L’eclissi della parola e lo smalto di Josefa
(pubblicato su il Manifesto del 26/07/2018 e su l’Espresso del 19/08/2018)
Credo che ormai né un richiamo ai fatti (i 49 milioni sottratti dalla Lega sui rimborsi elettorali e l’indagine sul ministro Savona per usura bancaria) né ai principi logici (che vorrebbero sui tetti della Camera i 5S della devoluzione benefica dei compensi parlamentari e dell’onestà finanziaria) possano scalfire la cieca adesione dei molti sostenitori di questo governo reazionario. Per diversi motivi, fra cui quello del diffuso e intensivo declino culturale congenere agli stessi strumenti della comunicazione contemporanea. Oggi si può giudicare già raziocinante un individuo quando egli continui a scrivere almeno quattro righe su Facebook invece di averlo sostituito con gli slogan o le mute immagini di Instagram. La parola sta infatti uscendo quasi del tutto dalla grazia dell’uomo ed è allora naturale che ogni complessità, cifra congenere alla democrazia, sia azzerata; e la banalizzazione ove non l’insulto, segno congenere alla demagogia, venga esaltata. I canali della comunicazione e della stessa relazione che attraverso di essa si forma precludono dunque qualsiasi auspicabile rigenerazione di valori progressisti. Ma se è probabile che la ciclicità dei momenti storici ci stia dischiudendo avanti l’età più buia della storia repubblicana, ciò non toglie che, nell’orizzonte metatemporale della legge morale, si debba continuare almeno a coltivare il testimone della fiaccola della ragione. Canta l’alieno di Sting, nella nota Englishman in New York, che nella notte una candela è più lucente dello stesso sole («at night a candle is brighter than the sun»). Ecco, è appunto questo il compito di chi si senta alieno in questo reo tempo di eclissi quasi totale: lumeggiare pure contro ogni speranza e dileggio le sue opere e i giorni perché non diventino disumani troppo disumani. Lumeggiarlo con la ragione o ancora meglio con quella «ragionevole sensibilità» (Franceschelli) per cui lo stesso soccorso all’altro non si fermi al gesto di un pure sano atto di carità ma arrivi a lasciar germogliare istanti di felicità tanto in chi è soccorso quanto in chi soccorre. Come ci sembra testimoni la vicenda delle volontarie della Ong Open Arms che dopo aver soccorso la migrante Josefa (aggrappata a quanto rimaneva di un gommone e con un’altra donna e un bambino morti di fianco) hanno pensato, in un fanciullesco consesso di complicità femminile, a tingerle le unghie con lo smalto lì dove molti oggi riescono a pensare il Mediterraneo solo nella rossa cosmesi del sangue e dell’indifferenza.