Lettera a Claudio Baglioni
Gentile Claudio,
ho passato la mia gioventù e in avanti ad ascoltare musica su e giù per le cassette che ci scambiavamo al liceo e pure a suonare sul manico della mia chitarra i Beatles, i Pink Floyd, i Police (per questi ultimi soprattutto i loro ricercati, collezionati e consumati bootleg), Sting, Roger Waters, Peter Gabriel, David Bowie, i Rush, gli Emerson Lake & Palmer. Quanto alla musica italiana: soprattutto su e giù per tutti i dischi di Pino Daniele e di Eugenio Finardi.
Questo è insomma l’humus di cui si è nutrita la mia paideia musicale e le note che attraversano ancora la mia vita.
Sennonché nel 1998, all’età di 29 anni, ascoltai e vidi il suo concerto all’Olimpico che la Rai trasmise in diretta. Era giugno, il 6 giugno. Lo ricordo esattamente perché quell’incontro mi folgorò. Naturalmente conoscevo la sua musica ma fino ad allora era rimasta sullo sfondo. Poteva capitare che l’ascoltassi dalla radio o in un’occasione simile. Sempre fortuitamente. Dopo l’ascolto e la visione di quel concerto, tutto cambiò invece. E se la monotriade anglofona Beatles / Pink Floyd / Police si compattò subito fino dagli anni del liceo, insieme a quelle di Pino Daniele e a Eugenio Finardi, la sua musica è andata a completare sempre di più la mia monotriade italica.
In posizione del tutto paritetica a quella d’Oltremanica.
Pino Daniele e Eugenio Finardi erano radicati nel mio spirito fino dagli anni del liceo e appunto, soprattutto in questi ultimi anni, dalla svolta di Oltre in poi e con la fologorazione di quel concerto del Novantotto, pure la sua musica, fra note e liriche, mi ha catturato sempre di più. In particolare quest’estate, oltre che da ascoltatore, anche nell’entrarci dentro con la chitarra e poi col pianoforte.
Quest’ultimo l’ho studiato da bambino, dai sei fino ai dodici anni; sono venuti poi gli studi della chitarra con Umberto Fiorentino nella seconda metà degli anni Ottanta. Quindi ho proceduto da solo. Ad infiltrami fra le armonie della mia musica preferita e a improvvisarci sopra con la mia Stratocaster.
In quest’ultima estate è stato tutto un gioco d’investigazione e di meraviglia con le sue armonie, le sue melodie e i suoi testi. Con la chitarra classica. Ora che sono tornato a Roma anche e soprattutto con il pianoforte. Ci vedo più studio dell’armonia di quanto le persone non sappiano e, per i testi, un grande lavoro sul linguaggio. La rarefazione della parola e dell’immagine che per questa via si riconciliano in piena insidenza fra tessuto del suono, tessuto vocale e proiezione immaginifica.
La cosa che però mi ha sempre più colpito è la sua capacità di cantautore romano che, e per la musica e per i testi, non è rimasto schiacciato dalla gergalità non solo linguistica di questa nostra città. Più giudea, a mio avviso, che cristiana, dove è quasi impossibile cogliere e riuscire ad esprimere le modalizzazioni e le determinazioni dell’Essere.
Cerco di spiegarmi un po’ di più: a Napoli, per ogni via, in ogni vicolo, in ogni persona, nelle cadenze, trovi la declinazione del Dio che si fa uomo. A Roma no. L’umanità e la musica che la esprime rimangono schiacciate dalla sua luce totalizzante e scendere nel particolare significa puntualmente scendere nel vernacolo; sia nell’espressione che nella sostanza. E’ impresa sovrumana per noi romani cogliere e rendere, dirò così, le esponenziali declinazioni della gamma cromatica che stanno fra il bianco candido della veste papale e l’oscura brutalità che attraversa sempre di più la città.
In questa impresa sovrumana mi sembra che sia la nota più importante della sua musica. Sia per i testi che per la musica. In questa e in quelli c’è tutto il catalogo delle venature che costituiscono la finitezza dell’uomo. Penso, rispetto a quello che che ho studiato da sempre e insegno da più di venti anni, la filosofia, alle categorie iniziali della Scienza della logica di Hegel in cui per le prime due, l’Essere e il Nulla, la realtà viene pensata attraverso un concetto che si innalza all’Assoluto ma che, di contro, non riesce a dare più conto della realtà finita (la famosa notte in cui le vacche sono nere rimproverata da Hegel a Schelling). Questa mi sembra, soprattutto nell’espressione artistica (figurativa, musicale, poetica etc) la sfida di ogni romano: rendere conto dell’assoluto senza rimanere accecati dal suo bagliore o inclinare in una finitezza gergale, vernacolare.
Spesso è per questa via che vengono guadagnate le esistenze nell’espressione dell’artista romano e ciò che è romano non riesce ad esprimersi se non nel romanesco quand’anche venga usato l’italiano. Questo è il punto su cui mi colpisce invece la sua musica tutta! La capacità di esprimersi da romano ma non in romanesco. Non concedere nulla al vernacolo, sia nei testi ma anche nella musica, cosa che avviene invece, a mio avviso per la maggior parte degli artisti di questa città e dei suoi cantori.
Vorrei, se trova che questo sia un discorso che possa essere di qualche interesse, parlarne con lei OMISSIS
Le mando intanto i miei ultimi due libri: una storia della filosofia, Il mondo dei filosofi, pubblicata da poco per la storica casa editrice Armando e una miscellanea di quegli studi e forme di espressione che vanno dal racconto, alla poesia, alla filosofia, Dai Greci ai Police, che hanno costituito nel tempo la mia paideia e testimoniano in fondo quasi a tutto tondo quello che è il mio spirito.
Con il più caro saluto e un ringraziamento particolare per l’attenzione preziosa con cui avrà accolto e letto queste righe,
Giuseppe Cappello
Risposta di Claudio Baglioni












