Ricordo del Professor Francesco Valentini
Verso la metà del mio percorso universitario mi trovavo a frequentare un corso sul primo libro della Metafisica di Aristotele tenuto dal Professor Gabriele Giannantoni con cui mi sarei un paio di anni più avanti laureato. Era uso, fra noi studenti, registrare le lezioni dei professori per poi trascriverle e studiare direttamente su quegli appunti che divenivano preziosi passepartout per aprire i passaggi più serrati, e con essi i concetti più importanti, delle opere dei filosofi. Così, le cattedre delle lezioni più affollate si riempivano, durante le spiegazioni, di una miriade di piccoli registratori attraverso cui una famelica sete giovanile cercava di non lasciare niente della sapienza dei grandi maestri che all’inizio degli anni Novanta ancora abbondavano sulle cattedre della facoltà di filosofia de «La Sapienza». E proprio alla fine di una delle lezioni del Professor Giannantoni, dopo essermi trattenuto a dibattere, come in un antico ginnasio, con un piccolo gruppo di amici, notai che qualcuno aveva dimenticato il suo piccolo registratore sulla cattedra e non lo veniva a riprendere. Aspettai un po’ mentre gli altri, ancora immersi nella discussione, si incamminavano verso il giardino di Villa Mirafiori per poi sciogliere i ranghi e ricostituirli in una nuova formazione intorno a una nuova lezione; sennonché nessuno veniva a ritirare il piccolo registratore e così mi avvicinai ad esso per prendere tempo e decidere sul da farsi. Il verso della cassetta che aveva registrato la lezione appena passata aveva finito la sua corsa e, nell’attesa che qualcuno venisse a riprendere il prezioso oggetto, girai il nastro per ascoltare quale lezione vi fosse incisa sul lato opposto. Pensavo a una precedente lezione sulla Metafisica e invece vi trovai una voce che finora non conoscevo e che incalzava un passo della Fenomenologia dello spirito di Hegel con un’abilità teoretica che mi rapì da subito; mi rapì da subito a tal punto che non potei fare a meno di cominciare a prendere in considerazione sempre di più, man mano che la lettura e la spiegazione andavano avanti e che il proprietario di un tale bene sembrava essersi dileguato nel nulla, di prendere il registratore. Fu così. Quella voce, che entrava in maniera così disinvolta, abile e chiarificatrice nell’ostico sottotraccia hegeliano, mi aveva rapito a tal punto che mi spinse a rapire la cassetta e lo stesso registratore. Più avanti, nel tempo, la stessa voce, per spiegare la quintessenza della dialettica hegeliana avrebbe richiamato, durante una delle sue lezioni, la locuzione latina «summum ius, summa iniuria»; intanto la decisione era presa, la decisione di portare via con me il registratore con la cassetta: una scelta che, sul far del crepuscolo del mio percorso universitario, avrei letto, sotto il segno della nottola di Minerva, nello stesso modo con cui avevo invertito il senso della cassetta per ascoltarne il lato A; sotto il segno del risvolto della locuzione con cui avrei sempre ricordato quel furto: «summa iniuria, summum ius». Insomma, nel segno della dialettica fra giustizia e ingiustizia, feci la conoscenza del Professor Valentini; non rimaneva molto tempo alla fine dell’anno accademico ma riuscii a sapere che quella voce che mi aveva rapito era la sua e presi subito notizie su dove tenesse lezione. Bisognava ora aspettare l’inizio del nuovo anno accademico e, certo, alla prima lezione, il primo banco dell’aula XII sarebbe stato il mio. Così fu. Il professore entrò in aula e, senza tanti preamboli, già a seguire lo spirito hegeliano di entrare direttamente nella cosa perché sia essa, in maniera deittica, a parlare di sé, prese a leggere le pagine iniziali della Scienza della logica; dico meglio, la pagina iniziale. Sì, perché, disposti i suoi strumenti di lavoro sull’ampia cattedra, iniziava un certosino e vibrante andare alla ‘lettera del testo’ con cui il Professore guidava i presenti oltre ogni possibile resistenza della scrittura hegeliana; fino al suo senso ultimo; un senso ultimo che prendeva spesso coloritura nel puntuale richiamo dei nodi che incrociavano quel concetto nell’intero arco della filosofia hegeliana e, ancora più a monte, nell’intero arco della storia della filosofia. È con questa abilità rara a risolvere il particolare nell’universale e a ritornare attraverso di esso al particolare che nello stesso procedere della lezione del Professore si dischiudeva proprio uno dei capisaldi della filosofia hegeliana secondo cui «il vero è l’intero». In virtù delle pagine lette, che alla fine dell’anno accademico non sarebbero state più di settanta, per le vie delle discese verticali nei singoli concetti e dell’orizzontale rimando continuo di concetto in concetto, chiunque avesse frequentato le lezioni del Professor Valentini si impadroniva della capacità di muoversi attraverso l’intera opera hegeliana e, senza esagerazioni, attraverso i momenti concettuali più significativi dell’intero svolgimento della storia della filosofia. La tela che il Professore aveva costruita in un anno era una sorta di ‘reticolo logico’ in cui ogni ganglio era spiegato con la stessa ricognizione ai passi e ai concetti più importanti della storia della filosofia (ma anche della letteratura e della storia); in questo senso il Professor Valentini era profondamente hegeliano: filosofia e storia della filosofia, nelle sue lezioni, erano lette in controluce l’una nell’altra. Come in controluce, l’una nell’altra, si trasfiguravano, nel Professore, la dimensione teoretica dello studioso e quella pratica dell’uomo. Non scorderò mai, in ordine alla sua conduzione dei rapporti umani, un episodio eloquente. Un giorno entrò in aula e non aprì, come al solito, la sua borsa per distendere sul tavolo testi e commentari che egli, tra l’altro, riportava dal tedesco, dall’inglese e dal francese; ci disse subito che era in sciopero; al che noi rimanemmo sorpresi; era in sciopero ma era lì al suo posto. Si spiegò subito. Non aveva avuto il tempo per comunicarci della sua adesione allo sciopero dei professori ordinari e dunque non riteneva giusto che noi, fra cui molti, oltretutto, venivano da fuori, potessimo essere venuti a lezione senza che qualcuno ci spiegasse almeno perché la lezione non si sarebbe tenuta. E in un mirabile esercizio della sintesi coniugò la sua adesione allo sciopero e la possibilità di non perdere nemmeno un’ora di quei simposi a cui ognuno di noi rifocillava e rinnovava la sua sete filosofica e il suo entusiasmo intellettuale: ci disse che non avrebbe tenuto la lezione istituzionale del corso ma che ciò non impediva il fatto di poter discutere di un altro argomento intorno a cui potevano essere interessati gli studiosi di «cose hegeliane». Ci propose di rimanere per trattare e discutere il tema della concezione hegeliana della politica; non c’è bisogno di dire che rimanemmo tutti. Perché intorno al grande studioso e all’uomo esemplare si era costituita una polis che, per dirla con Tucidide, sempre nel segno del famoso rivolto iniziale di cassette e locuzioni, «nel nome era il regno del primo cittadino, di fatto però era una democrazia». Una vera e propria repubblica della ragione teoretica e della ragione pratica di cui ognuno che ne è stato cittadino porta un ricordo indelebile scritto con l’indelebile inchiostro dell’orgoglio filosofico.