No Ed
(pubblicato sulla rivista Roma in Jazz il 9/07/2016 e sulla rivista MuMag Settembre 2016 con le foto del concerto di Roberto Panucci / fotografo ufficiale di Pino Daniele e collaboratore della rivista Rolling Stones Italia)
Nel suo tramonto romano il sole si affaccia ancora fra l’Aventino, l’Isola Tiberina e la volta della Sinagoga. Sembra indugiare anche lui, appoggiato sull’ansa del Tevere, per ascoltare almeno le prime note dalla storica Stratocaster di David Gilmour; o, forse, quasi a testimoniare che per questa sera speciale lascerà la sua eredità di luce al volto oscuro della luna. E così avviene. Nella scena cosmica del tramonto romano arriva sul Circo della storia millenaria l’inconfondibile stilettata della Fender di Gilmour. E’ un Mi che rompe ogni indugio e spacca la sera a metà.
Comincia la musica. Si scioglie il fluido fraseggio gilmouriano senza soluzioni di continuità attraverso le armonie strumentali della struggente e delicata 5AM. Il brano che apre l’ultimo lavoro solista, Ruttle That Lock, della chitarra che ha fatto la storia e la leggenda della musica del Novecento. E l’atmosfera è appunto fiabesca. Con le note soliste di Gilmour che, attraverso l’inconfondibile legato e il bending congenere all’anulare, tessono il filo di una melodia che gioca sempre sulla soglia fra il maggiore e il minore quasi a ricordare il destino di gioie e sofferenze dell’uomo stesso. Forse anche per questo la chitarra di Gilmour è entrata nella storia; perché sembra riecheggiare fra le sue note lo stesso destino dolceamaro dell’uomo. 5AM si chiude e sul Circo il pubblico è già in un’atmosfera di incanto; lo stupore si rinnova fra chi ama la musica e per questo è giunto a Roma da ogni parte d’Italia. La musica risolve e un’ovazione si leva verso la sagoma di Gilmour. Il tempo ha fatto il suo gioco sul volto angelico dei Pink Floyd ma nelle mani di quell’angelo il plettro è senza tempo. Il plettro e la voce.
Si apre il secondo brano, quello che dà il titolo all’ultimo album di Gilmour, Ruttle That Lock. La band è subito a pieni giri: la sezione ritmica della batteria e del basso compatta nella sua energia e nella pulizia; le tastiere taglienti ed eleganti sempre a distendere i tappeti rarefatti delle armonie gilmouriane; i magneti delle chitarre che portano dentro il rock. Quindi l’altra protagonista della serata insieme alla chitarra: si apre e ci attraversa la voce eterea e graffiante di Gilmour. Un pezzo, Ruttle That Lock, che ha un tiro travolgente e in cui c’è tutta la spinta per forzare la serratura appunto! Ognuno si abbandona alla musica; tutti si abbandonano. Lo stesso sole degli ultimi bagliori sul Tevere rompe ogni indugio e scollina dietro Monteverde. Cala la sera e il volto luminoso della luna è nel il magico schermo circolare dei Pink Floyd. Il sole se n’è andato e si affaccia ora il fischio aurorale di In Any Tongue. Ancora un brano dall’ultimo album di Gilmour. Nel suo ritmo cadenzato gli interrogativi dalla voce di Gilmour e la risposta fra la sinestesia del testo scritto a quattro mani con la moglie Polly: «I know sorrow taste the same on any tongue». Sul magico schermo circolare scorrono le animazioni dei blitz di guerra; come ci siamo abituati a vedere nei telegiornali non c’è una trincea ma tutto il movimento avviene fra le strade di una fatiscente città. Quella città in cui l’uomo non ha ancora imparato che «la sofferenza ha lo stesso sapore su ogni lingua». Forse proprio perché gli uomini e le donne di confini diversi non possono baciarsi. La musica risolve dalla voce di Gilmour in uno strumentale interlocutorio. Sono le note fra il piano e le tastiere a dire: uomo non stai meditando, ancora non hai capito la banalità, il male e il paradosso della guerra? Il tuo paradosso per eccellenza! Riprende la voce di Gilmour e canta. Canta come «Mamma suona allo stesso modo in ogni lingua». Persi gli ideali di ogni fede, da chi lo possiamo imparare meglio se non da un musicista che del suono ha fatto la ricerca di una vita? E tutta una vita si apre nel quarto brano in scaletta. La radio gira i suoi canali e la sintonia precipita e precipita tutti noi nella leggenda dei Pink Floyd.
La frequenza si ferma lì dove iniziano le note che ci hanno scavato nell’anima e si sono trovate dentro di noi una dimora per sempre: siamo alla chitarra acustica e alle pentatoniche aurorali di Whish You Were Here. Un boato e tutti aspettano la voce per intonare insieme a Gilmour … «So, so you think you can tell … » … e continuare; non dobbiamo ricordare le parole, tutto il Circo tira fuori quello che ormai ha dentro dal 1975. Ormai ha una sua propria vita questa figlia quarantenne dei Pink Floyd e ritorna a ricordare Syd Barret ma, con lui icona, quel qualcuno che ognuno di noi ha perso e con cui ha sognato; con cui ha sognato nella solitudine del mondo che ci sembrava solo una boccia di pesci rossi e in cui ha trovato l’anima gemella … «year after year».
Il concerto prende la piega dell’epica, è ormai sera inoltrata e nel volto oscuro della luna si apre la tonica/quinta/ottava fatale su cui gira l’arpeggio del basso che apre Money. La voce di Gilmour è inossidabile; pura, graffiante e ancora più intonata con un tempo in cui il fatto che il denaro sia un crimine è ancora più vero di quando il pezzo è stato scritto. Ma forse, ed è anche questo un segno del loro genio, Waters e Gilmour non si ingannavano come gli altri negli anni sciocchi e bugiardi che seguivano al boom economico. Si schiude il magnete che passa attraverso i raffinati distorsori di Gilmour (il Big Muff su tutti) e la verità che i soldi siano un crimine viene gridata dallo storico solo di Money. Una corsa forsennata fra le pentatoniche in si sul manico della Stratocaster che oggi ci parla forse della forsennata corsa in cui è precipitata la nostra società nel vortice cieco del denaro. L’unica visione che ci è rimasta, Jack, è che nessuno metta le mani sul nostro gruzzolo! La corsa forsennata si ferma e inizia l’adagio nell’arpeggio tutto inglese e trasognante di Us and Them. Ancora una denuncia del paradosso della guerra e il magistrale sax di uno strumentista che ha su per giù gli anni del pezzo a gridare il dolore lancinante del fratricidio umano.
La musica dei Pink Floyd passa attraverso le generazioni, fra il pubblico e sul palco, per un antico che rinnovandosi a ogni presente è diventato classico. Il tempo sembra quindi riprendere se stesso nei rintocchi della campana iniziale di High Hopes. Un minore dolceamaro rievoca il mondo di «magneti e di miracoli» degli anni più lucenti, soprattutto per la magia della relazione personale e artistica, dei Pink Floyd. Forse di un mondo che è svanito non solo per i Pink Floyd ma per l’intero rock ormai, nel segno dell’eterogenesi dei fini, niente altro che costruzione a tavolino e mercato. E così, in un maggiore dolce amaro si distende, sul tappeto degli archi costruito sapientemente dai due tastieristi, l’eterea voce di Gilmour: «The grass was greener / The light was brighter / The taste was sweeter / The nigh of wonder / With friends surrounded / The endless river / Forever end ever» … come finisce di pronunciare queste parole Gilmour si siede alla chitarra steel e inizia il fiume senza fine del solo che scivola in un filo di musica senza soluzioni di continuità, nel legato che ci fa dimenticare di ogni impaccio materiale di cui si disfa la forma musicale che appunto si distende e avvolge tutti. Fino a che non risuona ancora la Campana della Divisione.
Il concerto si ferma, Gilmour si prende una pausa e ci dà appuntamento fra quindici minuti. Il quotidiano, fra una birra, una sigaretta e un commento sta per rimpossessarsi del Circo quando si rispengono le luci e il pollice sul basso richiama tutti al rito sacro.
L’incipit di One of These Days stringe di nuovo tutti intorno alla musica e tutti con tutti. Si scende negli abissi della psichedelia di Waters e Gilmour; probabilmente tutti pensano all’anfiteatro romano di Pompei e al 1971. Gilmour, nella nota ossessiva del basso di Waters, suonava con le gambe incrociate davanti alla Stratocaster con lo slide che spingeva su e giù per il manico la follia dell’unico sussulto vocale con cui Mason aveva dischiuso il pezzo: «One of these days I’m going to cut you into little pieces». La follia di tante esistenze normali che nel mistero della mente dell’uomo tutto di un tratto mettono capo ai più efferati fatti di cronaca familiare di cui sentiamo oggi sui telegiornali. I Pink Floyd, nel loro profondo sentire, avevano visto anche questa inquietante ripiegatura della società contemporanea: la follia che segreta nidifica nella normalità troppo normale della civiltà borghese contemporanea. E proprio nella follia della vita che trova la sua più alta sublimazione nel capolavoro assoluto dell’arte ecco i delicati fili del Sol minore, al tempo tessuti sapientemente da Richard Wright, su cui allora come adesso arriva la stilettata del Sol più alto sul manico della Strato di Gilmor. E’ il punto forse più alto del concerto: Shine On You Crazy Diamond. Tutto il Circo riluce nel fulgore del Pazzo Diamante. I secoli della millenaria storia romana gravitano sull’asse che attraversa il baricentro di tutta la musica dei Pink Floyd. Il colpo originario di Barret, la sapiente tessitura delle tastiere di Wright, la discreta presenza strutturale della batteria di Mason, il Precision cadenzato, inimitabile, irriducibile e inattingibile anche dal miglior virtuoso, pur nella sua semplicità, di Waters; la chitarra viva, lì dove vive e ribolle nella sua origine la vita, di Gilmour. E la voce di Gilmour. Impeccabile anche in questa esecuzione a 70 anni. E’ l’apoteosi: un dio è presso il Circo in quello che è il «miracolo metafisico» fra il dionisiaco degli abissi della psichedelia e la trasfigurazione della sapienza musicale; il «miracolo metafisico» fra il minore dionisiaco delle elucubrazioni esistenziali di Waters e il maggiore delle sublimazioni eteree di Gilmour.
La tensione emotiva rifluisce in alcuni brani dell’ultimo Gilmour per riprendere quindi nell’ultimo sorso del bis: il volto oscuro della luna illumina il Circo attraverso le mitragliate sui tamburi che aprono Time; si dispiega di nuovo la voce stentorea e raffinata di Gilmour che passa poi il testimone al plettro che scivola ancora sulla Telecaster del chitarrista. Le note tirate e legate come in uno strumento a fiato sulla cadenza sincopata (suonata ora dal bravo Guy Pratt) del basso di Waters. Il miracolo e il magnete avvolgono il Circo . L’erba è ancora verde, la luce è lucente … la notte della meraviglia, pieno di amici intorno. Il fiume senza fine … Forever and ever!