Il nuovo governo e l’ideologia (patrizia e plebea) della competenza
Celebrato l’inganno della cosiddetta “fine delle ideologie” esse sono subito risorte come la verità risorgeva di fronte a quello scettico che affermava che non esisteva nessuna verità e, dicendo questo, riafferma egli stesso una verità. Ma quale ideologie sono risorte? In generale quella del denaro, del mercato e di ciò che, a ragione, è stato chiamato l’edonismo reaganiano. Sennonché, a questa ideologia, la sinistra, smarrita la sua ideologia, ha pensato di contrapporre l’ideologia della competenza. All’edonista reaganiano, declinato geostoricamente in questa remota provincia dell’Impero dalla figura e dall’opera di Silvio Berlusconi, ha contrapposto la figura del competente: Romano Prodi. Sennonché, anche in questa prospettiva, la sinistra non ha fatto altro che declinare geostoricamente nella provincia dell’Impero quello che può essere chiamato l’eticismo tecnocratico. E’ quanto si può dire nel fondo su quella che è stata la vita della cosiddetta Seconda Repubblica.
Ma ormai siamo alla terza. L’edonismo e la gaudenza, a destra, si sono trasformati nel loro opposto ovvero la depressione e il rancore populistico mentre a sinistra ancora permane una certa fiducia, che ora comincia a cercare veli di camuffamento politico, nella tecnocrazia. Ma siamo sempre lì. Ed è così che il primo dibattito sul nuovo governo è stato quello sui vestiti e la competenze della Ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova. Una donna dal vestito blu elettrico e soprattutto dall’educazione media inferiore che hanno suscitato le recrudescenze di cattivisti e buonisti italiani. I primi (ma da quale pulpito viene la predica!) le hanno additato la scarsa istruzione mentre i secondi la hanno difesa con il discorso della dignità che questa bracciante agricola ha giustamente rivendicato nel duro lavoro sui campi e nelle lotte sindacali dei contadini del Sud. Sennonché, anche in questa rivendicazione, si è cercato di intonare la legittimità a governare al criterio della competenza; all’ideologia della competenza; della competenza tecnica.
Ma qui è punto l’errore del nostro tempo. Quello di pensare che la competenza tecnica possa costituire il criterio di legittimità per l’attività del politico. Cosicché, in un mal riposto intellettualismo, si crede che al Ministero dell’Economia debba sedere un economista, a quello della Giustizia un giurista, a quello della Salute un medico, a quello dell’Istruzione un professore e così via dicendo. E’, appunto, un malinteso intellettualismo. Cioè proprio un intellettualismo. Uno sguardo invece della ragione, la grande vittima del nostro tempo (altro che l’ideologie!) ci direbbe innanzitutto che se mettessimo intorno al tavolo i dieci migliori economisti del Paese ci fornirebbero dieci ricette diverse di pianificazione economica; così come qualora chiudessimo in una stanza del Ministero della Giustizia i dieci migliori giuristi italiani avremmo dieci riforme della giustizia diverse; idem per le ricette (è il caso di dire) della Sanità o le riforme della scuola. Ciò significa che la competenza tecnica non è un criterio di discernimento politico. La competenza produce infatti, nel segno della conoscenza, una riforma e quella ad essa opposta. Viola proprio il criterio della scienza ovvero il principio logico di non contraddizione.
Ma allora, di fronte ai populismi e alla tecnocrazia, cosa significa un recupero della politica? Significa un recupero dell’educazione propria del politico. Quell’educazione che, unita a una predisposizione naturale, ha fatto sempre la figura del grande politico: da Pericle ad Aldo Moro. Uomini che, a dispetto di quanto si creda per quelli di queste società che abbiamo imparato a chiamare (secondo un altro termine ideologico) complesse (tutte le società sono complesse per definizione), avevano proprio l’educazione alla cum-plessità. Ovvero l’educazione alla conoscenza dell’uomo prima ancora che dell’individuo con la sua frammentazione che oggi è diventata la sua identità. Una conoscenza, quella dell’uomo, che ai politici (da Pericle ad Aldo Moro) è sempre derivata dalla educazione di ciò che, non a caso, è l’educazione delle humanae litterae. I Greci la chiamavano paideia. L’educazione che discende dalla frequentazione della letteratura, della storia, dell’arte e della filosofia.
I medievali parlavano in generale delle arti del trivio e con esse identificavano la grammatica, la retorica e la dialettica. Sennonché i medievali ci aiutano a rispondere su quella che sembrerebbe la grande esclusa pure dallo studio in vista dell’esercizio politico: la matematica! Come, si direbbe oggi, in una società come quella contemporanea il buon politico non dovrebbe avere una educazione alla matematica. Gli studi delle arti liberali, quelle che rendono libero l’uomo e gli consentono di operare nella libertà e per la libertà (la più dura delle fatiche di un individuo), prevedevano accanto alle arti del trivio anche le arti del quadrivio. Proprio l’aritmetica e la geometria! Ma una aritmetica e una geometria, si badi bene, che facevano rima (molto baciata) con le due altre arti liberali del suddetto quadrivio: l’astronomia e la musica! Quanto l’educazione musicale sia fondamentale per l’apprendimento della matematica ce lo dice Platone nella Repubblica. E’ il caso di citarlo, lì dove Socrate dice a Glaucone: «L’educazione decisiva, Glaucone, è quella musicale, perché il ritmo e l’armonia penetrano fino in fondo all’animo, e lo toccano in modo più vigoroso infondendogli eleganza, e rendono bello che abbia ricevuto un’educazione corretta, mentre accade il contrario all’incolto. Chi possiede una sufficiente educazione musicale può accorgersi con grande acutezza di ciò che è brutto o imperfetto nelle opere d’arte o in natura, e se ne dispiace a buon diritto, mentre sa approvare e accogliere con gioia nella suo animo ciò che è bello, e nutrirsene e diventare un uomo onesto».
Quanto sono lontane queste parole dalla concezione in cui oggi è caduta la matematica, derubricata prima a statistica e poi a ragioneria. E in relazione a un’educazione civica (solo a voler riprendere queste parole che vanno oggi tanto di moda sempre nel segno del tecnicismo), di una statistica sociale e di quella che ormai è, quando va bene, l’attitudine politica generale: la ragioneria sociale.
Recuperare la politica è impresa ardua dunque: lontano dai populismi e dai tecnocraticismi patrizi (Draghi) e plebei (la Bellanova) significa recuperare una visione complessiva dell’uomo per come egli si costituisce individualmente e collettivamente; per come egli aspira, in ultima istanza, alla felicità. Hic Rodhus hic saltus!