Delfi: l’ombelico della fiaba dell’uomo
Se per l’italico fiore si riscende lo stelo della Penisola fino lì dove esso s’interra e, attraverso il Mar Ionio, giunge alle sue radici, con la stretta del Golfo di Patrasso, l’Ellade accoglie il pellegrino fra i due lembi di terra dell’Acaia e della Locride in un abbraccio di bentornato. Una stretta nelle braccia dell’Acaia e della Locride così come una stretta in un abbraccio fra natura e cultura. Lì dove la destra della cultura ha saputo sempre cosa faceva la sinistra della natura e così la sinistra della natura ha saputo sempre cosa faceva la destra della cultura.
Risalendo quindi per un paio di chilometri da Patrasso verso nord-est, si giunge nella prospicenza di Rio che oggi, attraverso un moderno ponte, si riunisce al lembo opposto di terra di Antirio nella Locride. È un’infrazione al codice dell’antico che voleva che, lì dove la natura aveva voluto il mare, per mare si andasse e l’uomo non forzasse con la sua tecnica il fato: ne seppe qualcosa il re Persiano Serse che, nell’immaginario dei nostri avi ellenici, aveva perso contro le più ridotte forze greche nella epocale battaglia di Maratona, proprio perché dall’oriente persiano aveva spostato i suoi eserciti verso la Grecia, organizzando un ponte di navi lì dove, sull’Ellesponto, la grande madre natura aveva voluto le acque del mare. Ma quella dell’attraversamento del ponte che unisce Rio ad Antirio è un’infrazione molto più lieve e soprattutto pacifica. Soprattutto rivolta, ormai raggiunta la Locride, a costeggiare il mare, fra una vegetazione rigogliosa, in un cammino verso est fino a raggiungere la regione della Focide e ad approdare ai piedi del Monte Parnaso. Il monte sacro alle Muse e soprattutto il monte della ierogamia, del sacro sposalizio, fra Gea e Urano, fra la terra e il cielo. E infatti, giunti ai piedi del Parnaso, si comicia a salire, in una prospettiva dove si scontornano i confini fra i ruvidi cromatismi della roccia e l’etereo azzurro della volta. Si scontornano fino a rifluire nella sacra atmosfera di Delfi.
Il mito vuole che in questo luogo regnasse nell’antichità il drago Pitone; ma il dio Apollo, appena nato, in cammino per la scelta della sua dimora, infatuato dalla bellezza del luogo ne insidiò il primigenio inquilino; lo sfidò in un duello, lo uccise e si impossessò di questa terra. Ma anche gli dei dovevano rimettersi alle leggi della giustizia dell’ordine cosmico e così Apollo diede sepoltura, nel rispetto che si doveva ai vinti, al corpo di Pitone; nel rispetto che si doveva ai vinti ma soprattutto nel rispetto della misura (metriotes) che anche a un dio imponeva di tenersi lontano da quella che per i Greci era la colpa peggiore, la tracotanza (hybris). La dismisura morale. Quindi, oltre il rispetto, a onore del fiero avversario e a tesaurizzare la sua presenza per l’eterno, il dio, nella sua magnanimità, appellò la sua sarcedotessa con l’epiteto di Pizia (Pitia appunto da Pitone).
Discepolo della lezione della misura, il dio pensò bene di indicarla agli uomini lì dove edificò la sua dimora, il suo tempio, nel luogo dell’incanto fra le rocce, gli ulivi e lo slancio della terra verso l’etereo del cielo; nel luogo dell’incanto del cosmo, il racconto dell’incanto del mito tramanda che all’entrata del tempio di Apollo fosse scolpita l’incisione che recitava «meden agan» ovvero «nulla di troppo»; un’espressione che scandiva la vita teoretica, morale, politica ed estetica dello spirito greco; uno spirito che doveva rifluire dall’ignoranza senza pensare all’onniscenza, che doveva agire lontano dagli eccessi della viltà e della superbia, che avrebbe partorito le istituzioni della democrazia per la politica e i capolavori dell’«arte bella» per l’estetica. Uno spirito che, nella filosofia, avrebbe dovuto trovare la compiuta lezione del compito della conoscenza di sé; una lezione che insegnò al genere umano Socrate e il cui motto ci tramandano sempre essere scolpito nell’iscrizione che sul tempio di Apollo recitava solennemente «gnothi sauton», «conosci te stesso».
E proprio a risalire la Via Sacra che dall’agorà, la piazza dell’antica cittadina di Delfi, passando per i Tesori, le costruzioni in cui ogni popolo greco custodiva le sue offerte per il dio, il Teatro, in cui lo spirito agonistico ellenico si sfidava nelle gare della poesia e nel segno di questa sfida affinava l’educazione (paideia) dei cittadini, si giunge al Tempio di Apollo; in questa ascesa del passo e dell’anima, a risalire la vivida vegetazione e sotto le impervie rocce delle Fedriadi («le Splendenti»), due bastioni di rocce in cui il sole ed il cielo si radicano nella terra e questa nell’etereo risolve senza soluzione di continuità, si giunge al luogo più sacro dell’Ellade.
Al Tempio del dio Apollo tutte le genti greche venivano per onorare il dio che l’effimero rendeva eterno nella vita dell’uomo. Così canta il poeta Pindaro in una delle sue composizioni delfiche, le Pitiche: «Sogno di un‘ombra è l’uomo. Ma se un bagliore giunge, disceso dal cielo, allora splendida luce gli uomini investe, e dolce diviene la vita». Una vita che diviene dolce quando un dio lo concede e quando si ascolta ciò che il dio dice. Per ascoltare la parola del dio infatti le genti greche venivano a Delfi, al suo tempio, ai suoi sacerdoti e alla Pizia infine. Era questa la sacerdotessa che, invasata ella stessa dal dio, in uno stato di trance, in cui cadeva per le esalazioni di gas che risalivano dal sacro suolo della cella del tempio, blaterava quell’ineffabile dei cieli che i sacerdoti poi scioglievano lì dove, nel logos, l’umano consuma la sua ierogamia col divino. Ci racconta Platone, di questa esperienza della comunione dell’uomo (poeta o sacerdote) con il dio, nella sua eterna penna, il cui tratteggiare sembra attingere proprio al calamaio dello ierogamico inchiostro di Delfi: «i poeti ci dicono che, raccogliendo i canti da sorgenti che sgorgano miele da certi giardini e convalli delle Muse, li portano a noi, come le api, anche loro così volando; e dicono la verità. Cosa leggera infatti è il poeta, e alata e sacra, e non è in grado di comporre prima di diventare invasato e fuori di senno e prima che la mente non ci sia più in lui; finché invece ha questa proprietà, ogni uomo è incapace di poetare e di dare responsi». Parole da una penna eterna e nel calamaio dell’ombelico del mondo.
Questo da ultimo si deve dire di questo luogo d’incanto in cui ci si muove fra ulivi sempre verdi, rocce che bucano il cielo bagnandoci di sole e versi che trafiggono l’anima traboccante di fiaba. Il luogo dove siamo giunti non è un luogo qualsiasi: è il luogo che i nostri avi Greci credevano il centro, l’ombelico del mondo: il mito vuole infatti che Zeus stesso, il signore degli dei, volendo stabilire quale fosse il centro della terra, avesse lasciato libere dalle sue due estremità, due aquile; e dove le aquile si fossero incontrate quello sarebbe stato l’ombelico del mondo. Le aquile si incontrarono a Delfi, ombelico del mondo, ombelico di quella fiaba cosmica che prende il nome di «uomo».