli dèi la sua firma in cui ha rubato loro il fuoco dell’eterno. Le geometrie dei pentelici marmi di Fidia sfidano l’opera di un demiurgo celeste nell’etere terso dell’Attica. E il pellegrino non può che lasciare che i suoi piedi si affrettino sulla via del suo sguardo. A risalire.

Attraverso l’antica porta micenea si entra nelle mura che cingevano la città al tempo di Egeo. Ci si incammina quindi per la salita, come l’antico re doveva risalire ogni giorno l’altura di Capo Sunio a scorgere l’orizzonte per intravedere nella ierogamia del mare con il cielo l’amplesso da cui doveva rinascere il suo figlio Teseo. Questi era partito alla volta di Creta. Doveva andare a uccidere quel Minotauro a cui gli Ateniesi dovevano sacrificare ogni anno sette fanciulli e sette fanciulle. Il rito della supremazia dell’isola e del suo re Minosse sulle genti dell’Ellade peninsulare. Teseo solcò il mare con le vele nere del lutto fino che approdò a Cnosso. Lì vi incontrò Arianna. La principessa figlia del re Minosse. La fanciulla, attraversata dallo strale di Eros, donò a Teseo un gomitolo di filo. Più ardua della lotta con il Minotauro doveva essere per Teseo infatti l’entrata nella sua dimora e soprattutto l’uscita. L’entrata e la riuscita dal labirinto. Il giovane ateniese entrò fra i suoi dedali sgomitolando il filo. Raggiunse il Minotauro e lo uccise. Qui il dono più prezioso di Arianna. Riavvolgendo il filo riuscì a recuperare l’uscita del labirinto. Fu di nuovo di fronte alla figlia di Minosse. Anche con lui fu Eros. I due amanti tornarono per l’azzurro mare di una nuova Grecia libera. Ma le nere vele del lutto si innalzavano sulla nave. Non aveva ricordato, Teseo, la promessa al suo vecchio padre. Innalzare sull’albero della nave, qualora non fosse stato lui ad essere stato ucciso, le bianche vele della nuova Grecia. Libera e pura dal sangue della gioventù ateniese. In un giorno delle sue risalite sull’altura di Capo Sunio, Egeo scorse riavvicinarsi alla sua terra le nere vele del lutto. Tutto era perduto. Il figlio, la libertà. Si gettò dall’altura nel precipizio del mare che da lui prese appunto il nome di Egeo.

Così noi, ridestando la mente dalla fiaba, abbiamo guadagnato l’altura dell’Acropoli e attraverso i propilei che ne cingono la vetta entriamo con lo sguardo lì dove la mano di Fidia ha scolpito la fiaba della libertà. Di fronte il Partenone. Ci rapisce in un respiro tolto a se stesso. La vista non sa dove risolvere a cominciare il vedere. Si innalza lungo le otto colonne che gli si fanno incontro. In lungo per le diciassette colonne con cui guadagna l’ultimo marmo. Proprio l’antico scultore senza tempo prende per mano il pellegrino di ogni tempo e lascia che il suo sguardo riprenda il respiro in un numero aureo. Dietro le otto colonne di fronte, le diciassette si dispongono per lungo in quella proporzione che il matematico medievale Fibonacci dovette indicare appunto come aurea. Risolto nell’armonia della pianta il nostro sguardo si alza attraverso gli steli dorici delle colonne. Quindi fino sopra alle metope in cui scorrono i fotogrammi della storia della lotta con cui l’uomo antico ci ha consegnato per sempre la libertà nella natura e nella storia.

Nelle metope che scorrono sulle colonne del lato d’ingresso (quello ad est) del Partenone, il genio di Fidia ha scolpito l’Amazzonomachia; la lotta dell’uomo greco contro le Amazzoni. Antiche guerriere persiane che si recidevano il seno per combattere alla pari degli uomini. Dal mito fino alla storia la libertà greca dovette fare i conti con le genti d’Oriente per venire in possesso di se stessa. Una libertà che gli discese dalla forza ma soprattutto dall’intelligenza. Così proprio sopra le metope del lato d’ingresso del Partenone il frutto più alto del genio ellenico. Fra uomini e dei. Scultura e mitologia. E’ la scena del frontone che accoglie nel tempio il pellegrino di ogni tempo. La mano di Fidia vi ha scolpito le sculture della nascita di Atena dalla testa di Zeus. Dalla mente del signore degli dei la sua figlia che per gli uomini fu la dea dell’intelligenza. La dea di quell’intelligenza da cui nelle più alte pagine della filosofia di Socrate procede ogni virtù dell’uomo. Si legge sulle labbra di Socrate quanto Platone scrive nel Fedone: «O caro Simmia, sta bene attento che l’unica moneta autentica, quella con la quale si devono scambiare tutte queste cose non sia piuttosto il sapere, e che solo ciò che si compra e si vende a prezzo di sapere e col sapere sia veramente coraggio, temperanza e giustizia e che, insomma, la virtù sia solo quella accompagnata dal sapere». Sono parole che Socrate rivolge a un giovane tebano ma in cui la filosofia fa il calco alla mitologia e all’arte greca per parlare a ogni giovane che voglia crescere e vivere appunto sotto il segno di una dea.

Rapiti dagli dei e dagli uomini ci si lascia condurre in questo trionfo di meraviglia estetica e intellettuale, intellettuale attraverso l’estetica o estetica attraverso l’intelligenza, girando intorno con il tempo che passa. In senso orario ci si sposta sul lato sud del Partenone. Qui sugli steli delle colonne fioriscono nelle metope le scene della Centauromachia. Ancora, scolpita nel segno della misura estetica, la cifra della cultura greca di una vita condotta nel segno della misura morale. Invitati ad una festa dal popolo dei Lapiti, i Centauri, nature mitologiche per metà uomo e metà cavallo, si ubriacarono e, tra l’ebbrezza del vino, si abbandonarono alla violenza sulle donne di chi li aveva ospitati. Lo stesso ateniese Teseo viene raffigurato in soccorso ai Lapiti nella battaglia con cui essi sconfissero e si vendicarono dei Centauri.

Nel trionfo dell’estetica fra arte e natura, girando le spalle a questo lato del Partenone, la vista si perde fra le acque del mare su cui Atene si adagia col suo porto del Pireo e quindi si ritira sull’Acropoli cadendo sui marmi dell’Eretteo con le splendide statue delle Cariatidi. Le sei fanciulle che, come avrebbe voluto Michelangelo per i suoi Prigioni, si liberano completamente dalla materia dando il loro corpo e il loro volto alle colonne che sorreggono uno dei tetti dell’edificio. Era l’Eretteo peraltro la tomba dei primi re di Atene. Il re Eretteo, da cui l’edificio prende il nome, e di Cecrope, il primo re di Atene. In origine la città di Atene fu dunque governata nel segno della monarchia.

Sennonché il luogo dell’Eretteo è anche il luogo dove proprio i primi Ateniesi collocarono la disputa fra Poseidone, il dio del mare, e Atena, la dea dell’intelligenza, per contendersi gli onori della città. Poseidone, narra il mito, scagliò in questo luogo il suo tridente e fece zampillare una sorgente d’acqua. Un dono prezioso per gli Ateniesi. Che ritennero però ancora più prezioso il dono di Atena che in questo luogo fece sbocciare un ulivo. Gli usi dell’olio, da quello alimentare a quello medico a quello della cosmetica, facevano della pianta di ulivo uno dei frutti più pregiati sull’intero suolo ellenico. Così gli abitanti della neonata città consacrarono appunto la loro nuova città ad Atena e la chiamarono Atene. Oggi, nel luogo richiamato dal mito, sorge, in suo ricordo, un ulivo fatto piantare dalla moderna regina Sofia agli inizi del secolo scorso.

E la scena mitologica della contesa fra Poseidone e Atena la troviamo ad incamminare i nostri passi nel segno dello scorrere dei minuti. Muovendosi in senso orario si raggiunge il lato ovest del Partenone in cui sugli steli delle colonne doriche si innalza il frontone che raffigura proprio la disputa fra il dio e la dea per la consacrazione della città. Al di sotto del frontone scorrono le metope della Gigantomachia; un’altra guerra che vide impegnati addirittura gli dei dell’Olimpo a fronteggiare l’assalto di nature di uomini dalle dimensioni e dalla forza sproporzionate. Questa guerra si concluse con la vittoria degli dei grazie all’intervento di Eracle. Questi, figlio del dio Zeus e della umana Alcmena, sconfisse i Giganti che vennero uccisi e quindi sepolti nelle profondità della terra. Dai loro sussulti i Greci immaginavano provenissero i terremoti.

Completando il giro intorno al Partenone sugli steli delle colonne si levano le metope che sul lato nord raffigurano gli episodi della guerra di Troia. Con la celebrazione della forza dei popoli greci ma ancora di più dell’intelligenza multiforme di Ulisse. Proprio l’uomo più caro alla dea Atena, dea dell’intelligenza.

Il Partenone è in fondo, come ora possiamo comprendere, un inno dell’intelligenza a se stessa. Un intelligenza che nelle mani di un uomo divino, Fidia, prese l’aspetto di una dea dalle sembianze umane, Atena.

Una dea dalle sembianze umane, Athena Parthenos, di cui Fidia scolpì quella che fu una delle statue più belle e imponenti dell’antichità. La statua crisoelefantina, di oro e d’avorio, che si trovava nella cella, il luogo più sacro del tempio.

Giusto un affaccio dal lato nord dell’acropoli per lasciare cadere lo sguardo su quello, che alle pendici dell’acropoli, era il teatro di Atene. Il teatro di Dioniso. Qui vi venivano rappresentate le commedie e le tragedie dei più grandi letterati ateniesi: le commedie di Aristofane e le tragedie di Eschilo, Sofocle e Euripide. E’ un affaccio importante questo sul teatro sia per la bellezza della costruzione che per ricordare il ruolo fondamentale che le rappresentazioni teatrali avevano nella costruzione dei valori e dell’ideologia della città. Nei tempi della democrazia, di cui gli Ateniesi conoscevano bene la sua ancella vitale, l’educazione del popolo, i cittadini venivano financo pagati per andare a teatro.

Ed ecco che per riscendere dalla città degli dei e dei re, l’acropoli, alla città che diede i natali alla democrazia, l’agorà, dobbiamo lasciarci la porta dell’acropoli alle spalle, attraversare di nuovo i grandi propilei, e gettare lo sguardo sulle pendici sud-est dell’altura. Si vedono dall’alto l’Areopago, la collina di Marte, e poi la grande Agora, la piazza. Una meraviglia fra l’archeologia degli edifici più importanti della città e una botanica che sempre verde e rigogliosa è il simbolo di come fra quegli edifici rinascano a ogni tempo i frutti senza tempo della cultura greca. Quella Grecia di cui Pericle, il più grande politico che Atene abbia avuto, indica appunto in Atene il suo esempio più alto di educazione. Un termine quest’ultimo che, nel greco dello storico Tucidide, sulle labbra di Pericle aveva il nome di paideia. La formazione completa della gioventù ateniese. Una formazione fra ginnastica e poesia, musica e filosofia, arte e politica; con il fine della costituzione di una città di cui Pericle dipinge il volto storico, in quello che è il suo più celebre discorso, fra le stesse vette in cui Fidia aveva scolpito, proprio su impulso di Pericle, il volto estetico.

Ecco la scultura dell’anima di Atene nelle parole del più grande politico ateniese così come le riporta Tucidide il più grande storico della città: «Il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: per questo è detto una democrazia. Le leggi assicurano una giustizia uguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo i meriti dell’eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri chiamato a servire lo Stato, non come un atto di privilegio, ma come una ricompensa al merito, e in questo la povertà non costituisce un impedimento […] La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo il nostro prossimo se preferisce vivere a modo suo […]. Ma questa libertà non ci rende anarchici. Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati e le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa. E ci è stato anche insegnato che dobbiamo di rispettare quelle leggi non scritte la cui sanzione risiede sotto l’universale sentimento di ciò che è giusto […[ La nostra città è aperta al mondo; noi non cacciamo mai uno straniero […]. Noi amiamo la bellezza senza indulgere tuttavia a fantasticherie e benché cerchiamo di migliorare il nostro intelletto non ne risulta tuttavia indebolita la nostra volontà […] Riconoscere la propria povertà non è una disgrazia presso di noi; ma riteniamo deplorevole non fare alcuno sforzo per evitarla. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private […] e un uomo che non si interessa allo Stato non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e, benché soltanto pochi siano in grado di dar vita di dar vita a una politica, noi siamo tutti in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla strada dell’azione politica, ma come indispensabile premessa ad agire saggiamente […]. Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà e la libertà il frutto del valore e non ci tiriamo indietro di fronte ai pericoli di guerra […]. Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la prontezza a fronteggiare le situazioni e la fiducia in se stesso».

Su queste parole sacre per ogni uomo che abbia a cuore la vita sociale degli uomini riscendiamo per la Via Sacra della città che fu la scuola dell’Ellade e, attraverso l’Ellade intera, fino a noi ancora oggi si mostra come la scuola del genere umano.

Riscendiamo la Via Sacra e incontriamo l’Areopago ovvero la collina dedicata al dio Ares. Non siamo solo noi a scendere ma anche il potere, così come lentamente ad Atene discese da uno solo (monarchia), a un gruppo ristretto di famiglie (aristocrazia) fino poi ai più (democrazia). Questa collina infatti era il luogo dove si riunivano i nove arconti che durante il periodo oligarchico governavano Atene. Gli arconti erano i rappresentanti delle famiglie, i ghene, più importanti di Atene. Ed essi appunto legiferavano sulla città nel periodo dell’oligarchia. Uno dei nove arconti veniva indicato come arconte eponimo ovvero arconte che ad Atene dava il nome all’anno e così, grazie ai documenti storici, possiamo ricostruire che il governo oligarchico regolò la vita ateniese dal dal 683 a.C al 507 a.C (anno della riforma democratica di Clistene).

Sennonché l’Areopago, oltre ad essere un passaggio importante per le caratterizzazioni di carattere politico, ha ancora due note su cui è bene che il pellegrino indugi nella sua vista fra lo sguardo naturale e quello della cultura. Il poeta tragico Eschilo vi colloca infatti un momento cruciale della sua trilogia dell’Orestea. Narra questa opera del ritorno di Agamennone a Micene dopo i dieci anni della guerra di Troia. Qui egli, a differenza dell’attesa che riserverà Penelope a Ulisse, venne ucciso dalla sua sposa, Clitennestra, con il suo amante Egisto. Il figlio di Agamennone, legato al padre come Telemaco ad Ulisse, vendicò allora il padre uccidendo a sua volta la madre Clitennestra ed Egisto. Ma per questo fu perseguitato da alcune divinità figlie della Terra e della Notte, le Erinni, personificatrici della vendetta femminile nei confronti di chi si macchia di colpe nei confronti della famiglia. La persecuzione delle Erinni seguì Oreste fino a che fra esse e Oreste, di fronte a Zeus e Atena, non si celebrò un processo di riconciliazione proprio nell’Areopago di Atene. Oreste fu assolto e  liberato dalla persecuzioni delle Erinni e queste, a loro volta, assumendo l’appellativo di Eumenidi le benevole) furono accolte all’interno della città di Atene proprio fra le rocce dell’Areopago. La vicenda mitica, come sempre nella cultura greca, spiega nei termini della fiaba, un tratto storico determinante nell’evoluzione dello spirito greco; in questo caso quello di una più accentuata partecipazione della donna all’interno delle vicende della società ateniese.

E, a prima vista, avvicinandosi all’Aereopago, si nota ciò di cui qui ora parliamo per ultimo apprestandoci a congedarci da esso per scendere decisamente verso l’Agorà. Si tratta di una stele che riporta la predicazione che Paolo di Tarso proclamò proprio all’Areopago intorno al 50 d.C. Paolo prese spunto, per questa predicazione, proprio da un’iscrizione che consacrava un’ara ateniese ‘a un dio ignoto’. E di qui costruì quel discorso che sarà destinato a scandire la vita dell’incontro fra Atene e Gerusalemme, fra la filosofia e la teologia, in quel processo di razionalizzazione della fede cristiana, operato dai Padri della Chiesa, che prende il nome di ‘ellenizzazione del cristianesimo’. Un cristianesimo che vede nella filosofia greca (in particolare di Socrate, Platone e Aristotele), come dirà il primo fra i grandi Padri della Chiesa, Giustino, quei semi di verità che si sarebbero schiusi proprio nel pieno frutto del messaggio cristiano. I semi platonici della realtà ultima dell’uomo nell’anima e nella risoluzione di questa e dell’intera realtà in un’essenza spirituale. Ma leggiamolo un passo di questa stele con la predicazione di Paolo che è incastonata nell’Areopago: «Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dei. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è signore del cielo e della terra, non dimora in tempi costruiti dalle mani dell’ uomo, né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: Poiché di lui stirpe noi siamo. Essendo noi dunque stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione umana. Dopo essere passato sopra ai tempi dell’ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi, poiché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti» .

Scendiamo ora decisamente, sempre per il cammino della Via Sacra e attraverso un suo bel boschetto, verso l’Agorà. Scende con noi, in questo suo cammino dall’alto verso il basso, il modo di intendere il potere e più in generale la vita associata degli uomini, ad Atene. Ed è così che sullo sfondo dell’agorà vediamo il tempio di Efesto. Qui cominciò a riunirsi il Consiglio dei Cinquecento, il supremo organo politico, quando la città passò dal regime aristocratico alla democrazia con la grande riforma operata da Clistene.

Di solito per democrazia si intende il ‘potere del popolo’ ma in verità l’etimologia e la stessa politologia originaria hanno un riferimento più specifico. Come abbiamo visto, in origine Atene era governata dai re; quindi il potere si allargò a una cerchia di famiglie nobili, i ghene, che lo esercitavano in maniera aristocratica attraverso l’istituto dell’arcontato. Fu quindi nel 507 a.C che si giunse alla democrazia, il potere del popolo, ovvero ritornando proprio all’etimologia greca del termine ‘popolo’ (da cui poi plebs fino a people) il potere dei più (polloi). Ma appunto bisogna specificare. In realtà la demo-kratia nacque come vocabolo e istituzione politica a designare il potere dei demi cioè dei quartieri. Clistene riordinò la fisionomia politica della città togliendo il potere dalle mani delle famiglie nobiliari e assegnandolo ai demi, ai quartieri, dove in realtà risiedevano cittadini di diversa estrazione sociale. Atene fu divisa in dieci quartieri e a ognuno di questi quartieri fu assegnato il diritto di eleggere Cinquanta suoi rappresentanti. Più o meno nobili. Questi Cinquanta rappresentanti per ognuno dei dieci quartieri si riunivano dunque nel Consiglio dei Cinquecento. Il supremo organismo della discussione e della votazione delle leggi che in greco si chiamava boulè (la cui etimologia è riconducibile al verbo bouleuein  che in italiano può essere tradotto con il verbo ‘deliberare’). Alla boulè si fronteggiarono subito, vista la composizione mista dei suoi membri, un partito conservatore e un partito democratico; il primo espressione dei ceti nobiliari, il secondo dei ceti popolari. E in questa dialettica politica fu amministrata la città. Sottratta dal dominio della forza militare dei re, di quella economica dei ricchi e consegnata a chi meglio sapeva argomentare tramite la parola. Vi è un termine che in greco significa ragione e al tempo stesso parola ed è il termine logos. Ecco, attraverso l’istituto della democrazia, Atene divenne la città della parola e della ragione. Un parola e una ragione che presto, nell’esercizio quotidiano su ogni aspetto della vita pubblica, si fecero una vera e propria filosofia. La filosofia di quell’uomo che si poteva incontrare, proprio a gironzolare come noi che vi siamo ormai scesi, fra le strade, il ginnasio, la boulè, e il tribunale dell’agorà di Atene. La filosofia insomma di Socrate. La filosofia. Che cos’è è questa infatti se non il fare ciò che faceva Socrate e che egli stesso ci dice facesse attraverso la testimonianza di Platone? Scrive il discepolo a far dire al maestro: « io vado intorno facendo nient’altro se non cercare di persuadere voi, e più giovani e più vecchi, che non dei corpi dovete prendervi cura, né delle ricchezze né di alcun’altra cosa prima e con maggiore impegno che dell’anima in modo che diventi buona il più possibile, sostenendo che la virtù non nasce dalle ricchezze, ma che dalla virtù stessa nascono le ricchezze e tutti gli altri beni per gli uomini, e in privato e in pubblico». Ma cosa significò per Socrate la cura dell’anima. Fare quello che i cittadini facevano al tempo della lezione sepiterna di Atene. Il dialogo. Il chiedere e dare ragione in serrati agoni dialettici su tutto ciò che può interessarci in qualità di ‘animali politici’ e specularmente di ‘animali razionali’ fra arte e religione, politica e cosmologia, così come fece appunto Socrate nella sua vita; scrisse Platone nei suoi mirabili dialoghi; e soprattutto è inciso per sempre nel genoma umano da quando i Greci fecero la loro comparsa fra storia e natura. La natura e la storia che si respirano ancora oggi su e giù per la Via Sacra di Atene … fra l’Acropoli e l’Agorà.

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Chi è Giuseppe Cappello

Giuseppe Cappello è nato a Roma nel 1969.

Dopo gli studi classici si è laureato in Filosofia presso l’Università di Roma «La Sapienza».
Insegna filosofia e storia al Liceo.

Ha pubblicato diverse sillogie di poesia: "Le danze dell’anima" , "Il canto del tempo", "Il gioco del cosmo", "Scuola", "Dì d’infinito" e "Vita nuova".

Autore del libro "Viaggio in Grecia" e ultimamente anche di un CD musicale dal titolo "Days of Infinity".

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