Il dono dell’eterno nel ritmo della vita degli uomini
La domenica mattina, quando ero ancora un piccolo fanciullo, mio padre mi prendeva per mano e attraversavamo la città alla volta di una mostra, di un monumento o di un sito storico-archeologico.
In realtà già il sole, attraverso un cielo d’azzurro terso, in una rifrangenza continua tra physis e techne, inondava le geometrie millenarie da cui riluceva ogni secolo che l’uomo abbia attraversato fra architettura, scultura e pittura; ogni tanto si aggiungeva un suo amico, Piero, e le voci narranti fra il bello ed il buono dell’arte potevano divenire due. Parlavano fra di loro, quando c’era pure Piero, e io ascoltavo curioso ed entusiasta.
Invero, puranche fra una meraviglia e l’altra, più il sole si avvicinava al mezzogiorno e più il mio appetito si risomatizzava dalle astrazioni della geometria e del colore della Galleria d’Arte Moderna alle pulsazioni dello stomaco verso un sempre più incalzante e agognato pranzo.
Le rotaie della circolare mi aspettavano con i loro complici argentei riflessi giù per le scale di Valle Giulia. Ed è per quella via che risalivo attraverso la Città fra un consumato pasto dello spirito e le «prepotenti ragioni del corpo». Un esercizio, questo fra il nutrimento del corpo e quello dell’anima, dentro cui si è andato poi costituendo in maniera sempre più consapevole il battito di una vita che diventava via via più consona a se stessa nel sapere del «ritmo che domina gli uomini».
Un ritmo mai abbandonato e coltivato fra la filosofia e l’arte, la musica e la ginnastica. Un ritmo che però può avere anche i suoi autunni; finanche i suoi inverni. Individuali e collettivi.
Ed è lì, in quegli autunni-inverni che un dono sopito, può riemergere in tutta la grazia della sua potenza; in tutta la potenza della sua grazia.
Con il mio amico Vito, così come mio padre con Piero, ci siamo dati infatti, in questa prima domenica d’aprile di rinascente primavera, appuntamento fuori dal portone del liceo Tasso. L’incontro, nemmeno a dirlo, è avvenuto, in una fortuita necessità, nei parcheggi di fronte al nostro liceo scientifico Augusto Righi dove ogni mattina ci attendiamo l’un l’altro. E con un mezzo giro di isolato abbiamo raggiunto la nostra scuola gemella sul versante delle humanae litterae. Che di gemellaggio si tratta in realtà fra il numero e la lettera a dispetto di quello sguardo che li vorrebbe oggi sempre più uno a dispetto dell’altro.
Pochi passi e abbiamo raggiunto il portone del Tasso; poi le scale, come per gli antichi gradini di Valle Giulia, a raggiungere, questa volta, una neonata Galleria d’Arte Antica; dalla fortuita necessità di un incontro nel sito archeologico di Pompei fra gli studenti con i docenti del Tasso e un alto dirigente del Ministero dei Beni Culturali è nata infatti l’idea di costruire un’esposizione dei reperti delle nostre antichità greche e romane recuperate dal Comando dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale. (TPC).
È questo quanto ci hanno cominciato a dire le due studentesse del Liceo a cui è toccato di prenderci per mano, stavolta loro fanciulle e noi più avanti nell’età, nella rifrangenza caleidoscopica iuniores-seniores.
«Il tempo è un fanciullo – si legge dalla mano di Eraclito – che gioca spostando i dadi». E quale migliore sorte di ritornare sull’edra dell’antico fanciullo per riascoltare financo la voce di un genitore che ci guidava forte e sapiente per le vie della Città Eterna fin dagli dalla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso?
«Sogno di un‘ombra è l’uomo. Ma se un bagliore giunge, disceso dal cielo, allora splendida luce gli uomini investe, e dolce diviene la vita». È quanto scrive Pindaro all’VIII Pitica e quanto può capitare nel riascoltare quanto si è coltivato sul seme originario donato da un genitore del secolo scorso nelle voci di una fanciulla del nuovo secolo.
I millenni cominciano a giocare fra di loro ed eccoci, io, il mio amico Vito e una signora che ha prenotato anche lei la visita nel primo turno domenicale a questa Galleria Nazionale d’Arte Antica che è diventata l’Aula Magna del Liceo Classico Torquato Tasso di Roma, eccoci, dicevano al cospetto degli dèi.
L’esposizione si apre infatti con due busti (recuperati, fra le opere trafugate, dai Carabinieri del nucleo TPC) di una dea e un eroe dell’Olimpo; sono i due splendidi busti di Afrodite e di Eracle. Le fanciulle che ci guidano cominciano a spiegarci la tessitura eidetica dentro cui gli studenti e i loro docenti hanno costruito la mostra. Sotto i busti di Afrodite e di Eracle, così come di ogni prezioso manufatto testimone d’un tempo senza tempo, si è pensato di individuare un passo della letteratura greca che gli dia la parola.
“Perché non parli?” … vuole la leggenda che Michelangelo abbia detto al suo Mosè scagliandogli il martello sul ginocchio. Ma qui non c’è biazesthai (il fare violenza), non c’è nemmeno l’impeto tormentato del genio fiorentino; c’è invece la potente grazia delle nostre due korai, le fanciulle fra Ginnasio e Liceo, che ci accompagnano e danno la parola – nel segno della più alta poesia greca – a quanto sapientemente è stato scolpito nella pietra.
E, proprio sotto il busto di Eracle, prende la parola Pindaro e attraverso il ritmo di una didascalia scolpita ormai a memoria fra la mente e il cuore, ci dice: «Sogno di un‘ombra è l’uomo. Ma se un bagliore giunge, disceso dal cielo, allora splendida luce gli uomini investe, e dolce diviene la vita». Le ragazze non lasciano solo il poeta e ci dicono perché il gruppo di studenti e di studentesse che ha lavorato con i suoi docenti alla mostra ha liberato la fervida fantasia dei giovani nell’associare questa statua a questi versi.
Comincia il loro gioco. Il gioco tutto loro in cui hanno individuato i passi della letteratura che hanno studiato e hanno poi associati a statue, anfore, anelli, coppe e calici di un’età che evidentemente ci parla ancora. Ci parla nel pathos della giovinezza e nel logos dentro cui quella giovinezza può essere evidentemente ancora nutrita. In una libagione dentro cui appunto le emozioni si strutturino e riescano ad esprimersi in modo da non lasciare i nostri ragazzi nell’implosione e nell’esplosione di gesti e azioni distruttive che conosciamo dalle sempre più dolenti cronache quotidiane.
La mostra mette a tema, fra un lascito e l’altro dell’età antica, fra lo scolpito e la parola, proprio una tetractys di parole che verbalizzano quanto ognuno di noi dovrebbe spiegarsi per vivere una vita quanto più serena se non addirittura possibilmente felice. Fra le opere infatti si è pensato di lasciare che i passi della letteratura ci dicano di UOMO / CORAGGIO / AMORE / DIO.
È un percorso che, ci spiegano le ragazze, scambiandosi sapientemente la parola l’una con l’altra, conduce dalle forme di arte più elementare fino a quella più elevata. Ci fanno infatti notare la semplice geometrizzazione dei primi reperti fra anfore e coppe e via via mettono l’accento su come si vada complicando il disegno; di come si vadano articolando i colori; di come la figura umana emerga in un eidos che dona alla materia una tessitura sempre più antropomorfa; ci parlano, ‘nella mente che non erra’, dentro gli eschilei versi de I sette contro Tebe; versi che sono posti sotto un disegno che raffigura il combattimento fra due guerrieri in cui hanno visto con la loro immaginazione, attivo elan vital invece che fruizione passiva delle immagini dei social, Eteocle e Polinice; e subito un rimando alla nascita della antigonea lotta per la nascita dell’individualità nella collettività. La mente va a quelle leggi «che non da oggi, non da ieri vivono, ma eterne: quelle che nessuno sa quando comparvero».
L’eterno … è quanto può accadere quando ci si adoperi perché i giovani parlino con gli antichi; e gli antichi con i giovani. Nel ritmo della vita degli uomini «un bagliore giunge, disceso dal cielo, e allora splendida luce gli uomini investe, e dolce diviene la vita».
Certamente lo è stata questa mattinata al seguito delle nostre due vestali di quel ‘dio sconosciuto’ che un’ara nell’agora di Atene celebrava forse a ricordare che una primavera può nuovamente giungere puranche quando si creda che ognuno degli dei noti è morto fra gli autunni e gli inverni degli individui così come delle società.
Giuseppe Cappello