La fine della Rivoluzione
(pubblicato su ”il Riformista” del 07/02/2007)
Gentile direttore,
ricordiamo come, alla fine del 1981, con lo sguardo alla Polonia di Jaruzelski, Enrico Berlinguer si espresse nei termini in cui si prendeva atto dell’”esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre”. Oggi, se teniamo fermo lo sguardo sulle nostre società occidentali, è forse giunto il momento di una riflessione analoga sulla Rivoluzione francese. Fu, quella rivoluzione, la grande fucina in cui si svilupparono, per poi investire l’intera Europa nei due secoli successivi, gli ideali del liberalismo e , insieme, del socialismo. La stessa riflessione della Chiesa del XIX e del XX secolo, pensiamo al cammino intrapreso con la Rerum Novarum e giunto fino alle soglie del Concilio Vaticano II, dovette muoversi significativamente di fronte ai tempi nuovi, alla nuova società, alle nuove idee. Ora, se guardiamo alla nostra società italiana e, più in generale, alla comunità internazionale, lo spettacolo che ci appare è quello di un tessuto completamente sfibrato in cui nessuna delle grandi idee che nacque con la rivoluzione del 1789 sembra più avere la forza di animare l’opera degli individui e dei differenti gruppi sociali. La borghesia contemporanea non sembra essere più quella borghesia attraversata, sì, dallo spirito dei commerci e del profitto ma non per questo meno impegnata in una riflessione su come quello spirito possa declinarsi nell’organizzazione di una società giusta. Piuttosto, questo gruppo sociale mostra i tratti di un’oligarchia sempre più dispotica e rinchiusa in se stessa. Nessuno, fra i ceti sociali alti, sembra più avere veramente a cuore l’idea di un ”capitalismo dal volto umano”. Per ciò che riguarda i ceti popolari e lo stato di salute delle idee socialiste mi limiterò a uno sguardo delle periferie romane. Qui, i quartieri dormitorio e i palazzoni dei grandi centri commerciali seguono gli uni agli altri senza soluzione di continuità, né fisica né culturale. Il ”sospiro della creatura oppressa”, fra un reality show e l’altro, si spinge tuttalpiù nel segnare i suoi palazzi di svastiche e di celtiche durante i giorni feriali per poi mettersi il vestito buono e realizzarsi più urbanamente nel grande rito dell’acquisto compulsivo della domenica mattina al centro commerciale appunto. E, la domenica mattina, per altro verso, le chiese registrano sempre di più un calo delle presenze mentre l’attuale pontefice sembra anni luce lontano dall’impegnare la Chiesa in una riflessione sulla disaffezione dei fedeli e sulle esigenze della nuova società. Più importante è l’anatema, la puntualizzazione continua e anche qui compulsiva su quello che non si deve fare. Di fronte al fenomeno delle separazioni coniugali la Chiesa chiude l’ultima porta di fronte al dramma che attraversa la l’esistenza quotidiana di tanti ragazzi. La Chiesa chiude la sua ultima porta di fronte alla scelta consapevole di chi, nelle inimmaginabili sofferenze della malattia, anela l’ultima speranza di pace. La parola di Cristo, nata per essere vicino ai deboli, sembra piuttosto essere sempre di più presa a prestito per stilare il decalogo di un improbabile superuomo. Insomma, liberalismo, socialismo, carità … addio?