Il Paese della parodia
(pubblicato su ”il Riformista” del 22/04/2009)
Caro direttore,
le scrivo queste righe di ritorno da un breve ma significativo soggiorno londinese in cui ho potuto attraversare in lungo e in largo quella che senza fare torto alla sua etimologia può essere chiamata una città. L’amore per la mia città natale, Roma, e per il suo splendore non è certo stato intaccato e però, durante le passeggiate londinesi, è stato più la fonte di una certa rabbia che dell’orgoglio. La rabbia di chi, nella consapevolezza di quale grandezza abbia avuto nel passato la propria città, la vede oggi ridotta, in merito alla pulsazione vitale dei servizi, della comunicazione, del senso civico e della cultura, piuttosto alla parodia della città che non a una vera e propria città. Camminando per le vie di Londra si ha come il senso che gli amministratori della cosa pubblica romana abbiano spesso battuto le vie delle capitali europee e, al loro ritorno, non abbiano saputo far altro che dare luogo a imitazioni velleitarie e appunto parodistiche. Farò un esempio per tutto: a causa della chiusura, puntualmente indicata, di un tratto della efficiente, linda e pinta metropolitana londinese, mi sono trovato a scendere prima rispetto alla mia meta; bene, non ho fatto in tempo a risalire dal sottosuolo che subito mi aspettava, per condurmi a destinazione, un via vai di battelli che facevano una ordinaria spola sul Tamigi. L’analogo, nella nostra città, sarebbe il solitario battello turistico che alla prima piena del Tevere ha tristemente rovinato su Ponte Vittorio Emanuele. Verrebbe la voglia di proseguire in merito alla serie di velleità europeiste che i sindaci capitolini ci hanno prospettato e continuano a prospettarci puntualmente, sennonché finirò con una considerazione sulla cultura che, si sa, è poi il riflesso dell’organizzazione sociale di un popolo: non parlerò della nota gratuità dell’accesso ai musei londinesi ma di un particolare. Nella visita all’abbazia di Westminster ho notato, con un senso santo, cattolico, apostolico e romano della sorpresa, che, all’interno delle navate laterali del più importante luogo di culto londinese, campeggiava la locandina della mostra per il bicentenario della nascita di Darwin. Anche su questo punto la riflessione è ricorsa alla categoria della parodia: possiamo vantare infatti anche noi l’interlocuzione tra fede e sapere a patto però che essa sia, prima in versione teocon, quella fra gli atei devoti e i cardinali teologi e ora, in versione teodem, quella fra il giornalista dei segreti e il teologo pseudomodernista. Un’interlocuzione seria tra fede e sapere, quale, per esempio, quella proposta da Orlando Franceschelli, prima in Dio e Darwin e ora in Darwin e l’anima, o da Padre George Coyne in Fede e conoscenza. Per un nuovo incontro di scienza e teologia, è strozzata sulle soglie del Seicento, il secolo in cui, qualora lo si guardi per il verso della sua organizzazione della società o per quello dell’espressione culturale, questo nostro amato paese sembra aver finito di fare sul serio e lasciato lo spazio solo, appunto, agli astanti della parodia.