Boris Johnson e il soffio di Anassimene
Forse non è noto a tutti come Boris Johnson abbia studiato Antichità Classiche all’Università di Oxford; che abbia rilasciato un’intervista in cui ha sostenuto che lo studio del latino «è un inizio eccellente per comprendere la struttura della lingua» e si sia di conseguenza battuto per reintrodurre lo studio dei classici nella convinzione che quella conoscenza non possa essere «limitata soltanto a chi ha avuto il privilegio di un’educazione privata»; forse è ancora meno noto come egli sia l’autore di un libro dal titolo Il sogno di Roma. La lezione dell’antichità per capire l’Europa di oggi.
Probabilmente nel torpore e soprattutto nelle apnee della terapia intensiva dove ora egli si trova potrebbe essergli venuto il pensiero del frammento di Anassimene, uno dei primi tre filosofi della storia del pensiero occidentale, che recita esattamente così: «Come l’anima nostra, che è aria, ci sostiene, così il soffio e l’aria sostengono il mondo intero».
Noi a Boris Johnson, la cui politica abbiamo avversato in ogni pensiero fino alla malaugurata realizzazione della Brexit, auguriamo di rimettersi. Rimettersi nel fisico e soprattutto nell’animo. Perché questo augurio, individuato in Johnson uno dei rappresentanti per eccellenza dell’uomo contemporaneo, possa essere l’augurio di rimettersi, nel fisico e soprattutto nell’animo, allo stesso uomo contemporaneo.
Un uomo contemporaneo, ci insegna in maniera emblematica la storia che stiamo vivendo, che è l’uomo che pure consapevole di essere un’anima che respira all’interno di un cosmo che respira, ha pensato di poter togliere il respiro all’anima del mondo senza toglierlo a se stesso; di mettersi in privato, accecato dalla sua convinzione sociologica, anche nella sua dimensione biologica. Sennonché qui, pure il più potente che pensava addirittura di mettersi in privato prima sociologicamente con la Brexit e poi di fronte alla pandemia della biologia, ha trovato una potenza, quella della natura, che gli ha dato un altolà e lo sta rimettendo alla prova sia sulle convinzioni sociologiche come, ancora più in fondo, su quelle biologiche.
Lo sta, ci auguriamo, riportando alla consapevolezza perduta, della lezione dei classici, che l’uomo non si può mettere in privato né sulla via dell’economia né su quella dell’ecologia. Che abbattere a colpi di mannaia lo stato sociale e insuperbire fino a pensare di poter manipolare addirittura lo stato naturale è il più grande atto di tracontanza che Eschilo aveva stigmatizzato proprio nell’uomo più potente del suo tempo; che, nella sua tragedia de I Persiani, aveva stigmatizzato nel tentativo di Serse di abbattere la democrazia greca e, soprattutto, di pensare di poterlo fare immaginando che la sua tecnica potesse essere addirittura una tecnica con cui strumentalizzare ai propri fini la natura.
Aveva immaginato, Serse, di costruire un ponte di navi dove la natura si era costituita in un tratto di mare; e aveva immaginato che attraverso questa forzatura della physis avrebbe potuto forzare anche la democrazia della polis. Cosa che non gli riuscì. Perché i Greci, che avevano nella metriotes, la misura a dispetto della tracotanza, il paradigma della loro cultura, lo sconfissero a Salamina nel 480 a.C.
In uno degli insuperbimenti di un’antropocene ante litteram, il Re del più grande Impero del V secolo a.C si era consegnanto così alla sconfitta. La sua stessa madre, ne I Persiani di Eschilo, aveva visto in questo atto di hybris, di somma tracotanza, la causa di ogni male che il figlio aveva recato e a se stesso e al suo stesso popolo. Si legge nelle parole che l’antico Re Dario rivolge venendo in sonno alla moglie sul compimento del destino del figlio: «Come presto degli oracoli giunse, ahimè!, l’esito! / Il dio il successo dei responsi suscitò sul figliuol mio! / Io speravo che i Celesti ne tardassero l’evento; / ma se tu premi, lo stesso nume affretta il compimento. / Ecco, un fonte di malanni sugli amici ora s’è aperto: il figliuol mio lo dischiuse, baldanzoso ed inesperto, / che pensò dell’Ellesponto come un servo il sacro fiume / porre in vincoli, e del Bosforo le fluenti sacre al nume; / e stringendo ferrei ceppi sopra il tramite marino, / lo mutò, sí che all’esercito grande aprisse ampio cammino. Ei mortale, soverchiare s’avvisò – stolto consiglio! – tutti i numi, e fin Posídone».
Questo è quello che accade quando anche la più potente delle particula naturale pensa di potersi sollevare all’altezza di quel deus sive natura che è la realtà e mettere addirittura le mani su di essa. Che in verità solo su di se, e malamente, le mette.
Così come nel sogno della regina Atossa venne in sogno Dario a spiegare le sorti del loro figlio Serse, vi è da augurarsi che nei sonni della terapia intensiva di Boris Johnson giunga la reminiscenza dei suoi studi classici; a ricordare appunto, sia a lui sia a tutto il genere umano, quali sono le condizioni a cui ritornare sia nella ricostruzione del nostro stato sociale fino alla ricostruzione del nostro stato naturale. A ricordare come i Greci insegnano che, nell’economia e nell’ecologia, la prima parola di questi due termini composti sia appunto quella di oikia che, nella loro lingua, significa casa; e soprattutto a ricordare, nel segno della metriotes, che di queste due case dobbiamo ritrovare e, per l’una, il nomos e, per l’altra, il logos.
Il futuro, se non vorremmo cedere al pandemonio di questa pandemia che oggi ci affligge, passa per una augurabile rinascita delle consapevolezze dell’economia e dell’ecologia; un augurabile rinascita di consapevolezza che sola può essere il viatico di una rigenerazione del nomos, la legge della nostra casa sociale, e del logos, ovvero il principio ultimo della nostra stessa casa naturale; fino alla riconciliazione dell’«anima nostra che è aria» con «quel soffio e quell’aria che il mondo intero sostengono».