When The Angels Fall
Oggi, sabato 9 novembre 2024, prendendo visione dei prezzi dei biglietti del prossimo concerto di Sting, mi sono risolto a pubblicare questo lungo racconto che scrissi nell’estate del 2023 e che ho tenuto finora nel cassetto. Non si può pensare di far pagare il biglietto di un concerto rock 250 euro! Negli angoli ‘a visibilità limitata’, come dice la mappa della Cavea (il Caveau!) dell’Auditorium, si scende fino al prezzo più ‘basso’ di 180 euro. Ανάγκη στέναι! Lì dove gli angeli cadono, per quanto dura e faticosa, bisogna saper prendere la strada del congedo. Buona lettura a chi vorrà e buon week end a tutti!
WHEN THE ANGEL FALLS
Non ho molta voglia di scrivere ultimamente. Già avevo cominciato e ho richiuso più volte il file. In questa mezz’ora abbondante che mi separa dal pranzo, evento che in questo tempo di silenzio e operosità ridotta, scandisce le mie giornate, insieme alla cena, proverò a dire. Dire dello scorso venerdì.
Contrariato e indolente, sull’abbrivio di un antico entusiasmo, mi sono lasciato persuadere da Federica ad andare sulle tracce di Sting per lasciargli il mio libro Dai Greci ai Police. Per darglielo di persona. Non posso infatti più contare sulla signora B. che aveva finora riempito lo spazio fra me e lui. È andata in pensione ed è dall’estate dello scorso anno che non la sento. Ma soprattutto sta andando in pensione il mio entusiasmo.
Mi sono chiesto più volte, ultimamente, se questo rapporto con Sting non sia stato altro che un’idealizzazione alienante. Che non abbia investito, nella costruzione lucente dell’idolo, altro che il mio entusiasmo per la vita e per l’arte. Che tanto più proiettavo in lui tanto più toglievo a me stesso.
Fino ad arrivare a un discorso più ampio di ordine storico, culturale ed economico.
Un discorso con riflessioni sulla subalternità, a fronte di una millenaria superiorità culturale italiana e mediterranea, al mondo anglosassone e sulla esponenziale edificazione del muro che la ricchezza costituisce sempre di più fra i nuovi sommersi e i nuovi salvati. Fra cui appunto l’idolatria si costituisce come unico modo di relazione possibile.
Ed è fra le briciole che rimangono dell’idolatria che mi sono lasciato trascinare e mi sono trascinato verso l’Hotel Hassler di Roma. Un Hotel di extralusso a Trinità dei Monti. Fra questi passi intanto una riflessione: in fondo questa non è la mia città più di quanto non sia la città di Sting. Cerco un parcheggio improbabile prima della ZTL di via Sistina e il pensiero si fa sempre più acuto sul concetto di come la cittadinanza non sia dettata dalla nascita e dalla vita che una persona abbia speso in un certo angolo di mondo. In un tempo antico il centro del mondo.
Cittadinanza è denaro.
In fondo, mentre la città, fra una ZTL e l’altra, diventa per me sempre più inaccessibile, in questo momento Sting potrebbe essere sulla terrazza dell’Hotel Hassler a gustarsi dall’alto la sua Roma. Così come sue sono Londra, New York, Parigi. Tokio, Buenos Aires, Melbourne e Atene. Si, la mia Atene! Così pure come ogni angolo del mondo in cui ormai l’unico diritto ad abitarvi e ad arrivarci sembra lo ius pecuniae. Mi trascino, comunque.
Entro all’Hotel Hassler e quasi mi sembra una gentilezza non dovuta che mi trattino con educazione. Che non mi chiedano la prenotazione alla porta. Sono io a chiedere allora se il signor Gordon Sumner alberga lì perché gli dovrei lasciare un libro. Mentre tengo il pacchetto, alla reception, un signore moto gentile controlla sul computer fra i nominativi che sono registrati nelle presenze. Lo fa con solerzia.
Mi fermo. Una volta scrivevo di getto e fino a che non avevo terminato non mi alzavo. Piano. Il pranzo ha avuto ora una ragione più forte. Peraltro il piatto di oggi si infila fra queste righe per dire: in questo grano mediterraneo abbiamo anche noi poveri la nostra parte di ricchezza. Noi esiliati la nostra parte di cittadinanza. Riesco allora da queste mura amiche della mia sala da pranzo e ritorno fra il caldo torrido della città.
L’uomo della reception è molto gentile. Sfoglia su e giù le pagine del computer ma il signor Gordon Sumner, mi informa, non c’è. Non è lì. Penso: meglio così, andiamocene a casa. Più ci si avvicina al proprio idolo e più si acuisce il senso della lontananza. Si comprende la reale disappartenenza dell’uno all’altro.
Ma Federica insiste. Proprio lei che non ha di queste fantasie fanciullesche. In fondo, Beatrice, nostra figlia, è a Oxford, e possiamo concederci più tempo. Può concedere lei più tempo a questo gioco. Wile E Coyote alla caccia di Beep Beep.
A proposito di Oxford! Non è ormai un tempo breve quello in cui penso alla sudditanza culturale che noi, i mediterranei, abbiamo maturato verso gli angloatlantici. Insieme a qualche ansia paterna, superata, devo dire, con capacità insperate, questo viaggio in Inghilterra di Beatrice mi ha certamente contrariato.
Penso: ti pare che una bambina di dodici anni debba andare in Inghilterra e questo, conseguentemente, debba peraltro mettere in discussione la possibilità del viaggio nella Grecia classica che avevamo programmato per questa estate?
L’Inghilterra invece che la Grecia.
Il principio di unità di questo lungo viaggio in un gruppo scolastico piuttosto che nella famiglia. Peraltro le due cose si tengono insieme. È la gioventù d’oltremanica e d’oltreoceano che sta insegnando ai nostri figli un adagio sempre più precoce: mamma e papà bye bye!
Sono già provato dalla colonizzazione della scuola nordeuropea sulla nostra scuola. Duramente provato. E ora il destino, lo spirito del mondo bussa pure fino dentro alla porta di casa. Entra e dice: non c’è bisogno che tu vada ad Atene, l’archeologia sta nei tuoi pensieri. E allora, piano piano, comincio a maturare e metabolizzare l’idea che non siamo tanto noi a guidare i nostri figli dall’alto del nostro passato. Sono piuttosto loro ad aprirci la porta del futuro e a trascinarci dentro la vita che si rinnova. La storia che si rinnova. Insomma devo adoperarmi in maniera ingegnosa e, come dice Gabriele, poetica, per accettare l’idea di Oxford. Un po’ mi aiuta il pensare che in fondo Beatrice, se proprio questo viaggio in Inghilterra s’ha da fare, vada a Oxford. La casa del francescanesimo filosofico. Il luogo dell’insegnamento di un filosofo che adoro. Gugliemo da Ockham ci mette la pezza della consolatio philosophiae. E intanto però ho la piena consapevolezza che questi ragazzi che vanno in Inghilterra per le cosidette vacanze studio ci trovano più la vacanza che lo studio. La vacanza dello studio.
Non mi fermo a parlare del quarto anno del liceo in cui molti studenti partono per il cosiddetto anno all’estero. Sono loro i primi a dire, quando tornano, che lì, Inghilterra o Stati Uniti che siano, non si studia. Non si studia per come lo studio lo intendiamo noi. Il pensiero, la parola, l’astrazione … questi sconosciuti. Magari la mattina a seguire qualche slide che sfila lungo le aule supertecnologiche … insomma, cartoni animati 2.0. Pardon! 4.0!
Ma, a proposito di cartoni animati, ritorniamo a Wile E Coyote e Beep Beep. Dov’è Sting allora? Federica incalza: «Passiamo all’Auditorium! Magari già stanno facendo le prove». Le dico che è troppo presto. Ma lei, che di solito pensa alle cose serie, questa volta ha in animo di giocare. E – mi trascino – andiamo!
Una volta avrei scritto tutto di getto. Ma ora mi fermo. C’è tempo e, alle due e un quarto, meglio non bruciare la liturgia del sonno pomeridiano. Magari poi, questo racconto non lo scrivo fino in fondo e intanto ci rimetto la siesta!
Questi sono progressi. Una volta non avrei dormito. Il demone della scrittura, quando sei nel letto, ti fa girare e rigirare. E nel braccio di ferro fra indolenza e scrittura vince sempre la scrittura. Ti alzi, pure alle tre di notte, e scrivi tutto quello che devi buttare sul foglio. Fino a che non finisci. Sono invece quasi le cinque del pomeriggio e il sonno non è stata una fatica necessaria. La testa si è lasciata andare, pure fra qualche ultimo vagheggiamento su come avrei potuto continuare, e mi sono addormentato. Mi sveglio e rileggo gli ultimi capoversi di quanto ho scritto. Siamo dunque all’Auditorium.
In lontananza già si vede che il TIR tutto nero che trasporta gli strumenti è lì pargheggiato. Chissà se ci fanno entrare nella Cavea. Ci avviciniamo e, con mio grande stupore, è tutto aperto. La gente può passeggiare fra la libreria, il viale d’ingresso e il bar interno. Si può entrare anche nei locali del piano terra. C’è solo una piccola transenna che prolunga il backstage del palco e timidamete sta lì a dirti che non dovresti andare oltre. È più una timida parola che un vero buttafuori quella transenna. Si vede il palco con i roadies che sono già al lavoro per sistemare tutta la strumentazione. In particolare si vede il roadie del basso di Sting che sta lucidando con una pezzetta lo strumento. Gli inglesi lavorano e scherzano fra di loro. Ci sono, insieme a noi, due ragazzi che sono venuti da Napoli. Guardano pure loro queste operazioni di lavoro sul basso di Sting. Io intanto penso che la cosa migliore, a questo punto, sia quella di dare il libro al roadie di Sting perché sia lui poi a consegnarglielo. Glielo dico in inglese: «Ti posso lasciare questo per Sting?». Lui mi guarda senza diffidenza. Io mi sento però di aggiungere: «È un libro, puoi controllare». Lui non ha alcun problema e si prende la busta con il libro dentro. Lo mette proprio sul tavolo dove stava lavorando al basso di Sting. Con quest’uomo è scattata subito una simpatia. Quella delle relazioni normali che si istituiscono fra cortesia e gentilezza. Sono certo che il libro è finito nelle mani giuste. Sono sicuro che glielo darà. Lo saluto, batto il pugno sul cuore per consacrare quel momento di immediata simpatia, e dico a Federica che ora possiamo ritornare a casa. La missione è compiuta. L’idea della mia relazione con Sting è ormai quella di due persone che scrivono, ognuna con la sua arte, e dovrebbero potersi incontrare su questo terreno. Non voglio stare lì più di un minuto a fare il fan. La ragazza napoletana è invece in visibilio. Il fidanzato mi spiega tutto come a far vedere che lui la sa lunga. È il modo in cui ogni fan pensa di essere lui il più vicino all’idolo. Io me ne voglio solo andare. La ragazza, vista la benevolenza del roadie, si avvicina e gli chiede a che ora faranno le prove, il soundcheck. Vuole sapere, insomma, quando verrà Sting. e quell’uomo gentile le dice che il soundcheck è per le quattro.
È un mezzogiorno romano di fuoco e io sono già con la testa a casa. Dico a Federica che ora possiamo andare. Lei pensa sì ad andare ma anche a ritornare alle quattro. A me non va. In fondo la posta è consegnata e non ho il vecchio piglio che in un paio di occasioni mi ha fatto scambiare una decina di minuti di chiacchiere con Sting. Nel libro ci ho messo i miei recapiti. Gli ho messo anche dei segnalibri fucsia lì dove, nel mio Dai Greci ai Police, cadono le pagine di racconti, poesie e altri scritti tradotti in inglese e che riguardano in qualche modo più direttamente ciò che può interessarlo. Fai quel che devi – mi dico ormai con Kant – accada quel che può. Tu scrivi, io scrivo. Il nostro rapporto, se ce ne è effettivamente uno, lo penso nei termini del carteggio. In fondo, da un certo momento in poi, grazie all’intermediazione della signora B., così è andata. Ora ti sono venuto a portare il libro, se hai voglia, interesse, possibilità, mi rispondi. Altrimenti, amen! Devo difendere la mia consapevolezza. E, con essa, la consapevolezza che scrivere con una certa discreta penna in italiano è cosa molto più ricca di un canzone rock. La tua fortuna è quella di essere nato fra quello che resta dell’Impero britannico e, soprattutto, di parlare la stessa lingua degli statunitensi. Cosa che ti garantisce, come individuo, una posizione di centralità all’interno di questo nostro mondo atlantico.
Non penso, con Heidegger, che l’essere parli in greco e in tedesco. L’essere parla in tutte le lingue (e forse in questo periodo di chiacchiera generalizzata è il silenzio la sua espressione d’elezione) ma, se ne dovesse scegliere una, fra l’italiano e l’inglese, certamente sceglierebbe l’italiano. Se non altro perché così è stato. Prima lo ha fatto con il greco di Omero e il latino di Virgilio. Poi ha scelto Dante per parlare. Nel frattempo, se non ci fosse andato Giulio Cesare, fra la Gallia, la Britannia e la Germania, avrebbero continuato a farsi le pitture sul viso. Certe volte, con Beatrice, che ormai è in pieno entusiasmo fra Londra e New York, scherzo e le dico: «A Bi … ma non c’hanno nemmeno il congiuntivo!». Scherzo, ma, alla fine, in cuor mio, non troppo. In cuor mio insomma c’è ormai di andarmene a casa e di tornare per la sera a vedere il concerto. Senza poi troppo cuore.
Questa volta sono contrastato. Ma cosa devo venire a fare? Per prendere i biglietti ha insistito Federica e io ora sono anche mortificato dal fatto che Stewart Copeland suoni la stessa sera a Perugia. I biglietti per Sting li abbiamo presi a dicembre scorso e quelli di Copeland, che andrei a vedere molto più volentieri, sono usciti in primavera inoltrata. Copeland lo andrei a vedere molto più volentieri perché fa uno spettacolo nuovo. I Police arrangiati per orchestra. Ho sentito il disco ed è molto bello. Sono ingolosito. Sting gira con i suoi successi che adoro. Sono però inappetente alla cosa. Ho visto crescere nel tempo, su queste canzoni, una montagna di denaro, a cui io stesso ho contribuito, che ha solo finito per tirare su un invalicabilis finis fra me e il suo autore. Ragiono su Marx. Lì dove l’alienazione dell’uomo si costituisce proprio sul fatto che quanto più egli mette del proprio lavoro in un oggetto tanto più questo diventa indirettamente proporzionale alla sua possibilità di entrare poi in relazione con quell’oggetto. Il Muro di Berlino è caduto. Ma un muro più aspro e forte si innalza sempre maggiore fra gli uomini, il muro della ricchezza. È un muro invisibile che oggi ci obbliga a viaggiare di meno, a riposarci di meno, ad essere meno gli uni con gli altri, i genitori con i figli. Non c’è bisogno di andare avanti. È sotto gli occhi di tutti; anche se non tutti lo vedono questo muro invisibile. Non per questo, però, non ce lo hanno nelle carni. Nelle loro irriducibili insoddisfazioni esistenziali. Lo combattono, quelli che se lo possono permettere, con la psicoterapia. Ovvero il paradosso del rimedio privatistico a una società malata di privatismo. Che poi non è un paradosso. Perché una società dell’ipertrofia del privatismo economico non può che generare una sovrastruttura del privatismo culturale.
Ritorniamo a casa.
Si, con Federica ritorniamo a casa. Fra una cosa e l’altra si fanno le due. Provo a distendermi sul letto ma il caldo è asfissiante. Non riesco ad addormentarmi. Mi rialzo e mi prendo un gelato. Chiacchieriamo con Federica. Fra una cosa e l’altra sono le tre e un quarto. In fondo, lascia intendere lei, cosa ci costa riandare lì alle quattro. Che cosa dobbiamo fare? Abitiamo a un quarto d’ora dall’Auditorium. Oggi proprio non molla. Mi nascono dentro due sentimenti. In realtà uno è già bello grande ed è quello di non andare; l’altro, più piccolo ma anche più insidioso, è quello per cui so che quando Federica insiste su Sting, lei che ne è totalmente distaccata, poi qualcosa capita sempre. È come se i due avessero una loro irriducibile sincronicità nel laico disinteresse reciproco. Che proprio in questo disinteresse si compiano i loro incontri. Mi lascio persuadere da questo vagheggiamento e andiamo.
Ritroviamo quei due ragazzi napoletani e un altro paio di persone. In fondo non c’è nessuno. Ci sediamo nella biglietteria dell’Auditorium. C’è lì una porta che affaccia sul corridoio che porta dai camerini al palco. La porta è aperta. Gli artisti passano di lì. A questo punto mi metto sulla porta. Federica e i ragazzi napoletani sono un po’ più indietro. Poco più indietro. Ma tanto vale la pena allora, penso, stare qui sulla porta e intercettare Sting quando passerà. Sono lì. In un momento, non so perché, abbandono la mia altana, mi giro, e vado verso Federica. Non faccio due passi che vedo Federica che s’illumina in volto e saluta sorridente: «Sting!». Mi giro giusto in tempo per vedere il sorriso di Sting a Federica. Beep Beep me ne ha tirata un’altra delle sue. Sgattaiola veloce verso il palco sotto cui le timide transenne della mattina diventano le più fiere rappresentanti del macismo di un buttafuori d’acciaio. In natura nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma. Il mio amore ventennale per Sting è tutto lì; nell’anima macista che ora assumono quelle transenne lì dove passa l’idolo. Faccio in tempo a vederlo. La ragazza napoletana impazzisce perché è riuscita a fare una foto a Sting mentre salutava Federica. Che pure lei è contenta così. I due, l’ho detto, vivono nella sincronicità di una sano disinteresse reciproco. Quasi una complicità astrale. L’armonia prestabilita delle famose monadi leibniziane senza finestre le une alle altre. Io comunque ho fatto in tempo a girarmi e, seppure velocemente, l’ho visto. Ma questo a me non interessa. A me interessa la parola. Non c’è tempo. Sting è scattato sul palco perché, ci dicono, deve provare un pezzo insieme a Giordana Angi. E ora, mi chiedo, chi sia questa Cristiana Angi!
Intanto capisco che è meglio ritornarsene a casa.
Ma alla fine siamo lì e lo faccio: scrivo un biglietto con le mie credenziali presso l’antica manager di Sting nella sua Tenuta toscana del Palagio e vado verso l’ingresso del backstage. L’inglese che lo piantona non vuole saperne nemmeno di leggerlo. Un muro! Un altro paio di tentativi ai fianchi del backstage. Ma è la nemesi – Sting è nato proprio a Wallsend – del Vallo di Adriano. C’è un muro impermeabile che non consente ai romani di scalfire minimante la fortezza degli inglesi che intanto hanno tirato su anche tutta una tela che fa da séparé pure alla vista.
Mi ritiro allora senza perdere tempo.
Sto maturando la mia indifferente asincronicità. Anche se, devo dire, la vista di Sting mi ha dato un sentimento positivo. Sensazioni positive. Per quell’attimo fuggente in cui l’ho visto passare ho trattenuto in particolare una cosa. L’idea di quando, svincolatomi dall’inautentico che sta corrodendo ogni angolo della scuola nelle persone, fra le procedure e la chiacchiera, entro in classe per quello che è la mia musica. L’ora con i ragazzi. C’è l’amore, la scioltezza, il mestiere, c’è casa. Ecco, Sting, nell’andare verso il palco, mi ha restituito quel battito: vabbè qui oggi che dobbiamo fare? La facilità dell’esistenza quando uno è nel suo luogo naturale. Lo prova peraltro un’altra bella immagine. Mentre tutti, lì sul palco, hanno a che fare con la musica, lui si mette a sistemare il paletto di una tenda che li preserva dal sole. È’ bello vederlo così.
Ci riavviamo verso casa. Una cosa però, mentre Federica si fa dare la foto di Sting che saluta (che la saluta) dalla ragazza napoletana, la faccio. Ma chi è questa Giordana Angi? Leggo testualmente: «Nel 2018 [all’età di ventiquattro anni] entra a far parte della scuola di Amici di Maria De Filippi, classificandosi al secondo posto e ottenendo il Premio della critica giornalista TIM. Durante il percorso all’interno del talent di Amici, pubblica numerosi inediti: Casa, Chiedo di non chiedere, Quante volte ad aspettarti, Questa è vita e Ti ho creduto. All’interno della scuola ha inoltre stretto amicizia e collaborato con Alberto Urso, vincitore della diciottesima edizione, scrivendo il testo del singolo Accanto a te, contenuto nel primo album del cantante». Il pensiero è immediato: da me, cresciuto alla scuola d’Atene del liceo classico, della filosofia antica, di un insegnamento ventennale, di anni e anni di scrittura sotto la benedizione dell’amatissimo professor Giorgio Bàrberi Squarotti non hanno preso nemmeno un biglietto; il pass per salire su quel palco è la scuola di Maria De Filippi. Mi cadono le braccia. Capisco la frustrazione degli intellettuali italiani, da Dante Alighieri a Giovanni Gentile, di fronte a questa serva Italia «non più signora di province ma bordello». Perché qui di bordello si tratta; di disfacimento intellettuale, morale, estetico si tratta. Il pass per salire sul palco si stacca alla scuola (al bordello) di Maria De Filippi; quelli che sono cresciuti alla scuola d’Atene e in essa sono stati insegnati e insegnati a confidare … a casa. Forse nella copertina del mio libro che ho lasciato a Sting e che raffigura lui, Stewart Copeland e Andy Summers che si incontrano con Socrate, nella trasfigurazione della scuola d’Atene di Raffello, ci avrei dovuto mettere Maria. E, si badi bene, non quella in cui «’l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura». Qui si tratta di ben altre fatture. Quelle delle case discografiche. Fra una lettura e l’altra a smanettare col cellulare e ad approfondire la figura di Giordana Angi, Giordana di Amici, scopro che la signorina ha dato financo il benservito a Maria ed è stata arruolata nell’esercito del nuovo e progressivo manager discografico di Sting, Martin Kierszenbaum. Mistero del mercato. Ce ne torniamo a casa e l’appuntamento è per la sera.
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Usciamo di casa per le otto e con una ventina di minuti scarsi siamo all’Auditorium. Il tempo di parcheggiare e intorno alle otto e mezza entriamo nella Cavea. C’è il figlio di Sting, Joe Sumner, che fa una sorta di one man show d’apertura. Imbraccia la chitarra acustica e lascia scorrere un po’ delle sue canzoni. Il pubblico lo segue e gli tributa ovazioni dentro i calori di una perifrastica attiva. Si capisce che la partita è quella a venire. La luce e il caldo non si attenuano. Joe Sumner se ne va e, alle nove in punto, entrano nella scena i musicisti di Sting con cui la musica si annuncia. I dieci colpi del batterista sul rullante spaccano la serata per l’inizio di Message in a Bottle. Entra Sting e il biondo sacerdote inossidabile comincia a officiare il suo rito. Inossidabile.
Così almeno sembra fra Message in a Bottle, Englishman in New York ed Every Little Thing She Does Is Magic.
Ho mandato un video di una quarantina di secondi a un mio caro amico che non è un fan particolare di Sting e mi risponde subito: «Che je voi di’!». In effetti … che je voi di’! I primi tre pezzi scorrono bene, come al solito. Stiamo parlando di un artista che ha settantadue anni e ha ancora il fisico di una statua greca. La forza di imbracciare il suo pesante Precision e spingere la voce verso il cielo delle costellazioni più lontane. Gli acuti si innalzano come stalagmiti e trapuntare il firmamento di un gioco mandato a memoria con i suoi scaccomatto ai pianeti.
Sennonché qualcosa comincia a incrinarsi sul quarto pezzo. È If You Love Somebody Set Them Free. La macchina va a rilento. Qualcosa non funziona. Io penso subito alla batteria di Omar Hakim che il pezzo, nella dinamica, lo ha strutturato lui nel lontano 1985. Il primo pezzo del primo album solista di Sting. Qui prende la piega di uno Sting che sembra non essere assistito al meglio nella dinamica fra batteria, basso e tastiere. Lui, al basso è sempre lo stesso, ma c’è qualcosa che non funziona. Il batterista non mi sembra all’altezza. La musica procede stancamente. Arranca.
Siamo l’alba di un concerto in tramonto.
Il colpo di grazia arriva con un brano dell’ultimo disco di Sting. La band comincia a suonare If It’s Love. Sting si muove alle solite ma If You Love Sombebody … If Is Love … si comincia a incrinare una certezza quarantennale che non aveva conosciuto finora alcun ma e alcun se, ad eccezione di quelli ricorrenti appunto nei titoli delle sue canzoni. Una certezza che è rimasta intatta fino all’ultimo concerto che ho visto a Lucca nel 2019. Lì il nerbo era un altro, il solito. La potenza dove si è costituita la gloria di Sting, fra basso, batteria e voce, subito e costantemente a pieni giri. A pieni giri la composizione. Che nelle canzoni di questo nuovo album non è quella a cui siamo stati abituati per decenni.
Inizia Loving you. È un brano insolito per Sting. La stesa è quello di un pezzo di Waters. Il concerto riprende quota dentro un la minore di grande atmosfera. La voce di Sting la trapunta dei suoi fendenti. Questo genere di pezzi di solito, nella musica di Sting, conosce un finale in evoluzione fra basso batteria e tastiere. Penso a I Burn For You.
Mi aspetto un finale in crescendo di quel tipo. Non arriva.
Comincia invece lo stoppato di un altro pezzo del nuovo album. Lo stoppato di Rushing Waters. Tutta la produzione di Sting, fra i Police e la carriera solistica, è fatta di disegni su disco che poi dal vivo si dilatano mostruosamente. Mi aspetto che questo possa accadere anche su Rushing Waters ma il pezzo rimane fermo a terra. In realtà è già su disco che il disegno non mi ha convinto da prima troppo. E, dal vivo, il pezzo resta lì. A terra.
Finalmente una svolta.
Inizia uno dei brani più belli e potenti di Sting. Ogni volta che ho dovuto testare uno stereo da comprare, così come qualsiasi qualsiasi riproduttore musicale che mi capitava per le mani, l’ho sempre fatto su questo pezzo. Un altro Se … If I Ever Lose My Faith in You. Sting è più a suo agio. E però comincio a notare che su quel You finale in cui la voce si prende di solito gli spazi celesti stavolta Sting taglia. È come se avesse messo un limite dentro in cui non deve tirare la nota fino in fondo. Ma sta scorrendo la canzone in cui so dove aspettarlo. Sull’inciso che recita testualmente così: «I could be lost inside their lies without a trace / But every time a close my eyes I see your face». Chiudo io allora gli occhi per incontrare Sting negli spazi siderali in cui la voce mi ha rapito e stregato per anni. Vado ad aspettare lì Sting perché, come Astolfo sull’Ippogrifo, si vada a riprendere il demone che finora in Orlando si è perso sulla terra fra le secche di questo concerto. Ma lì Sting non ci va. I coristi lo aiutano ma è bene che l’inciso finisca. La punta della stalagmite acuminata è intimidita dallo stiletto della stalattite del tempo.
Ora, pretendere che un uomo di settantadue anni spari con il suo kalashnikov nell’etere così come ci ha abituato per anni è non volergli bene per tutta la magia che ti ha regalato finora. Per la colonna sonora che ha disteso sulla tua vita. Bisogna però cominciare a fare i conti con il crepuscolo del dio. Con il non essere di quel dio. Con la sua d al minuscolo.
Ma è quello il dio che amiamo. Quello al minuscolo. Umano come noi. Compresenza di essere e non essere. Compresenza di albe e di tramonti.
Inizia Fields of Gold e ci fa pensare ai «floridi sentier della speranza»; ai campi eterni dei solidi sentier della speranza. Qui si va a eternare «nel premio che ai desideri avanza» il dio al minuscolo. E da quei campi il nostro dio del Tyne sembra bere alle fonti del nettare e dell’ambrosia. Inizia Brand New Day e sembra effettivamente un giorno nuovo di zecca. Canta Sting: «Turn the clock to zero, boss / The river’s wide, we’ll swim across / We’re starting up a brand new day / It could happen to you / Just like it happened to me / There’s simply no immunity / There’s no guarantee». Per il finito non c’è immunità, non c’è garanzia. Il non essere è sempre lì a insidiare il suo essere. Del resto lo scrive lo stesso Sting, nei termini della metafora, in Consider me Gone: «Cancer lurks deep in the sweetest bud». Ma colgo l’invocazione del mio dio del Tyne … riportiamo le lancette a zero. Certo il fiume è ampio ma lo attraverseremo. Nei tramonti pure lumeggiano le albe del nuovo giorno che verrà. Stand up ripete in finale di canzone Sting e incita il pubblico ad alzarsi. Il pubblico lo segue. Io non lo farei ma piuttosto lo spirito si risolleva di prepotenza con il nuovo pezzo che si apre. È un pezzo che adoro. Lo suonerei al basso per un tempo infinito. Suonerei quel giro di basso per un tempo infinito. Inizia Heavy Cloud No Rain. È il mio pezzo! E qui Sting va dritto per la sua strada. Non una sbavatura. Il pezzo gira. E come se gira! Manca il crescendo improvvisato sulla coda. Penso a David Sancious alle tastiere e a Vinnie Colaiuta alla batteria. Nonché allo stesso Sting al basso.
Comincio a fare una riflessione. Fin dall’inizio il batterista della band non mi è sembrato all’altezza della situazione. E però lo studio. Non spinge mai. Ripete spesso lo stesso fill sul rullante. E spesso quel fill, invece di aprire la musica, impalla le canzoni. Però è un metronomo. Non sbaglia un entrata. Una chiusura. Il basso non può certo contare sulla complicità propulsiva di Vinnie Colaiuta o di Josh Freese. Non parliamo nemmeno di Stewart Copeland ai tempi dei Police. Qui siamo quarant’anni (di anni luce) dopo. Questo batterista fa il suo. Niente di più. Che per suonare insieme a Sting è … molto di meno. Ma fatta la tara complessiva al concerto credo che la cosa sia studiata. Che sia studiata la scelta del batterista. Sting è una persona intelligente e sa evidentemente che non può tenere la scena nel modo in cui lo faceva fino a quattro anni fa. Distribuisce i compiti dunque pure agli altri in relazione a sé. I due coristi sono eccezionali. E Sting sembra volerli ringraziare quando gli lascia due spazi solisti. Prima la donna, proprio su Heavy Cloud No Rain, e poi l’uomo, su Shape of my Heart che segue … si prendono tutto lo spazio musicale. Il pubblico gli tributa una grande ovazione. Sono gli unici momenti in cui applaudo.
Sono preso fra i tramonti e le albe di Sting. Forse dalle mie albe e dai miei tramonti. «It could happen to you / Just like it happened to me / There’s simply no immunity / There’s no guarantee». Essere o non essere, non è questo il problema dell’uomo. Il problema dell’uomo, caro Amleto, è essere e non essere.
Inizia quindi una canzone che intesse d’evocazioni uno snodo vitale della mia vita. La nascita di mia figlia Beatrice. Ho sempre pensato che sia la nostra canzone. E’ Why Should I Cry For You. Mi ricorda in particolare di quando la portavo al nido. Sting porta avanti la melodia e ci sto dentro in questo modo. Nell’evocazione dell’intimità originaria di un padre con la sua figliola. Poi arriva un altro pezzo che amo. Dentro cui c’è, in un certo senso, l’intimità di me con me stesso. Siamo a All This Time.
Mi perdo in me con me stesso e non mi ricordo niente per dire qualcosa sull’esecuzione.
Il batterista continua però a venirmi all’orecchio con quel suo passo da ragioniere. Mi sta nell’orecchio in quel modo, non c’è niente da fare. Ricordo ora che c’è sempre l’effervescenza che non torna. Ecco … stavolta Sting ha scelto di pasteggiare con acqua naturale. Tiepida. E sbaglia l’arrangiamento di Mad About You. Lo sbaglia, non ci sono santi. La canzone procede con un basso stoppato. I due quarti con cui le toniche scorrono in chiave di fa sono stati ridotti a un ottavo. Comincio a pensare che tutto sia funzionale a non dover distendere troppo anche la voce. Ma può essere anche un arrangiamento non azzeccato. Mi dà l’idea di quella che non è stata una buona idea … l’idea di come Sting ha arrangiato Sister Moon in una serata con Harbie Hancok, Marcus Miller e Pat Metheny alla presenza di Barack Obama alla Casa Bianca.
Bisogna di nuovo andarsi a riprendere quanto si è perso in terra sulla luna. Inizia Walking On The Moon!
Il batterista fa il suo. La canzone procede bene. Ho la conferma. Sting sa dove non può più andare e si regola di conseguenza. Yò .. Yò Yò Yò Yo … Yò Yè … Yò Yè … chiama il pubblico a rispondere. Le geometrie della dinamica vocale non sono però le solite. Mi ricordo qualcosa di impressionante nella reunion dei Police del 2008. Chi voglia vada ad ascoltarsi Certifiable. Il live ufficiale di quel concerto. Andai prima a Torino e poi a Venezia per vederlo. Su disco è stato pubblicato il concerto a Buenos Aires. Yò .. Yò Yò Yò Yo … Yò Yè … Yò Yè … è qualcosa dentro cui la voce di Sting prende veramente la scala delle stelle per il paradiso.
Qui, invece, i pezzi degli scambi col pubblico non sono più quelli di una volta. E lo conferma subito So Lonely che viene dietro Walking on the Moon. Sting sembra piuttosto appoggiarsi al pubblico e non concede molto a quei lunghi duetti di una volta. Non concede nulla alle improvvisazioni vocali della reprise del pezzo. C’è pero una bella intuizione. Gli accordi di So Lonely sono gli stessi di No Woman No Cry … il giro del do mischiato lo avevamo battezzato ai tempi del liceo; e qui Sting se ne va per le vie del do mischiato fra il suo reggae e quello di Bob Marley. Bello!
Mi fermo caro lettore. Perché va bene che quando entro dentro questi paradigmi poi vado di getto … ma non troppo. Devo pure io imparare a dosare le mie energie. A essere indulgente con le mie stanchezze. A esserlo meno con le mie impazienze di chiudere tutto in colpo.
Rieccoci.
Inizia Desert Rose. È il pezzo della verità. Questa canzone, dagli ultimi concerti a Roma e da quello ultimissimo che ho visto a Lucca, me la ricordo come il tripudio della liberazione di ogni energia di Sting e della band. Una sorta di trionfo bacchico nelle melodie orientaleggianti della sesta aumentata. Oggi la canzone invece ha il freno a mano tirato. Sia nello sprigionamento della potenza della musica che nella voce di Sting. È la cartina di tornasole dell’idea che mi sono fatta finora di questo concerto. A questo infinito musicista che è Sting non si può dire proprio niente. Ha settantadue anni ed è lì ormai da due ore a suonare. Ma ci sono dei limiti fisici da cui lo smalto che aveva fino al 2019 non riesce più ad uscire. Si chiude Desert Rose e inizia King of Pain. Sul palco sale anche Joe Sumner, il figlio di Sting. Il palco è affollato. A pensarci c’è salita tanta gente oggi. «In this theatre that I call my soul I always play the starring role». Il ruolo da protagonista Sting non lo cede nemmeno oggi ma – fra un appalto e l’altro – c’è troppa gente sul palco stasera. Compresa Giordana Angi.
Un back up per quanto ci siamo dimenticati. Insieme a Sting, che l’ha introdotta in italiano, hanno cantato uno degli ultimi pezzi dell’autore inglese. For Her Love. In realtà è questa ragazza, cresciuta alla scuola di Maria De Filippi, ad aver cantato. L’ha cantata in italiano insieme a Sting che si è seduto e le ha lasciato il volume principale del mixer. L’ha seguita sottotraccia. In più di un’occasione il Nostro ha approfittato di una sedia che entrava e usciva dal palco per alternare momenti sulla sedia e la posizione più solita dei concerti rock … in piedi. È un concerto gestito sapientemente per dosare le energie. La prova di Giordana Angi intanto non delude ma non illude. Non si liberano particolari visioni, evocazioni musicali. Mi rimane nella memoria il movimento delle mani della ragazza che accompagnano il canto. Si vede lì la scolasticità dentro cui crescono oggi, tutti uguali, questi nuovi talenti. Che più che scoperti vengono costruiti. Per carità, impeccabili nella tecnica. Ma senza personalità. Ci vedi, nelle esecuzioni, più i maestri che lo stesso artista. Il contrario di quanto Sting cantava coi Police in Born in the Fifties … We’ll take the future / We don’t need no teacher! … Qui ormai chi si prende il futuro lo fa solo perché ha trovato il modo, fra impresari, manager e scuderie artistiche, di rimettersi didatticamente e moralmente alle maestranze, più che ai maestri, delle case discografiche.
Siamo così all’ultimo pezzo.
Si saldano qui i due lati del concerto che ci è parso di vedere e soprattutto ascoltare finora. Si salda la storia di questo incredibile musicista che è stato Sting e le opere e i giorni di oggi. Sting ormai è appunto storia. Le opere e i giorni di oggi non hanno più molto da dirci. Se non appunto quando inizia il brano della metastoria che chiude il cerchio e riporta Sting lì dove è iniziato il suo cammino e il suo successo. Sul palco Roxanne. È metastoria. Penso: Sting, questa canzone, la può cantare anche da morto! Perché Roxanne non è una canzone di Sting, e non è nemmeno la canzone di Sting … Roxanne è Sting! Lo sguardo su quella prostituta fuori da un albergo di Parigi negli anni della fame è il big bang dentro cui si è liberata tutta la forza creativa impressionante di un uomo che è stato sulla scena del rock, con un’intelligenza sopraffina, per cinquant’anni. Ed ora, che forse è giunto il big crunch di quell’universo, la fine e l’origine si ricompattano nel punto della quintessenza di questa concrezione dell’universo che risponde alla persona di Sting. Un universo dentro cui ognuno di noi sta con la potenza e la caducità della finitezza. Fragile chiude la serata e sfila come la colonna sonora di questo concerto con i suoi titoli di coda di quanto per cinquant’anni abbiamo chiamato Sting. Essere e non essere, questo è il genoma.